Pilota, manager, padre. Nelle tre vesti in cui ha vissuto il paddock, Kenny Roberts ha toccato l&rsquo;apice nell&rsquo;anno che finiva con lo &ldquo;zero&rdquo;: dal 1980, quando complet&ograve; il tris iridato nella 500, al 2000, con il Mondiale della classe regina vinto dal figlio Kenny Junior. Nel mezzo, nel 1990 King Kenny non conquist&ograve; soltanto il primo titolo da manager, ma firm&ograve; addirittura una doppietta: vinse la 500 con Wayne Rainey e la 250 con John Kocinski, piloti che erano anche sue &ldquo;creature&rdquo;. Roberts sigl&ograve; cos&igrave; un record: da allora, nessun altro team campione nella top class ha vinto il titolo in un&rsquo;altra categoria nello stesso anno. Un&rsquo;impresa paragonabile alle doppiette dei fratelli Marquez nel 2014 e nel 2019 o a un altro primato targato Roberts, l&rsquo;unica dinastia con sia il padre (Kenny) che il figlio (Kenny Junior) campioni del Mondo.&nbsp;  Unico nel suo genere, Roberts non lo &egrave; stato soltanto da pilota, con l&rsquo;introduzione della piega con il ginocchio sull&rsquo;asfalto e le rivendicazioni a livello economico e di sicurezza nei circuiti in favore dei piloti. Anche da manager, il californiano &egrave; stato un precursore, e la doppietta Rainey-Kocinski fu il frutto del modus operandi di King Kenny, con la voglia di crescersi i campioni in casa e un proprio reparto corse sempre pronto a innovare, anche andando a mettere le mani dove al costruttore &ndash; in quel caso la Yamaha &ndash; poteva non piacere. E tanto lavoro, iniziato nel 1984 in 250 con il debuttante Rainey e Alan Carter e proseguito con i quattro anni in 500 con numerose vittorie ma senza il bersaglio grosso, venne sublimato nel 1990 dalla promozione a unico team ufficiale Yamaha in 500: nel duello interno tra manager che furono leggende in pista, Roberts estromise Giacomo Agostini, che pure aveva l&rsquo;accordo con Kevin Schwantz, accaparrandosi lo sponsor del tabacco che in quegli anni era costantemente partner del principale team di Iwata.  Un passo del genere coincise con la creazione di un dream team, con Eddie Lawson, di ritorno in Yamaha dopo il successo nell&rsquo;unico anno in HRC, e Rainey. Ma come sarebbe accaduto quasi 30 anni dopo con Marc Marquez e Jorge Lorenzo alla Honda, quel dream team fu un sogno per soltanto uno dei due piloti: Rainey domin&ograve; la stagione mentre Lawson - che era stato gregario di Roberts nel 1983 ma mai aveva corso nel suo team - fu subito tagliato fuori dalla corsa al titolo per errori altrui, falciato da Mick Doohan a Suzuka (dove il californiano rimedi&ograve; una frattura al malleolo sinistro) e poi tradito da un errore ai box a Laguna Seca, dove nelle prove Eddie si ritrov&ograve; senza freno anteriore, si schiant&ograve; e si ruppe il tallone destro. Accanto al dominio di Rainey, Roberts allung&ograve; le mani anche sulla 250 grazie a Kocinski, che dopo le wild card di successo nei due anni precedenti - due vittorie in due gare nel 1989 - si aggiudic&ograve; il titolo regalando a Kenny un&rsquo;altra soddisfazione nel &ldquo;derby&rdquo; con Agostini, il cui pilota, Luca Cadalora, chiuse terzo.&nbsp;    Il ventiduenne di Little Rock trionf&ograve; dopo un&rsquo;annata da montagne russe: 14&deg; a Suzuka a causa di uno scarico rotto, Kocinski vinse tre GP di fila (USA, Spagna e Italia), ma le sue cadute in Francia e Gran Bretagna ridestarono Carlos Cardus, che con la Honda puntava a mantenere in Spagna il titolo vinto nei due anni precedenti da Sito Pons. I toni della battaglia si alzarono parecchio e dopo il successo in volata a Brno, Cardus si lasci&ograve; andare a un gesto dell&rsquo;ombrello nei confronti dell&rsquo;americano. Ma Kocinski ebbe l&rsquo;ultima parola, vincendo in Ungheria e in Australia, dove lo spagnolo - ormai sorpassato in classifica - torn&ograve; ai box per un guasto al cambio, e prese a calci la propria moto.  L&rsquo;epilogo di un weekend da thriller, iniziato con Kocinski che chiese invano a Rainey di &ldquo;scendere&rdquo; in 250 per togliere punti a Cardus, fu con lo spagnolo ad accusare il proprio capotecnico George Vukmanovich di sabotaggio. In realt&agrave;, vinse chi lo meritava: con sette successi e otto pole position, Kocinski fu il pi&ugrave; veloce. Il metodo-Roberts aveva preso forma due anni prima di quella stagione trionfale. In vista del 1988, infatti, il manager californiano aveva deciso di stravolgere la filosofia nella lineup della squadra: via il veterano Mike Baldwin e Randy Mamola, velocissimo (quattro vittorie tra &lsquo;86 e &lsquo;87) e spettacolare quanto irregolare, e soprattutto attirato dalla munifica offerta della Cagiva, dentro due piloti sostanzialmente al debutto nella classe regina. Ma l&rsquo;australiano Kevin Magee non convinse fino in fondo e si&nbsp;inimic&ograve; il lato americano del paddock quando, nel 1989, nel giro d&rsquo;onore di Laguna Seca sfog&ograve; la rabbia per un risultato mancato a causa di problemi tecnici facendo un burnout a centro pista. Il fumo fu tale che l&rsquo;australiano venne tamponato dalla wild card Bubba Shobert (un idolo in patria) che per le conseguenze dello scontro dovette chiudere la carriera.  L&rsquo;altro pilota, Rainey, si rivel&ograve; il cavallo vincente: Roberts lo volle fortemente, a dispetto dei critici. &quot;Venni definito idiota, quando scelsi di sostituire Mamola con Wayne&quot; ha ricordato Kenny, come sempre senza peli sulla lingua. &quot;Credevo in Rainey, sapevo come trattarlo e amavo lavorare con i piloti emergenti. E poi lui imparava in fretta, assorbiva tutto ci&ograve; che gli dicevo&quot; .    Tra Roberts e Rainey, la simbiosi era totale, anche per le origini comuni: Rainey &egrave; di Monterey, Kenny di Modesto, e la distanza &egrave; inferiore alle due ore in auto. E sempre in quell&rsquo;area, a Hickman, sorgeva il ranch di Kenny, con la pista da Dirt Track, base d&rsquo;allenamento per i piloti - una novit&agrave; in grado di fare scuola - che poi in pista avrebbero dovuto domare purosangue imbizzarriti da poco pi&ugrave; di 100 kg di peso a fronte di 160 cavalli. Quei mezzi che spaventarono persino l&rsquo;uomo pi&ugrave; famoso del Motorsport negli Stati Uniti, Mario Andretti: &quot;Iniziai a correre in auto perch&eacute; non ero abbastanza bravo in moto&quot; disse l&rsquo;ex iridato di Formula 1, ricordando un test a Laguna Seca su una di quelle YZR. &quot;Non avevo mai guidato nulla che avesse cercato di lanciarmi in orbita per aver azionato appena un quarto dell&rsquo;acceleratore&quot;.  Se per Rainey fu quasi naturale finire sotto l&rsquo;ombrello di Roberts, Kocinski volle fortemente entrare nella scuderia. Partito dall&rsquo;Arkansas, dove il padre mantenne la promessa di farlo &quot;Correre fino a 18 anni, poi ti dovrai arrangiare&quot;, John John inizi&ograve; a sognare a occhi aperti quando dopo una vittoria a Pocono ricevette da Roberts la TZ 250 e il supporto di un tecnico come Bud Aksland. Certo, le stranezze che lo accompagnavano erano evidenti quanto il talento, e dividere il motorhome con un maniaco della pulizia come John non era facile per Rainey, spesso costretto a chiedere al compagno di squadra di spegnere l&rsquo;aspirapolvere nelle ore notturne.  Non fu per questo, per&ograve;, che i rapporti all&rsquo;interno del team si guastarono. Per esempio, John avrebbe voluto rivincere in 250, ma prevalse la filosofia di Roberts: One and done, bersaglio al primo colpo, e si sale al livello successivo. In 500, Kocinski si vide privato di Aksland (&quot;Se me l&rsquo;avessero lasciato chiss&agrave; dove saremmo arrivati&quot;). E non am&ograve; vedere lo sviluppo della ciclistica fatto per Wayne - e provate a spiegare a Kocinski che si trattava &ldquo;soltanto&rdquo; del campione della 500&hellip; - n&eacute; tantomeno essere trattato da &ldquo;cavia&rdquo;, per sperimentare le nuove sospensioni oppure altre innovazioni.  All&#39;interno&nbsp;del box di Roberts, infatti, non si lavorava soltanto sulla messa a punto. In quel 1990, in cui per il titolo in 500 fu determinante anche il passaggio dalle Dunlop alle Michelin, il Team Roberts era un reparto corse. &quot;Per me non era mai abbastanza, volevo sempre che la moto fosse migliore, perch&eacute; sapevo quanto potesse essere gratificante vincere da manager, condividendo la gioia con altre persone&quot; disse Kenny.  Fece storia l&rsquo;introduzione, gi&agrave; nell&rsquo;88, dei freni in carbonio: &quot;Se li avessi chiesti alla Yamaha, ci avrebbero detto che era troppo presto, cos&igrave; ci pensammo noi&quot; aggiunse Roberts, spiegando come il budget per tale sviluppo non arrivasse da Iwata, ma dallo sponsor tabaccaio. Lo stesso accadeva per molto altro: cilindri, pistoni e scarichi, non ultima un&rsquo;innovativa centralina per la raccolta dei dati, sviluppata dall&rsquo;elettronico Tom O&rsquo;Kane, uno dei numerosi tecnici determinanti all&rsquo;interno del team, come Warren Willing e Mike Sinclair. Roberts avrebbe continuato con la visione avveniristica, e convincendo la Yamaha a vendere i motori a telaisti come ROC e Harris evit&ograve; che la 500 rimanesse con una dozzina di partecipanti. Successivamente divenne costruttore, ma con risultati inversamente proporzionali all&rsquo;impegno&nbsp;e al coinvolgimento anche di menti brillantissime della F1, come John Barnard. Resta per&ograve; la soddisfazione dell&rsquo;ultima pole di una moto due tempi in MotoGP, nel 2002 in Australia, con la Proton KR guidata da Jeremy McWilliams.  Rainey resta il simbolo della seconda vita di Roberts in pista. Terzo nel Mondiale del 1988, secondo nel 1989, l&rsquo;escalation del californiano prosegu&igrave; con il dominio del 1990, il bis del 1991 e l&rsquo;incredibile rimonta in un 1992 caratterizzato prima dal proprio infortunio e poi da quello di Mick Doohan. Nel 1993, Rainey sembrava aver portato dalla propria il duello con Schwantz, ma il sogno del quarto titolo si infranse sull&rsquo;incidente dalle conseguenze tremende di Misano. Soltanto parecchi anni dopo aver perso l&rsquo;uso delle gambe, 26 per l&rsquo;esattezza, Rainey &egrave; risalito in sella a una Yamaha con livrea biancorossa, accanto proprio a Lawson e Roberts, in un luogo simbolico come Suzuka. Trent&rsquo;anni fa, con gli stessi uomini al suo fianco, in Giappone inizi&ograve; la leggenda del californiano, capace di ripetere il tris di Roberts in un&rsquo;era di fenomeni, battendo i Doohan, Schwantz, Lawson e Gardner. Questa volta &egrave; iniziata la sua nuova vita in sella.    Wayne Rainey, il doppio ritorno 

Nel 1990, Roberts non si limit&ograve; a conquistare il primo titolo da manager, ma&nbsp;fece doppietta: Rainey campione della 500, Kocinski della 250. 10 anni prima, il marziano aveva completato il tris iridato da pilota

Ritorno al Futuro, 1990: il team Roberts e la legge dello zero

Dieci anni dopo l&rsquo;ultimo successo di Kenny Roberts &egrave; stato un altro americano, Wayne Wesley Rainey, a vincere la classe 500. Cio&egrave; la pi&ugrave; iconica, meravigliosa, stupefacente categoria che ogni appassionato di motociclismo che ha potuto vivere anche quell&rsquo;epoca ricordi. A met&agrave; tra Roberts e Rainey, altri piloti a stelle e strisce avevano dominato la scena, Freddie Spencer e Eddie Lawson, vincendo rispettivamente due e quattro titoli della top class, dove quello americano era un autentico impero, arricchito anche dai numeri di Randy Mamola e Kevin Schwantz.  Era il 1990 e il ventinovenne Rainey viveva la terza stagione nella classe regina, la quarta nel Mondiale dopo aver disputato la 250, nel 1984, senza lasciare il segno. Un terzo posto era stato il miglior risultato di quell&rsquo;anno di apprendistato, e il biglietto di ritorno in America, nell&rsquo;AMA, fu timbrato con la ramanzina di Kenny Roberts, al debutto come team manager: &quot;Rainey non &egrave; pronto. Questo &egrave; il Motomondiale, non l&rsquo;AMA. Qui corrono i migliori piloti del mondo e credo sia meglio rispedirlo in California&quot;. Detto, fatto. Un ritorno in patria cos&igrave; utile che tre anni pi&ugrave; tardi, proprio Roberts avrebbe richiamato Rainey per il Mondiale. Considerandolo pronto per la classe mostruosa. Nel 1988 arriv&ograve; subito un successo, il primo nel Mondiale, a Donington, l&rsquo;anno dopo Wayne sal&igrave; sul podio tredici volte in 14 gare - ma l&rsquo;unico &ldquo;zero&rdquo;, ad Anderstorp, fu fatale nella corsa al titolo - e dal terzo anno il californiano non ha pi&ugrave; smesso di vincere fino a quando il destino si &egrave; messo di traverso, ponendo fine alla sua carriera motociclistica nel GP di Misano del 1993.  Il 1990 &egrave; stato il suo anno. Quello di Roberts era un dream team con Rainey da una parte e il campione in carica Eddie Lawson dall&rsquo;altra, ma il quattro volte iridato usc&igrave; subito dai giochi. Primo Gran Premio, in Giappone, sulla spettacolare e difficile Suzuka: Rainey trionf&ograve; in solitario come suo stile - celebre il ritmo infernale che imprimeva nei primi giri, quando partiva al comando e faceva selezione - lanciando il leit motiv dell&rsquo;annata, mentre Lawson cadde trascinato a terra da Mick Doohan, rimediando un primo infortunio.    Secondo GP, ed ecco l&rsquo;incidente che gli fece dare l&rsquo;addio ai sogni di gloria: a Laguna Seca, un errato fissaggio delle pastiglie dei freni anteriori lasci&ograve; Eddie senza freni. Nella caduta, la rottura del tallone costrinse il californiano a due mesi di stop. Durante i quali Rainey allung&ograve; le mani sul campionato, vincendo anche a Laguna Seca, la pista che oggi vede da casa sua e dove gli &egrave; stata intitolata una curva. Il duello qui fu con Kevin Schwantz, che prov&ograve; a resistergli ma cadde, infortunandosi al polso sinistro. Due vittorie su due gare per Rainey, pilota sportivo, leale, corretto, il biondino dal tono pacato che rappresentava, ora s&igrave;, il peggior incubo per gli avversari. E come avrebbe fatto Marc Marquez nel 2019, anche il Rainey del 1990 chiuse l&rsquo;anno salendo sul podio in ogni GP portato a termine, con un solo &ldquo;zero&rdquo;, rimediato in Ungheria, a Mondiale vinto.  La differenza tra Marc e Rainey sta nella moto: le 500 venivano paragonate a cavalli imbizzarriti e no, non perdonavano. Ai &ldquo;cavalieri&rdquo; serviva la giusta dose di follia e di coraggio. Basti pensare che gli unici piloti a non incappare in infortuni pesanti quell&rsquo;anno furono soltanto Rainey e Doohan (proprio loro che successivamente avrebbero pagato un conto salatissimo) mentre Schwantz, seppur acciaccato, riusc&igrave; a non saltare nessun GP. Tutti gli altri - Lawson, Gardner, Chili, Sarron, Mamola, Pons, Haslam per non parlare di Kevin Magee che rischi&ograve; la vita a Laguna Seca - saltarono gare, con griglie di partenza ridotte ben sotto le 20 unit&agrave;. All&rsquo;epoca restava in piedi soltanto il pi&ugrave; bravo e il californiano con la sua guida pulita, precisa, elegante e la sua capacit&agrave; di guidare &ldquo;sui&rdquo; problemi fu il campione indiscusso.  La terza gara and&ograve; in scena a Jerez: dopo aver dominato 18 dei 29 giri, Rainey sub&igrave; un sorpasso in staccata dal suo omonimo australiano, Gardner, portando a casa un secondo posto ugualmente importante. Il ventinovenne torn&ograve; poi alla vittoria a Misano con una prova di forza in una gara iniziata asciutta e conclusa in condizioni insidiose, dopo esser partito dalla pole position. Dalla sua qui aveva il grande numero di curve a sinistra, l&rsquo;ideale per chi si &egrave; sempre allenato nel Dirt Track. Proprio in quella disciplina impar&ograve; a guidare mettendoci del proprio per ovviare alle lacune dell&rsquo;assetto e delle gomme, derapando anche senza avere quella sensazione di fiducia desiderata. Tutto questo, rendeva Rainey - magari non spettacolare come Schwantz, ma coraggioso e tremendamente efficace - un vero animale da gara. Dall&rsquo;Italia, il Circus si spost&ograve; poi in Germania, al N&uuml;rburgring, dove nelle libere Gardner cadde e rimedi&ograve; nove fratture al piede destro. Lasciando cos&igrave; campo libero soltanto a Rainey e Schwantz nella corsa al titolo, una rivalit&agrave; divampata gi&agrave; anni prima, da &ldquo;compagni&rdquo; nella selezione americana al Transatlantic Trophy, quando i migliori piloti AMA venivano a fare capolino in Europa.    Una rivalit&agrave; che sarebbe proseguita fino al &rsquo;93, con duelli mozzafiato. In terra tedesca fu il texano a trionfare, con Rainey limitato da una lussazione al mignolo della mano sinistra rimediata in prova, un infortunio da niente considerando cosa accadeva agli altri piloti della 500 di quell&rsquo;anno. Rainey raccolse poi un secondo posto anche in Austria, sempre alle spalle di Schwantz dopo un duello acceso per tutti i 29 giri di una gara tiratissima, a 192 km/h di media. Il terzo? Un &ldquo;certo&rdquo; Doohan, poi cinque volte iridato, che sulla Honda NSR rimedi&ograve; 25 secondi...  Rainey torn&ograve; alla vittoria la settimana successiva a Rijeka, nello storico ultimo GP Jugoslavia, dominando. In Olanda, tornarono a lottare anche Lawson e Gardner, ma fu Schwantz a calcare il gradino pi&ugrave; alto del podio, inseguito da Rainey. Al nono GP stagionale arriv&ograve; il crollo di Schwantz, che sotto la pioggia di Spa-Francorchamps non riusc&igrave; a far valere le doti di funambolo: fu settimo, staccatissimo da Rainey. Teatro del decimo GP fu Le Mans, dove Schwantz torn&ograve; alla ribalta con una rimonta clamorosa dalla settima casella. Rainey non pot&eacute; fare altro che inchinarsi al suo strapotere, terzo sotto la bandiera a scacchi alle spalle anche di Gardner. E anche la gara britannica port&ograve; la firma del pilota Suzuki, che non aveva alcuna intenzione di mollare la presa del sogno iridato: con questo quinto successo pareggi&ograve; il numero di vittorie di Rainey. Ma la differenza la fece la continuit&agrave;: quando le cose non giravano per il verso giusto, Schwantz non limitava i danni.&nbsp; Rainey si rifece in Svezia, nel dodicesimo appuntamento, ipotecando il titolo iridato (+47 punti), in una gara che senza colpi di scena sarebbe stata favorevole a Honda e Suzuki. Invece Schwantz cadde dopo due giri. Ad aiutare Rainey fu Lawson, che fece da guardaspalle del compagno, difendendolo da un possibile ritorno di Gardner.  Brno fu il teatro della festa di Rainey che non si accontent&ograve; di arrivare al traguardo, come gli sarebbe bastato dopo la caduta di Schwantz: Wayne decise di laurearsi campione del Mondo da vincitore del GP. Il ragazzo preciso e posato, non un personaggio da grande audience, perse finalmente la sua compostezza dopo la bandiera a scacchi e festeggi&ograve; come meritava il suo ingresso nell&rsquo;albo d&rsquo;oro del motociclismo: &quot;Che liberazione! L&rsquo;ultimo giro mi ha regalato sensazioni indescrivibili. E sul traguardo, poi, con tutta la squadra in piedi sul muretto, mi sono commosso fino alle lacrime&quot; comment&ograve; a caldo. &quot;Portarmi nella classe regina &egrave; stata una scommessa nella quale credevano soltanto due persone: io e Kenny Roberts Sono davvero felice di averlo ripagato&quot;.  La sua tattica &egrave; sempre stata chiara: &quot;Pensare sempre a vincere &egrave; stata la mia arma migliore in questo campionato e non ho voluto cambiare strategia. Se fossi caduto inseguendo un piazzamento sufficiente a darmi la matematica certezza del successo non me lo sarei mai perdonato&quot;. Il pensiero sottolinea quella purezza d&rsquo;animo e quell&rsquo;umilt&agrave; che lo contraddistinguevano: &quot;Lo dedico a Mike Sinclair (il capomeccanico, ndr) e a tutti i ragazzi della squadra, senza di loro non ce l&rsquo;avrei mai fatta&quot;. Ragazzi con i quali avrebbe festeggiato anche nel 1991, dopo un&rsquo;altra annata sempre in vetta, e nel 1992, dopo l&rsquo;incredibile rimonta ai danni di Doohan.  Eguagliato il tris del mentore Roberts, per Wayne il poker sembrava vicino, ma a Misano la sua strada si interruppe. E quel giorno, l&rsquo;epilogo della carriera di Rainey coincise con l&rsquo;inizio della fine del predominio - nei risultati e nel dettare il modo di guidare - dei piloti statunitensi.  Wayne Rainey, il doppio ritorno 

Biondo, californiano, vincitore di tre titoli consecutivi sulla Yamaha 500: non &egrave; Roberts, ma il suo erede, Rainey, che trent&#39;anni fa entrava nella leggenda

Ritorno al Futuro, 1990: Wayne Rainey, il figlio del re

Tre vittorie in 125, e il bis nella nuova Moto2, subito dopo il salto di categoria. Scelse il modo pi&ugrave; rapido per farsi conoscere, quel ragazzo con la &ldquo;erre&rdquo; moscia che arrivava da Vasto, Abruzzo, non proprio il centro del Mondo del motociclismo. Il 2010 fu il trampolino per Andrea Iannone, e dire che le premesse non lasciavano presagire quel salto di qualit&agrave; testimoniato dal terzo posto nel Mondiale, con i successi al Mugello, Assen e Arag&oacute;n, e altri cinque podi. Il secondo posto, andato a Julian Simon, sfugg&igrave; per soltanto due punti, nella stagione dominata da Toni Elias. Eppure alla vigilia del Mondiale, Iannone era a piedi...  A ricordare l&rsquo;avvio in salita &egrave; proprio Andrea: &quot;Arrivavo da un anno buono in 125, avevo un contratto con l&rsquo;Aprilia e Giampiero Sacchi, e avevo grandi aspettative per il mio esordio nella classe di mezzo. Ma poche settimane prima del via della prima gara mi ritrovai senza moto e senza contratto perch&eacute; l&rsquo;Aprilia decise di ritirarsi dalla Moto2. Non fu per niente facile. A quel punto i team erano al completo e tutti i piloti avevano una moto con cui correre la stagione. Per fortuna poi trovammo la soluzione e riuscimmo a partire&quot;.&nbsp;  La soluzione porta il nome di Speed Up e a raccontare nel dettaglio cosa successe &egrave; Luca Boscoscuro, che in comune con Iannone aveva l&rsquo;uscita dall&rsquo;Aprilia e la necessit&agrave; di trovare una soluzione al volo. Il manager veneto fu la mente alla base del progetto Speed Up, che ancora oggi corre con successo nella classe di mezzo: &quot;Dopo la decisione dell&rsquo;Aprilia part&igrave; la nostra avventura - spiega Boscoscuro - tutti quanti in quel periodo si affidavano a Suter o Moriwaki, invece noi a gennaio decidemmo di prendere delle moto in Inghilterra, le FTR, e farle &#39;nostre&#39;. Fu molto difficile perch&eacute; costruimmo una moto nuova in pochissimo tempo, fu una corsa contro il tempo. A mio avviso, per&ograve;, fu un&rsquo;avventura stupenda. Tutti lavorammo come matti, decidemmo anche di saltare dei test per prepararci al meglio in vista delle gare. E, con il senno di poi, possiamo dire che questa scelta ebbe successo&quot;.&nbsp;  Al via in Qatar, l&rsquo;11 aprile 2010, la Speed Up si present&ograve; pronta per correre, e Boscoscuro rivela: &quot;Nelle prime due gare Andrea non and&ograve; molto bene (non raccolse punti, nde) ma era anche un debuttante con una quattro tempi. Il suo compagno di squadra Gabor Talmacsi (due Top 10 per il pilota che chiuse sesto la stagione, nde) mostr&ograve; cose positive, segno che la base del progetto era buona. Dal GP Francia, il terzo in calendario, capimmo davvero come funzionava tutto: Iannone chiuse quarto a pochi secondi dal vincitore, Elias, e la gara successiva fu il Mugello. Un ricordo strepitoso&quot;.    Iannone e la Speed Up colsero una vittoria al 100% Made in Italy, e proprio il GP Italia fu teatro della prima vittoria tricolore nella storia della Moto2. Quel fine settimana fu tutto del pilota di Vasto che con la sua moto trov&ograve; subito il feeling giusto: il venerd&igrave; chiuse quarto a soltanto qualche decimo dal primo, sabato miglior&ograve; nelle prove libere prima di conquistare la pole position per 260 millesimi su Elias. Domenica, Iannone prese subito la testa della corsa, senza lasciarla pi&ugrave; per tutti i ventuno giri, dominando la scena.  Boscoscuro la ricorda cos&igrave;: &quot;Andrea fu protagonista con un grande vantaggio sugli inseguitori: fu un&rsquo;emozione fortissima vederlo tagliare il traguardo dopo una gara cos&igrave;. E poi quando vinci in Italia &egrave; bellissimo, noi avevamo tutti gli sponsor italiani, tutti noi siamo italiani e la soddisfazione fu unica sapendo che venivamo da un periodo difficilissimo. Da l&igrave; in poi la stagione prese la svolta giusta&quot;.  Le parole a caldo di Iannone di quella domenica furono: &quot;&Egrave; stata una gara difficile, ma allo stesso tempo molto bella. Non dimenticher&ograve; mai questo giorno. &Egrave; la seconda volta nella mia carriera che riesco a ottenere la pole, registrare il giro veloce in gara e vincere il GP. Tutto questo &egrave; stato possibile grazie alla moto, che ha funzionato alla perfezione. Voglio ringraziare la squadra, i meccanici, il mio capotecnico e chi lavora con me: il loro impegno ha reso possibile tutto questo&quot;.  Questa prima vittoria, per&ograve;, non fu del tutto inaspettata, infatti Boscoscuro ricorda: &quot;Dopo i primi tre GP avevamo capito che pi&ugrave; o meno il bandolo della matassa l&rsquo;avevamo trovato. Quando &egrave; il momento di correre la gara e Andrea si sente bene, &egrave; sicuramente uno dei piloti pi&ugrave; forti con cui abbia mai lavorato. Sono indubbi i numeri del suo talento. Dopo le prime due gare pensavo che fosse un po&rsquo; pi&ugrave; difficile vincere, ma questa &egrave; la differenza che fanno i piloti che hanno talento: quando capiscono il loro limite e tutto quello che hanno intorno, disputano delle gare splendide. E Andrea corse gare incredibili&quot;.    Quattro gare erano bastate a un progetto cos&igrave; giovane per salire sul gradino pi&ugrave; alto del podio, ma il Mugello non fu un caso isolato. Venti giorni dopo arriv&ograve; la replica ad Assen, con un altro one man show dell&rsquo;allora ventenne abruzzese. Partito dalla pole, Iannone arriv&ograve; a costruire un vantaggio di otto secondi sugli inseguitori, e quel successo lo fece entrare nella lotta per il titolo. Erano 43 i punti a separarlo da Elias dopo la sesta gara, ma per vincere un campionato &egrave; necessario che diversi fattori combacino.&nbsp;  Boscoscuro ricorda alcune disavventure di quell&rsquo;anno, che incisero in maniera decisiva sulla classifica: &quot;A Barcellona fummo frenati da una bandiera non rispettata, con conseguente ride through, e perdemmo una gara che, dal mio punto di vista, potevamo vincere. Al Sachsenring, dove Andrea aveva conquistato la quarta pole position della stagione, pagammo un calo di gomme proprio sul finale, dopo essere stati in testa per la maggior parte della gara: al traguardo Elias chiuse davanti a Iannone. In tutte le gare eravamo molto competitivi, per&ograve; non bisognava buttare via punti: ci fu un errore a Indianapolis, dove eravamo molto veloci, nel primo giro di qualifica Andrea cadde e rimedi&ograve; una doppia frattura alla mano sinistra e una brutta botta al piede sinistro. Nonostante questo il giorno dopo fu quarto in gara. Poi ricordo anche un errore grandissimo a Estoril - una caduta a una manciata di giri dalla fine, mentre Andrea stava rimontando con il ritmo dei primi - purtroppo sono queste le cose che alla fine ti fanno perdere il campionato del Mondo&quot;.&nbsp;   Non mancarono nemmeno altri momenti da ricordare: ad Arag&oacute;n, Iannone firm&ograve; un altro assolo, spezzando la sequenza di quattro vittorie di Elias. La festa per il team fu completa perch&eacute; anche Talmacsi and&ograve; sul podio, terzo.  Terzo a fine 2010, Iannone si sarebbe confermato nelle due annate seguenti, con altri cinque successi e la capacit&agrave; di non chinare il capo di fronte al marziano Marc Marquez. Come nel 2012, quando Iannone e la Speed Up si ritrovarono dopo un anno in cui Andrea corse con la Suter. &quot;Andrea ha un talento enorme, impossibile da non riconoscere - conclude Boscoscuro - in 125 aveva fatto buoni risultati, andava forte. Ma &egrave; con noi in Moto2 che ha conquistato il maggior numero di punti della sua carriera, con i 199 di quel 2010. Se tutto era a posto vincevamo per distacco. Quando era in giornata non ce n&rsquo;era per nessuno&quot;. E lo stesso Iannone concorda: &quot;Vincere al Mugello fu stupendo, e in generale quello &egrave; stato un anno fantastico&quot;.  Doping: ora Iannone rischia 4 anni di squalifica 

Andrea Iannone e la Speed Up in fuga, con alle spalle il vuoto. Un&rsquo;immagine ricorrente nei successi del 2010: tra Mugello, Assen e Arag&oacute;n, l&rsquo;abruzzese e la moto veneta rifilarono un gap medio di oltre 4&quot; ai rivali

Ritorno al Futuro, 2010: Iannone, dalle stalle alle stelle

Il 20 maggio 2012 rappresenta una data storica per i piloti di nome Rossi: quel giorno Valentino conquist&ograve; il suo miglior risultato con la Ducati, giungendo secondo nel GP Francia davanti al campione del Mondo in carica della MotoGP, Casey Stoner. Tre ore prima, il francese Louis contribu&igrave; a incrementare il palmares dei Rossi, vincendo la gara della Moto3. E proprio grazie a quest&rsquo;ultimo i Rossi sono a soltanto quattro vittorie nel Motomondiale dagli Agostini, 119 a 123. Ai 115 trionfi di Vale vanno aggiunti i tre di pap&agrave; Graziano e l&rsquo;unica affermazione iridata di Louis, che &egrave; soltanto omonimo della famiglia di Tavullia.  Un successo difficilmente prevedibile dopo le sue prime prestazioni nel Mondiale: nei primi 21 GP, tutti corsi in 125, la maggior parte con la Honda, i restanti con l&rsquo;Aprilia, l&rsquo;allora ventiduenne Louis non era mai approdato in zona punti. Neppure la rottura di questo tab&ugrave;, al GP Repubblica Ceca 2010 in cui fu 14&deg;, gli consent&igrave; di invertire la tendenza.  Almeno fino all&rsquo;approdo, nel 2011, nel Team Matteoni, con cui and&ograve; a punti in nove gare su 16. E quando, l&rsquo;anno dopo, la ottavo di litro venne pensionata per lasciare spazio alla Moto3, Rossi riusc&igrave; a esprimere buona parte del suo potenziale con una FTR-Honda gestita dal Racing Team Germany.  In Qatar, all&rsquo;esordio della nuova categoria, stamp&ograve; il terzo tempo in qualifica, anche se poi in gara fu soltanto nono. All&rsquo;appuntamento seguente, a Jerez, si port&ograve; in testa prima di perdere l&rsquo;anteriore e rimediare uno &ldquo;zero&rdquo;. Un&rsquo;altra caduta, all&rsquo;Estoril, fiacc&ograve; il morale di Louis proprio alla vigilia della gara casalinga, a Le Mans. Casalinga in tutti i sensi, perch&eacute; Rossi &egrave; nato proprio a Le Mans nel 1989.  &quot;Non devi esercitare troppa pressione su te stesso e cadere nella trappola di voler fare troppo bene&nbsp; - raccontava ai giornalisti suoi connazionali - per me questo GP &egrave; una gara come le altre. L&rsquo;unica differenza &egrave; che in fondo sono molto pi&ugrave; richiesto dai media!&quot;.   Dopo un deludente 17&deg; posto in FP1, Louis trov&ograve; fiducia, piazzandosi terzo nelle FP2. Le qualifiche, disputate sotto l&rsquo;acqua, lo relegarono per&ograve; in fondo alla quinta fila, a oltre due secondi e sette decimi dalla pole da Maverick Vi&ntilde;ales, complici gli impegni multipli a cui lo costringeva l&rsquo;assenza di un manager: &quot;Il telefono suonava in continuazione, durante le prove non avevo il tempo di fare nulla, &egrave; stata durissima anche concentrarsi per la gara&quot;. Colpa degli 80 ospiti che aveva invitato, alcuni suoi sponsor personali, altri potenziali partner. Con simili presupposti, le sue dichiarazioni post-qualifica non furono particolarmente bellicose: &quot;Devo saper tenere i piedi per terra e non lasciarmi trasportare. Per prima cosa devo essere regolarmente nella Top 10. Poi dovremo puntare a salire di livello e inseguire la Top 5. Infine, il mio obiettivo &egrave; quello di sforzarmi a fare meglio, in ogni GP senza errori&quot;.   A meno di 24 ore dalla gara restava da risolvere un problema, e nessun membro del suo team avrebbe potuto metterci una pezza. Louis non aveva un posto dove trascorrere la notte perch&eacute; aveva prestato il suo camper agli ospiti mentre la casa di suo padre era stipata di gente. Cos&igrave; buss&ograve; alla porta della nonna per dormire su un materasso sistemato alla bell&rsquo;e meglio sul pavimento. Non certo l&rsquo;ideale prima di una giornata di lavoro importante. &quot;Potrebbe esser peggio, potrebbe piovere&quot; avrebbe detto Igor (Frankenstein Junior) in una simile situazione. E infatti quella domenica il cielo scaric&ograve; centimetri su centimetri di acqua, ma non riusc&igrave; a tenere lontani dal circuito 80.025 spettatori.    Quando fu dato il via della gara, la temperatura dell&rsquo;aria era di 15 gradi e quella dell&rsquo;asfalto soltanto di 11. Tali condizioni consigliarono ai piloti una condotta di gara attenta, ma soltanto in avvio, perch&eacute; poi inizi&ograve; il valzer delle scivolate. Unica eccezione Louis, deciso a giocarsi il tutto e per tutto. Con una partenza fulminea infil&ograve; nove avversari nel primo giro, poi si acquiet&ograve; fino all&rsquo;ottava tornata. A met&agrave; gara, con il sorpasso su Luis Salom entr&ograve; nella Top 5.  Le cadute di Hector Faubel e Jakub Kornfeil, primo e terzo, lo portarono in terza posizione e con l&rsquo;uscita di Salom, primo degli inseguitori, il podio sembrava in cassaforte: il trio di testa aveva 17 secondi di margine. Ma dopo tre giri anche Miguel Oliveira, passato a condurre, fin&igrave; a terra. Soltanto nove secondi dopo analoga sorte tocc&ograve; a Vi&ntilde;ales che ne aveva rilevato la posizione. Sembrava di assistere a una maledizione, ma Rossi non aveva pi&ugrave; avversari nelle vicinanze e un tesoretto di 22 secondi su Sandro Cortese. Mancavano per&ograve; ancora sette giri, i pi&ugrave; lunghi della carriera di Rossi: &quot;Dopo tre quarti di gara in gruppo mi sono ritrovato da solo, non dovevo abbassare il ritmo perch&eacute; a farlo sotto la pioggia rischi di cadere. Negli ultimi cinque giri ho sofferto moltissimo&quot;.&nbsp;   Per effetto della caduta del tedesco di origini italiane, Rossi tagli&ograve; il traguardo con 27 secondi su Alberto Moncalvo e quasi 29 su Alex Rins. Soltanto 15 piloti furono classificati e soltanto i primi 10 a pieni giri.  &quot;Che corsa incredibile - dichiar&ograve; Rossi dopo il podio - vincere a Le Mans, davanti al pubblico completamente impazzito &egrave; stato meraviglioso, davanti ai miei amici, alla mia famiglia, ai miei partner. Non ho cercato n&eacute; voluto essere in testa. La mia priorit&agrave; era correre una gara intelligente. Mi sarebbe bastato arrivare tra i primi cinque. Ero pi&ugrave; motivato degli altri perch&eacute; ero a casa e non avevo un campionato da gestire. E onestamente non pensavo che Vi&ntilde;ales sarebbe caduto&quot;. La vittoria di un pilota di casa nel GP Francia mancava da quattro anni, dal successo di Mike Di Meglio.    In gara, il miglior giro di Rossi fu soltanto il sesto ma i cinque che erano stati pi&ugrave; veloci finirono tutti gambe all&rsquo;aria. &quot;Stavo aspettando gli errori degli altri. Ho corso una gara intelligente, per compensare l&rsquo;errore di Jerez. Quando hanno iniziato a spingere sono caduti&quot;.   Il francese era per&ograve; consapevole di doversi confermare in altre condizioni: &quot;Non sono un grande pilota perch&eacute; ho vinto un GP sotto la pioggia. Per diventarlo ora devo trionfare sull&rsquo;asciutto. Questa vittoria &egrave; un risultato ma &egrave; anche l&rsquo;inizio di qualcosa. Spero di avere pi&ugrave; opportunit&agrave; adesso&quot;. Quell&rsquo;anno fu quarto a Barcellona, quinto ad Assen e sesto a Valencia, poi sal&igrave; in Moto2 dove raggranell&ograve; la miseria di 31 punti in 51 GP.  Il 20 maggio 2012 sembrava l&rsquo;inizio di una fase luminosa per il binomio Rossi-Rossa di Borgo Panigale e per Louis. Invece fu soltanto un temporale primaverile. 

Il GP Francia 2012 fu un lampo isolato per i Rossi: Valentino port&ograve; la Ducati al secondo posto in MotoGP, Louis si aggiudic&ograve; la Moto3 sotto il diluvio. &quot;Non partivo per vincere mi bastava la Top 5...&quot;

Ritorno al Futuro, Louis Rossi: &ldquo;Non sono Vale, ma vinco&rdquo;

L&rsquo;anno zero del nuovo secolo, anzi millennio, coincise con l&rsquo;ingresso di Valentino Rossi nella classe regina. Cio&egrave; l&rsquo;elite del motociclismo, dove il campione uscente della 250 - titolo conquistato a 20 anni nel 1999, due stagioni dopo il trionfo in 125 - inizi&ograve; subito con la moto pi&ugrave; ambita: la Honda NSR.&nbsp;  Gi&agrave; nell&rsquo;estate precedente, dopo l&rsquo;incidente che mise fine alla carriera di Mick Doohan, la Casa di Tokyo si era mossa per ingaggiare Rossi, il giovane pi&ugrave; promettente del panorama iridato. Ma il pesarese prefer&igrave; prendere tempo: &quot;Voglio prima vincere il titolo della 250, poi penser&ograve; al resto&quot; disse dopo il successo in Repubblica Ceca. Poche settimane dopo, Valentino replic&ograve; il concetto agli uomini Honda che incontr&ograve; in un hotel di Imola. Emissari che erano intenzionati a uscire da quel meeting con una firma sul contratto.  &quot;Non riuscivo a immaginarmi lontano dal team di Rossano Brazzi, che era diventato una sorta di famiglia&quot; disse ripensando all&rsquo;esperienza con l&rsquo;Aprilia. Ma il genio di Tavullia gi&agrave; sapeva che il futuro sarebbe stato con la Honda. Cio&egrave; la Casa con la moto e il budget migliori, e di molto rispetto alla concorrenza.  Nonostante un&rsquo;allettante offerta proprio dell&rsquo;Aprilia, intenzionata a trattenere Rossi per un anno - e nel frattempo sarebbe stato sviluppato un motore V4 da 500 di cilindrata - il giorno dopo il successo a Rio de Janeiro, con titolo della 250 annesso, il 25 ottobre 1999 Valentino defin&igrave; gli ultimi dettagli del contratto con la Honda. Un accordo biennale che prevedeva per Rossi una struttura separata dal team ufficiale. &quot;Con Nastro Azzurro posso realizzare il mio sogno: correre in 500 con una moto gialla&quot; disse.    Escludendo livree e colori, l&rsquo;approdo di Rossi in 500 coincise per&ograve; con l&rsquo;unico anno in cui la Honda non vinse il titolo in un arco di dieci stagioni: con Doohan (campione ininterrottamente tra 1994 e 1998) uscito di scena, gli ingegneri seguirono le indicazioni di Alex Criville (iridato nel 1999), che chiedeva pi&ugrave; potenza. Valentino, che avrebbe fatto tris tra 2001 e 2003, tra la 500 e la neonata MotoGP, scopr&igrave; quanto fosse difficile guidare la NSR 500 del 2000. E lo fece nel modo consueto per i piloti di quegli anni della classe regina: con gli avvertimenti dati dalle cadute.  Per spiegare quanto fosse un po&rsquo; disorientato all&rsquo;inizio, Rossi ha ricordato di recente anche il primo impatto con la Honda e il nuovo team: &quot;La NSR 500 era la moto pi&ugrave; famosa, iconica e desiderata, ricordo la mia prima uscita, nell&rsquo;autunno 1999 a Jerez: c&rsquo;erano Jeremy Burgess e Bernard (Ansiau, uno dei meccanici poi diventato suo fedelissimo, nde) in borghese, con i maglioni a rombi, jeans a vita alta e un furgone a noleggio, all&rsquo;interno del quale c&rsquo;era lei, la Honda. Non esattamente il primo impatto che mi ero immaginato. Poi, in pista, s&igrave;, and&ograve; come pensavo: una moto brutale, si faticava a rimanere dritti persino in rettilineo&quot;.  Rossi inizi&ograve; il percorso nella 500 con due cadute nei primi due GP, in Sud Africa e Malesia, dove vinsero rispettivamente Garry Mc Coy e Kenny Roberts jr. In Giappone, dove trionf&ograve; l&rsquo;idolo di casa Norick Abe, Rossi fu undicesimo in casa Honda. A ricordare quel periodo fu Burgess, al primo dei suoi 14 anni (con sette titoli) da capotecnico di Valentino: &quot;Il talento di Vale era evidente - disse in una delle biografie del pesarese - e il nostro lavoro era quello di aiutarlo a essere felice e mantenere il nostro rapporto al massimo. In questo sport, il 20% della responsabilit&agrave; ricade sulla moto e sulla parte tecnica, l&rsquo;80% sul pilota&quot;.    Il calvario fin&igrave; con l&rsquo;arrivo in Europa: a Jerez, Rossi ricevette pezzi nuovi direttamente dal Giappone, o pi&ugrave; probabilmente gli ingegneri recuperarono alcune specifiche della NSR del 1999. E Rossi si ritrov&ograve;: prima fila in qualifica e primo podio in 500, terzo dietro Roberts e la Suzuki e Carlos Checa sulla Yamaha (la cui prima guida Max Biaggi aveva firmato la pole, per poi cadere nel giro di ricognizione). Quindici giorni dopo, a Le Mans, Rossi replic&ograve; il terzo posto ma per la prima volta a vincere fu una Honda, quella di Criville, davanti ad Abe.  Poi arriv&ograve; il giorno pi&ugrave; atteso, quello del Mugello. E le grandi aspettative del pubblico italiano non vennero tradite, con la battaglia tra Loris Capirossi, Rossi e Biaggi. Una pentola a pressione dalla quale il primo a uscire fu il rookie: Valentino cadde al Correntaio a pochi giri dalla fine, poi tocc&ograve; a Biaggi scivolare, lasciando campo libero a Capirossi, vincitore di una gara della quale si parla ancora oggi, a 20 anni di distanza.  Dopo quel GP ne arrivarono tre corsi sul bagnato - Barcellona, Assen e Donington - situazione nella quale in precedenza Rossi non si era sentito a proprio agio. Se in Catalogna vinse Roberts con Rossi terzo, e in Olanda la spunt&ograve; Alex Barros con Valentino sesto, in Gran Bretagna arriv&ograve; la prima delle 89 vittorie del pesarese nella top class.  Anche in quel caso fu una gara epica, nella quale Rossi rimont&ograve; dalla tredicesima posizione per poi battere in volata Roberts e il sorprendente Jeremy McWilliams sulla bicilindrica Aprilia 400.  McWilliams: &ldquo;Se non avevi un ingegnere italiano, la moto non era veloce&rdquo;  In Germania, al Sachsenring, Valentino fu costretto a un&rsquo;altra rimonta, dopo essere transitato 16&deg; alla fine del primo giro. Rossi riusc&igrave; a compiere l&rsquo;impresa &ndash; su un circuito nemico dei sorpassi - quasi fino in fondo chiudendo al secondo posto, a meno di un decimo di secondo dal vincitore Barros. &quot;In 125 e 250 ero abituato a partire male&quot; comment&ograve; Valentino. &quot;Grazie a quelle esperienze ho imparato a sorpassare senza farmi troppe domande. Poi, &egrave; vero, sorpassare al Sachsenring non &egrave; facile, ma non se non ci provi, non ci riesci&quot;. Parole che mandarono in vacanza il Circus. Con un interrogativo: Rossi, sarebbe riuscito a confermarsi dopo la pausa?  Come tutti sanno, la risposta &egrave; affermativa. Alla ripresa del Mondiale, dopo una 8 Ore di Suzuka senza successo in coppia con Colin Edwards (il riscatto sarebbe arrivato nel 2001), Rossi sal&igrave; sul podio a Brno, secondo dietro Biaggi, e all&rsquo;Estoril, terzo nel GP vinto da Mc Coy, salendo a -46 da Roberts, con quattro gare e 100 punti ancora in palio.&nbsp;  Tuttavia le speranze di Rossi si infransero nel GP successivo, a Valencia, pista storicamente nemica del pesarese: Valentino perse il controllo della sua Honda e cadde. &quot;In quel GP compresi quanto ancora fossi lontano dalla perfetta guida di una 500&quot; avrebbe ammesso successivamente. &quot;Guidavo in &ldquo;stile 250&rdquo;, con traiettorie rotonde, cercando la velocit&agrave; di percorrenza in curva. E fu proprio questo a farmi cadere due volte a Valencia. Quando iniziai a spigolare di pi&ugrave;, compresi quanto fosse superiore l&rsquo;efficacia&quot;.&nbsp;    A nulla, se non a chiudere il Mondiale al secondo posto, servirono il successo a Rio de Janeiro, il secondo posto a Motegi dietro Roberts e il terzo a Phillip Island, teatro di un&rsquo;altra battaglia italiana, con Biaggi vincitore, Capirossi secondo e Valentino terzo, tutti racchiusi in tre decimi.&nbsp;  Rossi fu vice campione del Mondo da rookie, nonostante i tre &ldquo;zero&rdquo; (al Mugello fu classificato 12&deg;) e un avvio complicato: dopo tre GP aveva 5 punti, contro i 55 di Roberts jr, ma da Jerez in poi il pesarese ottenne un punto in pi&ugrave; del californiano.  Anche per questo, Valentino chiuse l&rsquo;anno con la sensazione di aver lasciato sul piatto un&rsquo;occasione. &quot;Ho iniziato senza crederci abbastanza, non pensavo che il titolo potesse essere alla portata&quot;.&nbsp;  Cos&igrave; si prepar&ograve; a fondo per il 2001, per non ripetere la falsa partenza. E non replic&ograve; l&rsquo;errore, dominando le successive cinque stagioni, anche in mezzo a cambi di categoria - dalla 500 due tempi alla MotoGP con la 1000 quattro tempi - e moto, con lo storico trasferimento dalla Honda alla Yamaha.  Sfide Sprint, Rossi-Biaggi: la consacrazione 

Il pesarese convinse tutti gi&agrave; al primo anno nella top class, nonostante un apprendistato complicato con la Honda NSR. L&rsquo;ascesa venne sublimata dal primo successo a Donington, ma essere vice campione della 500, da rookie, non soddisf&ograve; Rossi

Ritorno al Futuro, 2000: Rossi e il mondo ai suoi piedi

Un pacchetto di sigarette lasciato in auto e nessuna nuvola di fumo uscita da bocca e narici. Questa &egrave; l&rsquo;unica rinuncia fatta da Marco Lucchinelli, manager vincente con Raymond Roche e la Ducati nella Superbike del 1990. La storica prima volta di Borgo Panigale, poi dominatrice in quel decennio e in quello successivo del Mondiale delle derivate, anticip&ograve; la doppietta di Doug Polen e la doppia epopea di Carl Fogarty e Troy Bayliss. Per Marco, quel titolo al muretto box fece il paio con quello conquistato, da pilota, in 500. L&rsquo;alloro del francese arriv&ograve; con la 851, con bicilindrico desmodromico dotato di alimentazione a iniezione elettronica, all&rsquo;epoca un concetto tecnologico d&rsquo;avanguardia. Lucky fu bravo nel gestire situazioni, responsabilit&agrave;, uomini nel garage e rapporti con la Casa madre. Il reparto corse venne allestito nell&rsquo;ampio parcheggio della fabbrica di Borgo Panigale. Marco si recava l&igrave; e &ldquo;rompeva le scatole&rdquo; a chi dovere il giusto e poi faceva andare parecchio forte i suoi piloti. Lucchinelli definisce oggi la sua come &quot;Una squadra della madonna&quot; che cont&ograve; sulle mani tecniche di Franco Farn&eacute;, coadiuvate da teste di ragazzi giovani, in gamba, pronti a fare strada. A completare il tutto, Falappa e Roche. Giancarlo nel corpo a corpo non temeva nessuno e brill&ograve; sull&rsquo;asfalto bagnato. Raymond si dimostr&ograve; concentrato e competitivo in ogni condizione. In un campionato aperto a fornitori di pneumatici differenti,&nbsp; Dunlop, Pirelli e Metzeler si scontrarono con la francese Michelin, a cui non dispiaceva che il marsigliese numero 3 fruisse delle gomme concepite a ClermontFerrand. Il suo feeling con le coperture fu ottimo sin dai test prestagionali.  La Squadra Corse Ducati part&igrave; con il piede giusto gi&agrave; in inverno, nonostante qualche problemino: &quot;Si lavorava tanto su cablaggi ed elettronica. Se qualcosa non funzionava, la moto smetteva di andare&quot; ricorda Lucchinelli. &quot;Con gomme e motore ci sentivamo a posto. Il Pompone offriva una coppia generosa e le Michelin si comportavano bene in ogni condizione&quot;. La concorrenza si present&ograve; agguerrita. Il riferimento erano i due volte detentori del titolo Fred Merkel e il Team Rumi, con la Honda RC30. Fabrizio Pirovano e la Yamaha Belgarda contavano su un&rsquo;eccellente OW01. Rob Phillis e la Kawasaki volevano la posta grossa, stesso obiettivo per St&eacute;phane Mertens e Rob McElnea. E le wild card mischiarono le carte pi&ugrave; volte.  Nel primo weekend di Jerez, Roche part&igrave; con il tris: pole position e doppietta. Merkel, Mertens e Falappa non riuscirono a copiare il passo di Raymond che fugg&igrave; sino alla bandiera a scacchi: &quot;Mi chiedete se sono contento? Certo, vado via da Jerez con 40 punti mondiali&quot;. S&igrave;, perch&eacute; nel 1990 il vincitore di manche ne prendeva 20. A Donington, Merkel e Falappa si riscattarono, mentre Roche si accontent&ograve; di due secondi posti, sufficienti a mantenere il comando della graduatoria. All&rsquo;Hungaroring, la pole fu siglata dall&rsquo;australiano Malcom Campbell, capace poi di calcare il secondo gradino del podio in Gara 2. La prima corsa fu di Merkel, meglio di Roche e Pirovano. Poco pi&ugrave; tardi, Raymond replic&ograve; portando la 851 davanti a tutti. Nel frattempo, gli equilibri in seno al Team Ducati si delineavano, con i risultati a fungere da ago della bilancia; il compagno di squadra rappresentava il primo avversario da battere e tra i due piloti non fior&igrave; l&rsquo;amicizia. Falappa sfoderava sorpassi e prodezze uniche nel suo genere, Roche martellava costante. Ma erano diversi.    Lucky, vero animale da pista, ebbe un&rsquo;idea: &quot;Viaggiate insieme dall&rsquo;Ungheria alla Germania - sugger&igrave; - soltanto cos&igrave; potrete conoscervi meglio&quot;. Bella trovata. Giancarlo alla guida della sua auto e Raymond seduto a fianco. Il tragitto si tramut&ograve; in un film a inseguimento: &quot;Ehm, Giancarlo, la tua macchina va forte, ma... &quot;. &quot;Dimme, Raymond&quot;. &quot;Da qualche minuto vedo una grossa ombra sulle nostre teste&quot;. &quot;Che sar&agrave; mai? Adesso accelero e se lo levamo dalle palle&quot;. &quot;&Egrave; l&rsquo;elicottero della polizia! Vogliono noi!&quot;. Lucchinelli non si arrabbi&ograve; pi&ugrave; del dovuto: &quot;Mi recai al comando di polizia vicino a Hockenheim. Convinsi gli agenti a liberare i miei piloti e soltanto dopo qualche ora li fecero uscire. E in circuito ci fu un briefing risolutore&quot;. Roche ne era certo: &quot;Falappa c&rsquo;est fou. Porca puttana, lui &egrave; matto&quot;. Giancarlo pi&ugrave; sereno: &quot;Avemo toccato i 240, ma credo che a 250 ce potevamo arriv&agrave;&quot; .   Velocit&agrave; folli in strada, superate in pista. Hockenheim vecchia maniera offriva interminabili rettilinei, in cui esaltare le doti motoristiche. Partire dal palo fu una promessa non mantenuta dal Pompone numero 3, che in gara ruppe. La gemella numero 6 arriv&ograve; terza, dietro alle quattro cilindri 750 Honda e Yamaha di Merkel e McElnea. Il marsigliese si riscatt&ograve; nel pomeriggio, giungendo tra il belga Mertens e il californiano Merkel, che si prese il primato in classifica. Occorreva una riscossa ed arriv&ograve; in Canada: a Mosport la pole and&ograve; allo spettacolare Leone di Jesi, che per&ograve; poi cadde malamente in Gara 1 e dette forfait a braccio rotto. Nelle due corse, Roche regol&ograve; lo yankee Jamie James e fece doppietta. Con una punta infortunata e l&rsquo;altra in forma, Lucchinelli ricorda che non sapeva se piangere o ridere: &quot;Nessuno guidava bene come Giancarlo, che per&ograve; non si accontentava: vincere o niente. La costanza premi&ograve; Roche. Raymond non fu veloce quanto Falappa, ma ebbe pi&ugrave; testa&quot;.  Lucchinelli: &ldquo;Il mio arrivo dalla 500 port&ograve; prestigio alla SBK&rdquo;  A proposito di testa, il transalpino disse Au revoir a tutti da leader iridato. Nelle tappe successive Roche and&ograve; sul podio a Brainerd e Zeltweg mentre il compagno di team, purtroppo, in Austria rimedi&ograve; un brutto infortunio che lo tolse dalla contesa sino a fine stagione. Un incidente terribile, con 27 fratture e il rischio di dissanguamento (i piloti accorsi, vista l&rsquo;innaturale posizione del casco, temettero il peggio). Con un solo attaccante, la Rossa si present&ograve; a Sugo in vetta al Mondiale, nel Giappone crocevia del percorso: uscire indenni significava ipotecare il titolo, e conveniva approfittare dell&rsquo;assenza di Merkel, ko alla 8 Ore di Suzuka. Le wild card locali erano tante, ma la sorpresa pi&ugrave; concreta fu Doug Chandler, americano gi&agrave; capace di vincere in casa un paio di mesi prima e autore del bis nella seconda manche nipponica. La prima frazione and&ograve; a Roche, dimostratosi &ldquo;roccioso&rdquo;, come il suo cognome suggerisce. Il picco del suo rendimento fu toccato in Francia, a Le Mans. Di fronte ad amici e parenti Raymond non bad&ograve; a calcoli n&eacute; a strategie. Il ricordo del secondo posto in 500 nel 1985 era ancora vivo, e Roche stamp&ograve; una doppietta su una pista che conosceva come le proprie tasche. L&rsquo;obiettivo era sempre pi&ugrave; nitido per lui, sebbene a Monza dovette inchinarsi a Pirovano, il Re del tracciato brianzolo, vincitore sotto il diluvio davanti anche ad Ayrton Senna, in tribuna. I problemi accusati da Merkel fermarono il campione in diversi round, la velocit&agrave; non sempre costante del Piro e gli alti e bassi ancora pi&ugrave; accentuati di Mertens, Phillis e McElnea favorirono il mastino gestito da Lucchinelli.  Si arriv&ograve; in Australia: sicuri di poter toccare il cielo con un dito, Marco e il team &ldquo;anticiparono&rdquo; la festa. Nel dopocena del sabato sera di Phillip Island. ecco la sfida pi&ugrave; sentita: toccare con lo specchietto retrovisore una balaustra che separava un ponte dall&rsquo;acqua. Grazie allo spirito agonistico mai sopito, Lucchinelli vinse. L&rsquo;euforia gli fece per&ograve; dimenticare nella (ammaccata) auto a nolo un bene per lui prezioso. La domenica, Raymond Roche si aggiudic&ograve; il Mondiale, e tra champagne e foto Lucky festeggi&ograve; con una piccola disdetta: &quot;Toccai le tasche, senza trovare le sigarette. Peccato, mi sarei concesso qualche bel tiro&quot;. Una vittoria &ldquo;niente fumo e tutto arrosto&rdquo;, come la stagione di Roche, soltanto due ritiri in 26 manche, uno dei quali in Nuova Zelanda, a titolo acquisito.  Cagiva: &egrave; in vendita la C587 di Raymond Roche 

&Egrave; la sintesi del 1990 del francese, pilota continuo e concreto, ma anche l&#39;esito di una scommessa del team manager Lucchinelli nella festa per il primo titolo Ducati in SBK. Fu l&#39;inizio del dominio di Borgo Panigale nella categoria

Ritorno al Futuro, 1990: Raymond Roche, niente fumo, tutto arrosto

Il 2010 rappresent&ograve; una svolta per il Motomondiale per tante ragioni. Tra queste, l&rsquo;introduzione di una seconda categoria a quattro tempi, la Moto2, che sostitu&igrave; la 250 nel ruolo di classe intermedia. Un salto enorme, perch&eacute; si pass&ograve; da una moto da GP sulla quale erano possibili interventi e modifiche di ogni tipo, a livello progettuale oltre che di set up, a un mezzo sul quale le possibilit&agrave; di cambiare erano contingentate. A cominciare dal motore (Honda) uguale per tutti.  A sperimentare la nuova classe fu anche Alex De Angelis, pilota sammarinese costretto a scendere dalla MotoGP per mancanza non di risultati (era stato ottavo nel Mondiale, con un secondo posto a Indianapolis) ma di sponsor. L&rsquo;allora ventiseienne visse una stagione da montagne russe, in cui speriment&ograve; ogni tipo di sentimento nel giro di poche settimane, tra la gara di casa a Misano che fu una discesa agli inferi, e la tappa pi&ugrave; lontana, a Phillip Island, che invece regal&ograve; l&rsquo;orgoglio per un successo dopo quasi quattro anni di attesa.  Quell&rsquo;annata in Moto2 rafforz&ograve; la versatilit&agrave; di Alex, pilota che nella propria carriera ha corso, ben figurando, su qualsiasi tipo di mezzo: MotoGP, Moto2, 250, 125, Superbike e MotoE. Categoria, quest&rsquo;ultima, in cui &egrave; iscritto al campionato 2020 con Pramac.  Partito come la maggior parte dei colleghi dalle Minimoto, per seguire le orme di suo fratello William, di tre anni pi&ugrave; grande, Alex debutt&ograve; nel Mondiale a 15 anni. Vice campione della 125 nel 2003, dietro Dani Pedrosa ma davanti a gente come Andrea Dovizioso, Casey Stoner e Jorge Lorenzo, nella 250 fu terzo nel 2006 e 2007, sempre dietro Lorenzo e Dovizioso. Due anni di MotoGP, ed ecco l&rsquo;approdo in Moto2, dove sarebbe rimasto per quattro stagioni e mezza (quarto nel 2011) prima di ritrovare la MotoGP e rischiare la vita in un terribile incidente a Motegi.    La vittoria di Phillip Island, il 17 ottobre 2010, fu probabilmente il momento pi&ugrave; alto nella classe di mezzo a quattro tempi: &quot;Fu il mio weekend perfetto - ricorda oggi Alex - firmai la pole position, fui primo nel warm up con pista bagnata e mi aggiudicai la gara per distacco&quot;.  Nel sabato delle qualifiche faceva freddo ed era piovuto, ma il vento proveniente dall&rsquo;oceano riusc&igrave; ad asciugare la pista per un ultimo giro utile: De Angelis ne approfitt&ograve; per accaparrarsi la pole in 1&rsquo;35&rdquo;148, due decimi pi&ugrave; veloce di Scott Redding affiancato poi in griglia da Stefan Bradl e Mike Di Meglio, con Andrea Iannone subito dietro.  In gara, per&ograve;, il sammarinese del Team Jir dovette fare i conti con i pneumatici, che non entrarono subito in temperatura, portandolo cos&igrave; a cedere diverse posizioni agli avversari. Per un po&rsquo; Alex fu costretto a rimanere a guardare, ma da met&agrave; gara trov&ograve; il feeling ottimale e inizi&ograve; a mettere a segno i suoi attacchi. Prima su Di Meglio, poi su Redding e Iannone, uno dopo l&rsquo;altro De Angelis se li lasci&ograve; alle spalle andando a tagliare il traguardo con un distacco di due secondi sull&rsquo;inglese oggi alla Ducati Superbike e quasi tre sull&rsquo;abruzzese oggi all&rsquo;Aprilia.  De Angelis e Redding non ebbero in comune soltanto quel podio in Australia, purtroppo. Poche settimane prima, nel GP San Marino e Riviera di Rimini, i due furono coinvolti nella carambola fatale a Shoya Tomizawa al curvone del Carro. Tomizawa, vincitore della storica prima gara della Moto2 in Qatar, durante il dodicesimo giro cadde dopo che la ruota posteriore della sua Suter perse aderenza e venne travolto da De Angelis e da Redding che si trovavano proprio dietro di lui e che, ad altissima velocit&agrave;, non ebbero alcuna possibilit&agrave; di evitarlo e a loro volta rischiarono grosso. Nell&rsquo;incidente il giapponese riport&ograve; gravi lesioni al torace e alla testa, mor&igrave; poco dopo all&rsquo;ospedale di Riccione. Aveva soltanto 19 anni.&quot;L&rsquo;incidente al povero Tomizawa&quot;. Ripensando al giapponese, a De Angelis viene un groppo in gola: &quot;Sia per me che per la squadra, fu un blocco totale. Uscire da quel periodo grigio non fu facile, anzi fu molto duro&quot;.   Tomizawa aveva aperto la stagione vincendo, un successo seguito da quelli del campione di quell&rsquo;anno, Toni Elias, primo a Jerez e Le Mans con la Moriwaki, poi Iannone e la Speed Up vinsero al Mugello. Dove De Angelis conquist&ograve; i primi punti stagionali, a testimonianza di come l&rsquo;avvio sulla Force GP210 del Team Scot, accanto a Niccol&ograve; Canepa, fu difficile. Tra ritiri e infortuni, il miglior risultato fu il decimo piazzamento nel GP Catalunya. Poi il team venne travolto dai problemi economici e De Angelis dovette cambiare: prima sostitu&igrave; Hiroshi Aoyama sulla Honda in MotoGP, andando a punti in Germania, Stati Uniti e Repubblica Ceca, poi torn&ograve; in Moto2, sulla MotoBi. E il debutto avvenne proprio a Misano, per sostituire Yusuke Teshima che a sua volta aveva rimpiazzato Mattia Pasini &quot;dopo che in TV - ricorda De Angelis - non fu esattamente tenero parlando della moto&quot;.    La tragedia di Misano ebbe un impatto emotivo fortissimo per Alex, che riusc&igrave; a risollevarsi soltanto a partire dalla trasferta extra-europea. Dal Giappone in poi, il sammarinese fu persino il migliore della Moto2: nei cinque GP finali, nessuno prese pi&ugrave; punti rispetto ai suoi 84.  Un cambio di marcia simboleggiato dai podi in Malesia (secondo) e Portogallo (terzo) e dal successo a Phillip Island, lieto fine di un weekend che ebbe anche qualche brivido. Colpa di un grattacapo che il team Japan Italy Racing di Gianluca Montiron dovette affrontare: &quot;Eravamo molto preoccupati - ammette Alex - perch&eacute; nelle gare precedenti avevamo avuto grossissimi problemi con il consumo della benzina, arrivavamo sempre con il serbatoio vuoto. In Giappone, addirittura, gli ultimi due giri la moto faceva i vuoti perch&eacute; su quel tracciato c&rsquo;erano tante frenate e ripartenze quindi quel poco di benzina che avevo, sballottava nel serbatoio dando problemi di pescaggio. Per cercare una soluzione, mettemmo delle piccole barriere di alluminio all&rsquo;interno del serbatoio ma non avevamo risolto il problema. In gara c&rsquo;era quindi la paura che la moto iniziasse a fare dei vuoti, per fortuna la modifica funzion&ograve;&quot;.  A giocare a favore di Alex fu il circuito, nel quale avrebbe rivinto nel 2011: &quot;Phillip Island il mio tracciato preferito - spiega - assieme al Mugello. Mi piacciono le curve veloci e Phillip Island ne &egrave; la patria. Per me &egrave; la pista perfetta&quot;.  La MotoBi lo faceva sentire a suo agio e gli permetteva di girare davvero forte. Il primo posto in Australia addolc&igrave; un periodo amaro, anche perch&eacute; la Moto2 non era esattamente nei suoi piani: &quot;Ero deluso - racconta il sammarinese tornando a quel periodo - scendevo da una MotoGP e la Moto2 sembrava rotta, da quanto andava piano. Capii soltanto dopo che come categoria fu pi&ugrave; azzeccata di quanto la gente non pensasse. Devo dire che se dalla MotoGP fossi tornato in 250 avrebbe avuto meno senso. In ogni caso la MotoBi, per come guidavo io, era super competitiva&quot;.&nbsp;   Al punto da affermare: &quot;Ho il rimpianto di non essere partito da inizio stagione con quella moto. Elias vinse il Mondiale, ma nelle ultime gare sulla MotoBi ottenni i risultati utili per lottare per il titolo. Titolo che mi manca, non ho mai vinto il Mondiale e forse quell&rsquo;anno sarebbe stato quello giusto&quot;.  Ritorno al futuro, 2010: la nuova era della Spagna 

L&rsquo;approdo in Moto2 del sammarinese fu caratterizzato dal tragico incidente di Misano fatale a Tomizawa, nel quale Alex fu coinvolto in maniera fortuita, ma anche da un cambio di team in corsa e da un finale da campione di razza

Ritorno al Futuro, 2010: De Angelis, il dolore e l&#39;orgoglio

La mattina del 5 giugno 2010 ha marchiato la carriera di Valentino Rossi. Al punto che molti suoi tifosi, probabilmente, si ricordano cosa stessero facendo quando sentirono la notizia della caduta in cui Rossi si infortun&ograve; in modo serio. Su uno dei suoi tracciati preferiti, il Mugello, dove dal 2002 al 2008 era stato il Re incontrastato, alla guida della Yamaha con cui stava inseguendo il decimo titolo iridato, la carriera del pesarese sub&igrave; un brutto colpo. E da quel giorno, nulla &egrave; stato pi&ugrave; come prima.  Non fu un caso come quelli di Mick Doohan, cinque volte iridato in 500, o Carl Fogarty, quattro titoli in Superbike, costretti a ritirarsi per un infortunio dopo essere stati dominatori incontrastati, ma fu un altro esempio di numero 1 fermato da un incidente. La sensazione di un filo che si spezza, perch&eacute; mai prima di quel momento Valentino era stato vittima di un infortunio cos&igrave; serio, anche se quel filo si era iniziato a sfilacciare gi&agrave; qualche settimana prima, con un infortunio alla spalla durante una sessione di allenamento con la moto da Cross. Infortunio che fece capolino, rendendo dolorante il suo fisico, nei precedenti GP Spagna e Francia, dove vinse Jorge Lorenzo, compagno di team, acerrimo rivale e molto pi&ugrave; che aspirante successore al trono. Quel problema alla spalla avrebbe dato fastidio a Rossi anche dopo il rientro dall&rsquo;infortunio alla gamba, tanto da rendere obbligatoria l&rsquo;intervento chirurgico a fine stagione.  L&rsquo;incidente nelle prove del Mugello &egrave; stato, si pu&ograve; dire, l&rsquo;evento spartiacque della sua carriera: prima di quel 5 giugno 2010 il Dottore aveva conquistato nove titoli e 104 vittorie in 230 GP. Dopo, il bilancio &egrave; stato ben diverso: nessun titolo e 11 vittorie in 172 GP. La caduta avvenne all&rsquo;ingresso della variante Biondetti, complice il raffreddamento della gomma, come spieg&ograve; Valentino dopo l&rsquo;operazione alla gamba destra fratturata: &quot;Mi ricordo tutto perfettamente. L&rsquo;airbag dentro la tuta ha lavorato molto bene e il casco &egrave; rimasto soltanto leggermente graffiato: non ho un livido che sia uno! Il problema &egrave; che sono atterrato sulla gamba destra che &egrave; rimasta incastrata sotto il mio corpo: se fossi atterrato di schiena di sicuro il risultato sarebbe stato diverso. In quel momento stavo girando con una gomma nuova con cui avevo fatto due giri, ma avevo appena rallentato perch&eacute; avevo Barber&aacute; dietro di me. Quando ho ripreso il ritmo e la traiettoria giusta ho visto arrivare Pedrosa, ho rallentato nuovamente per non creargli problemi. Quando ho riaperto il gas tutto &egrave; successo all&rsquo;improvviso, in modo inaspettato. Sono bastati sette secondi per abbassare drasticamente la temperatura della gomma. L&rsquo;errore &egrave; stato mio&quot;.    Tra le visite all&rsquo;ospedale fiorentino dove venne ricoverato non mancarono quelle di amici famosi, come Cesare Cremonini e Jovanotti, ma anche di Danilo Gallinari, ai tempi giocatore NBA dei New York Knicks, che anni dopo avrebbe tolto a Rossi lo status di sportivo italiano pi&ugrave; pagato. Proprio Gallinari raccont&ograve;: &quot;Sono venuto a salutarlo per fargli il mio in bocca al lupo. E l&rsquo;ho trovato in forma, di spirito sta meglio di tutti noi messi insieme: ha fatto pi&ugrave; battute lui di tutti quelli che erano in stanza. Non abbiamo parlato del suo infortunio, mi premeva valutare la sua reazione dopo l&rsquo;operazione&quot;.  Rossi aveva iniziato l&rsquo;annata da vincente, con il successo in Qatar favorito anche dalla caduta di Casey Stoner, al quale erano seguiti il problema alla spalla e i podi di Jerez e a Le Mans. Tutto lasciava presagire una lotta al titolo contro Lorenzo, gi&agrave; suo avversario numero 1 l&rsquo;anno precedente. Tra i due, poi, i rapporti non erano proprio idilliaci, l&rsquo;atmosfera nel box non poteva essere distesa con due galli nel pollaio: con il giovane Jorge, a volte sfrontato, la tensione era crescente e gi&agrave; due anni prima c&rsquo;era stata la necessit&agrave; di erigere un &ldquo;muro&rdquo; tra le due parti. Il tutto, mentre la Yamaha si trovava a fare i conti con la scadenza dei contratti a fine stagione. Il dilemma era di quelli pesanti: puntare di nuovo tutto su Rossi lasciandosi scappare il pilota giovane e talentuoso (bramato dalla Honda), o scommettere su Lorenzo con la possibilit&agrave; di perdere colui che aveva resuscitato la Yamaha, diventandone il simbolo?  Ritorno al Futuro, 2010: Jorge Lorenzo, il pioniere  La risposta, forse, inizi&ograve; a maturare con l&rsquo;incidente al Mugello. Davide Brivio, ai tempi nel box di Iwata, in quei giorni disse: &quot;Rossi si era dato un mese per decidere se prolungare il contratto con la Yamaha. A questo punto, essendo costretto a un riposo forzato, potr&agrave; decidere serenamente e con calma al suo futuro&quot;. Valentino ricevette una proposta dalla Casa di Iwata a condizioni pari a quelle di Lorenzo, ma a lui, che aveva rimesso la Yamaha sulla mappa del Mondiale, restituendole il titolo dopo 12 anni di digiuno e parecchie figuracce, non poteva bastare. A favorire la sua uscita verso la Ducati fu poi un ulteriore fattore: l&rsquo;uscita di scena di un altro grande artefice della rinascita Yamaha, l&rsquo;ingegner Masao Furusawa, destinato alla pensione. L&rsquo;uomo con cui Rossi aveva riscritto la storia della Casa giapponese, la sua grande certezza a livello tecnico, merito anche del rapporto granitico tra i due.  L&rsquo;infortunio del Mugello fu quasi un evento simbolico: Rossi fu costretto a lasciare spazio a Lorenzo - che nei quattro GP senza il campione in carica ottenne tre successi e un secondo posto - nel Mondiale e in Yamaha. Vale vide il compagno pi&ugrave; giovane di otto anni vincere sulla stessa moto, e persino festeggiare con le gag a fine gara, che erano diventate la firma di Valentino. Per la prima volta forse si sent&igrave; di troppo e in occasione del GP di Brno annunci&ograve; la separazione dalla Yamaha e la nuova sfida che lo attendeva, tutta tricolore, con la Ducati.  Quel GP Italia lo vinse Dani Pedrosa in solitaria, con quattro secondi di vantaggio su Lorenzo, che per omaggiare il suo compagno di squadra, costretto a vedere la gara in TV, indoss&ograve; la maglia gialla VR46 sul podio. Gesto che non venne apprezzato da tutti, ma che il maiorchino spieg&ograve;: &quot;Mi sono sentito di farlo davanti al suo pubblico. Ho avuto infortuni nel passato, ma mai cos&igrave; importanti come quello di Valentino&quot;.    A Rossi servirono sei settimane per tornare: al Sachsenring, Valentino sfior&ograve; il podio, chiudendo dietro al trio Pedrosa, Lorenzo, Stoner. Quell&rsquo;anno, Rossi lo fin&igrave; in crescendo, andando a podio in tutte le ultime cinque gare, con un successo a Sepang proprio nel giorno del titolo di Lorenzo, mentre in classifica il Dottore chiuse al terzo posto.  Nell&rsquo;ultima gara, a Valencia, salut&ograve; la Yamaha dal terzo gradino del podio, indossando una maglia ispirata a Marylin Monroe, &ldquo;Bye Bye Baby&rdquo;, e baci&ograve; la sua M1 proprio come sette anni prima a Welkom, al termine del GP Sud Africa dove al debutto aveva conquistato un&rsquo;indimenticabile vittoria.  Un addio commosso e commovente con la moto che gli aveva regalato pi&ugrave; di quanto si sarebbe mai potuto aspettare, sia in termini di emozioni che di risultati: &quot;Se nel 2004 qualcuno mi avesse detto che sarei riuscito a vincere quattro Mondiali e 46 GP, avrei firmato con il sangue!&quot; comment&ograve; Rossi. &quot;Sono felice perch&eacute; non ho nessun rimpianto. Fin dall&rsquo;inizio questa avventura &egrave; stata qualcosa di grande, abbiamo lavorato molto bene insieme. Nello sport i risultati sono fondamentali, ma &egrave; allo stesso modo importante divertirsi e io con la Yamaha ci sono riuscito&quot;.  Il managing director Yamaha Motor Racing, Lin Jarvis, salut&ograve; Rossi: &quot;Il 2003 era stato il nostro peggior anno di sempre in MotoGP e ci rendemmo conto che ci serviva Valentino Rossi. Per ingaggiarlo ci furono trattative &#39;segrete&#39;, grazie a Furusawa e all&rsquo;apporto del presidente di Yamaha Motor Company riuscimmo a prenderlo. C&rsquo;&egrave; stato un grande impegno della Yamaha, ma siamo molto, molto grati a Valentino perch&eacute; grazie a lui abbiamo preso la strada giusta e siamo tornati a vincere: di questo gli siamo molto riconoscenti&quot;.&nbsp;  Cos&igrave; tanto che, dopo il flop ducatista, il pesarese torn&ograve; al vecchio amore, e la Yamaha lo accolse a braccia aperte. Ritrov&ograve; la M1 e... Lorenzo, campione anche nel 2012. I due avrebbero lottato per il titolo nel 2015: Jorge vinse ma cap&igrave; di essere di troppo e and&ograve; alla Ducati. Rossi, da quel 5 giugno 2010, non &egrave; pi&ugrave; stato iridato, in una MotoGP diventata spagnola grazie anche a Marc Marquez, che proprio in quel weekend al Mugello vinse il suo primo GP...    Ritorno al Futuro, 2010: Simoncelli, il rookie pi&ugrave; amato 

L&rsquo;incidente nelle prove del gp del Mugello ha segnato uno spartiacque per Rossi e per la MotoGP. Dopo quel ko, con la gamba fratturata, Valentino non ha pi&ugrave; vinto un titolo. Da allora, la top class &egrave; diventata spagnola, grazie a Lorenzo e Marquez

Ritorno al Futuro, 2010: Rossi e il passaggio di consegne

&Egrave; destino che, per diventare campioni del Mondo da minorenni, si debba passare attraverso un&rsquo;impresa da film. Vent&rsquo;anni dopo la favola di Loris Capirossi - campione a 17 anni e 165 giorni - &egrave; stato Marc Marquez a salire sul tetto del Mondo prima del 18&deg; compleanno. E pur laureandosi campione con 99 giorni d&rsquo;et&agrave; in pi&ugrave; rispetto a Capirossi, Marc appariva persino pi&ugrave; giovane. A prima vista, non si faticava a credere che fosse uno studente di ragioneria informatica alle superiori, di certo non aveva l&rsquo;aspetto del pilota leader del Mondiale. Nel paddock Marquez poteva essere tranquillamente scambiato per il figlio di un manager o di un tecnico. Il viso da bambino e l&rsquo;aria scanzonata si univano a un fisico ancora tutto da sviluppare, a cominciare dalla statura. Lo sguardo, per&ograve;, era gi&agrave; quello del campione senza piet&agrave;.&nbsp;&nbsp;  Ma di fronte al deficit di statura, peraltro non un male per la 125, Marc non si perse d&rsquo;animo. Incoraggiato, lui che &egrave; sempre stato tifoso del Barcellona, dal fenomeno con lo stesso tipo di background fisico che stava emergendo prepotentemente nel calcio, Leo Messi. Altro esempio di uomo in grado di cambiare il proprio sport. Del resto il talento, se &egrave; possibile accostare un motociclista a un calciatore, non mentiva in nessuno dei due casi.  06 giugno 2010: la prima vittoria di Marc Marquez in 125cc  A Valencia, nel giorno del trionfo arrivato dopo una stagione da dieci vittorie in sella alla Derbi, Marc disse: &quot;So che non faccio la stessa vita dei miei coetanei, ma la ricompensa per ci&ograve; che mi sono perso &egrave; questo titolo, un&rsquo;emozione che pochi possono dire di aver vissuto. Ringrazio tante persone, ma c&rsquo;&egrave; una figura fondamentale come Alzamora: quando entro nel box, Emilio &egrave; determinante, mi dice sempre di respirare, e di prendermi il tempo necessario prima di esprimere i miei giudizi sulla moto. &Egrave; stato un grande pilota, sa certe cose&quot;.&nbsp;&nbsp;    Respirare fu un esercizio tutt&rsquo;altro che semplice nella domenica dell&rsquo;Estoril, penultima prova di quel 2010. L&rsquo;allora diciassettenne Marquez vi arriv&ograve; a +12 su Nico Terol e +17 su Pol Espargar&oacute;. Le prove sul bagnato non furono soddisfacenti per il baby fenomeno, capace di qualificarsi soltanto in quarta fila, proprio lui che quell&rsquo;anno, con 12 pole, fu spesso imprendibile sul giro secco. Ma la domenica mattina, con il ritorno dell&rsquo;asciutto torn&ograve; anche il vero Marquez, che and&ograve; subito in fuga assieme a Terol. Dopo sei giri, per&ograve;, uno scroscio di pioggia ferm&ograve; la gara.&nbsp;&nbsp;  Uno scherzo del meteo, un brevissimo temporale utile giusto per bagnare l&rsquo;asfalto e per rimettere in crisi Marquez, che cadde nel giro di&hellip; riallineamento, mentre andava a collocarsi sulla griglia per la procedura di ripartenza. Con il cupolino rotto e la carena danneggiata, Marc non and&ograve; sulla griglia - dove i meccanici lo attendevano con i ricambi per la riparazione al volo - ma rientr&ograve; ai box, dove nei dieci minuti seguenti il lavoro del Team Ajo fu frenetico, mentre Alzamora cercava di calmare il pilota. Il cui padre, Juli&agrave;, in preda all&rsquo;angoscia scandiva il tempo prima della chiusura della pit lane, dopo la quale sarebbe stato impossibile prendere il via dalla prima fila.&nbsp;&nbsp;  Marc cerc&ograve; persino di anticipare la bandiera rossa all&rsquo;uscita della corsia box, cercando il rientro in pista con una 125 naked, senza carena (che sarebbe stata reinserita sulla griglia negli ultimi istanti prima del giro di ricognizione), ma non fu possibile. Poco male: con la moto ripristinata appena in tempo, Marquez prese il via dall&rsquo;ultima fila ma alla prima curva era gi&agrave; quinto, poi raggiunse in vetta Terol e Bradley Smith, e li batt&eacute; in volata. Ipotecando il titolo che sarebbe arrivato con una saggia gestione di gara a Valencia, dove festeggi&ograve; con un &ldquo;1&rdquo; gigante e una maglia con la propria caricatura in versione Superman. Quello dell&rsquo;Estoril fu soltanto il primo dei numerosi flirt di Marquez con l&rsquo;impossibile.    Marc arriv&ograve; al 2010 dopo due anni di apprendistato in 125 utili ma senza trovare il primo guizzo: fino a quel momento, il punto pi&ugrave; alto era stato il podio di Donington nel 2008, a 15 anni, ma quel giorno la ribalta fu per il coetaneo Scott Redding, vincitore e nuovo recordman di precocit&agrave;. Il 2010, per&ograve;, coincise con un cambio di marcia: il catalano pass&ograve; dalla KTM alla pi&ugrave; competitiva Derbi, e in un team che stava diventando una garanzia nelle categorie minori come Ajo, iridato due anni prima in 125 con Mike Di Meglio.  La risposta di Marquez fu eccezionale, con dieci vittorie, a cominciare dal pokerissimo Mugello-Silverstone-Assen-Barcellona-Sachsenring tutto d&rsquo;un fiato, con una sola battaglia vinta in volata &ndash; il GP Italia &ndash; mentre in Gran Bretagna il duello con Espargar&oacute; fu al limite: dopo aver rimediato una spallata dall&rsquo;avversario, sventando una caduta in modo prodigioso, Marc si avvantaggi&ograve; in modo decisivo quando Pol salv&ograve; la scivolata grazie al gomito. Un salvataggio &ldquo;alla Marquez&rdquo;, ma allora Marc non aveva ancora il copyright...&nbsp;  Suppo: &ldquo;Contro Marquez non si vince&rdquo;  La scivolata al via di Arag&oacute;n per&ograve; rimise tutto in gioco: Randy Krummenacher, oggi campione in carica della Supersport, falci&ograve; Marquez, che nella via di fuga non riusc&igrave; a darsi pace. In Portogallo, le cose presero anche la piega peggiore, ma serv&igrave; prima un passaggio dall&rsquo;Inferno per andare in Paradiso. Un&rsquo;esperienza che avrebbe vissuto nuovamente un anno pi&ugrave; tardi, perch&eacute; dopo il terribile incidente nelle prove del GP Malesia, i problemi agli occhi non soltanto fecero perdere a Marc la possibilit&agrave; di vincere il titolo della Moto2 al primo tentativo. Ma rischiarono di fargli perdere tutto: &quot;Ricordo che assieme ad Alzamora, Marc convoc&ograve; me e i tecnici, e ci disse che forse ci saremmo dovuti trovare un&rsquo;altra squadra. Perch&eacute; probabilmente non sarebbe tornato&quot;.&nbsp;    A&nbsp;dirlo, anni dopo, sarebbe stato Santi Hernandez, che in quel 2011 inizi&ograve; a lavorare con Marquez. Restandone cos&igrave; impressionato da non abbandonarlo nemmeno di fronte al rischio di uno stop definitivo. Sette titoli mondiali dopo, merito anche di un profondo rapporto di complicit&agrave;, il capotecnico sa di aver avuto ragione, e anche il trionfo del 2012 in Moto2 ebbe a corollario una vittoria partendo dall&rsquo;ultima fila, a Valencia. Ma nel cuore di Marc, l&rsquo;impresa dell&rsquo;Estoril per il suo unico titolo con le due tempi, vinto da minorenne, avr&agrave; sempre un sapore unico.  MotoGP 2020, Hernandez: &ldquo;Stop positivo per il recupero fisico di Marc&rdquo; 

Vent&rsquo;anni dopo Capirossi, ecco un altro minorenne Campione della 125: con un&rsquo;impresa da urlo all&rsquo;Estoril, conquist&ograve; un GP determinante per il suo unico titolo sulle due tempi

Ritorno al Futuro, 2010: Marc Marquez, il principe dell&#39;impossibile

A quali debuttanti della MotoGP &egrave; bastato un solo anno per catturare l&rsquo;attenzione? Nel decennio appena trascorso, quei nomi si contano sulle dita di una mano. Marc Marquez, ovviamente, che da rookie vinse il titolo della top class. Naturalmente Fabio Quartararo, autore di sei pole position e sette podi. E Marco Simoncelli. Gi&agrave;, perch&eacute; anche se i suoi risultati al primo anno di MotoGP non furono gli stessi dell&rsquo;attuale campione e del francese, a fine 2010 il SIC poteva gi&agrave; essere tranquillamente considerato un big della MotoGP, ben oltre l&rsquo;ottavo posto finale. Un piazzamento che non gli frutt&ograve; il premio di miglior debuttante, andato a Ben Spies, sesto e destinato a sostituire Valentino Rossi nel team ufficiale Yamaha, dove avrebbe anche vinto un GP. Presto, per&ograve;, l&rsquo;ex iridato Superbike sarebbe finito nell&rsquo;oblio.  A differenza del ragazzo di Coriano, e non soltanto perch&eacute; la scomparsa di Simoncelli, avvenuta in diretta televisiva con immagini impossibili da rimuovere dalla mente, scaten&ograve; una commozione generalizzata. Il SIC non monopolizz&ograve; gli spazi &ldquo;generalisti&rdquo; della TV esclusivamente per il funerale in diretta Rai, perch&eacute; era gi&agrave; diventato un personaggio noto anche ai non appassionati, era gi&agrave; entrato nelle case di tutti gli italiani. Merito di ci&ograve; che faceva in pista ma non soltanto.    Questo, anche prima di quel 2011 finito in modo tragico, un anno in cui Marco fu costantemente al centro degli eventi: fece in tempo a punzecchiarsi con Jorge Lorenzo alla vigilia del GP Portogallo, a vivere gli incidenti con Dani Pedrosa a Le Mans e con lo stesso Lorenzo ad Assen, si rammaric&ograve; per le occasioni perse a Jerez e Silverstone sul bagnato, sub&igrave; l&rsquo;assurdit&agrave; delle minacce di morte anonime prima del GP Catalunya, e la sua risposta pi&ugrave; evidente fu con la pole position. Quella nel dietro le quinte, invece, fu con la disarmante capacit&agrave; di sdrammatizzare, invitando i due agenti inviati come scorta a partecipare alla consuetudine delle partite a carte nell&rsquo;hospitality del Team Gresini.&nbsp;&nbsp;  Gresini, il polivalente: &ldquo;Le moto mi hanno dato e tolto tanto&rdquo;  E nelle sue ultime settimane, Marco pass&ograve; con la stessa spontaneit&agrave; dal brivido della Ford Fiesta WRC di Mikko Hirvonen alla Karatella Race - la spericolata discesa sui carretti, dalle colline fino al centro di Coriano - fino allo splendido secondo posto di Phillip Island, una settimana prima di Sepang. Trascorse pi&ugrave; tempo sotto i riflettori il SIC in quel solo 2011 che alcuni top rider della MotoGP in un&rsquo;intera carriera.&nbsp;  Gi&agrave; a fine 2010 il Sic era diventato un volto noto anche fuori dal paddock. Merito del talento, e di una riconoscibilit&agrave; unica: i capelli, la voce, la battuta prontissima, l&rsquo;ironia semplice ma mai banale, lo rendevano irresistibile. Le pubblicit&agrave; oppure le presenze da ospite in trasmissioni non sportive - dopo dieci anni, fa ancora effetto rivedere il suo sketch con Geppi Cucciari - si unirono all&rsquo;amicizia e alla complicit&agrave; con il pilota che aveva reso la MotoGP un fenomeno globale, Valentino Rossi. Amico e compagno di allenamenti che proprio in quel periodo matur&ograve; l&rsquo;idea del Ranch.  Purtroppo, proprio Rossi, per un tragico gioco del destino, fu coinvolto nell&rsquo;incidente fatale a Marco.&nbsp;    Simoncelli piaceva anche alla Honda e al suo uomo forte dell&rsquo;epoca, Shuhei Nakamoto, che per ridestare il gigante - vincitore di un solo titolo in sette anni dopo la partenza di Rossi - aveva optato per un profondo rinnovamento. Quindi la corte a Casey Stoner e Livio Suppo per il Team HRC, e un occhio di riguardo per il SIC, l&rsquo;astro nascente da coltivare, soprattutto in vista del ritorno alle 1000 di cilindrata, con una potenza pi&ugrave; adatta a un pilota di stazza come il ragazzo di Coriano. Un ritorno alle origini programmato per il 2012, ma il destino imped&igrave; al romagnolo di gareggiare sulla moto tanto desiderata (la RC213V con specifica &ldquo;factory&rdquo;), e conosciuta nei test di met&agrave; 2011.&nbsp;&nbsp;  Ma anche sulla RC212V, la 800, il SIC sprigion&ograve; il proprio talento. E lo fece gi&agrave; in un&rsquo;annata da rookie in cui mostr&ograve; di imparare in fretta. Nel 2010, Marco sbagli&ograve; pochissimo, mostrando di valere una moto per il 2011 molto vicina alle tre Honda-Repsol di Stoner, Pedrosa e Andrea Dovizioso.&nbsp;&nbsp;  Il salto in MotoGP si concretizz&ograve; con la Honda e il Team Gresini, dove il SIC venne accompagnato dal capotecnico Aligi Deganello, e dove cre&ograve; un nucleo unito anche da consuetudini come le partite a carte e i pasti tutti assieme in hospitality. &Egrave; con Deganello che Marco era riuscito a compiere il definitivo salto di qualit&agrave;, vincendo il Mondiale della 250 nel 2008, un&rsquo;impresa che il romagnolo avrebbe potuto bissare l&rsquo;anno successivo, ma un infortunio allo scafoide in inverno lo aveva costretto a &ldquo;regalare&rdquo; i primi due GP e a vivere un inseguimento lungo un&rsquo;intera annata. E vincere cinque gare nell&rsquo;arco di sette GP dall&rsquo;estate in poi non era stato sufficiente per agguantare Hiroshi Aoyama, ultimo campione nella storia della categoria a due tempi.&nbsp;&nbsp;  Simoncelli, ai tempi 23 anni, si present&ograve; al via del GP in notturna del Qatar nel 2010 dopo essere gi&agrave; stato protagonista in gara con le quattro tempi. A Imola, infatti, il regalo di addio dell&rsquo;Aprilia era stato con una wild card nel mondiale Superbike: con moto, gomme e avversari inediti, il SIC era andato cos&igrave; forte da prendersi il podio in Gara 2, festeggiato con un burnout d&rsquo;autore - un cerchio perfetto - alla Tosa. Per prendersi quel podio, Marco aveva superato alla Variante Bassa il compagno di team Max Biaggi, senza chiedere il permesso: &quot;Aligi, mi avevi detto prima del via di non fare la caz&hellip;.. di stare davanti al numero tre, ma la caz&hellip;... l&rsquo;ho fatta lo stesso&quot;, aveva detto al rientro ai box dopo aver fatto divertire in pista con la sua guida, un concentrato di talento e generosit&agrave;.    Era pronto per il salto in Honda, con Gresini che aveva preceduto la Yamaha e quella Ducati che attraverso Suppo aveva formulato a Marco una proposta in maniera inconsueta, in diretta TV. &quot;SuperSic &egrave; stato bravissimo, ha guidato da Dio. Marco, non &egrave; che il prossimo anno vuoi guidare una nostra moto? Sei sempre nei nostri cuori e mi farebbe piacere. A questo punto bisogna che ne parliamo&hellip;&quot; aveva detto dopo un successo del romagnolo in 250.&nbsp;&nbsp;  Simoncelli entr&ograve; in una MotoGP a fortissima impronta italiana: Rossi era il campione in carica, Dovizioso era pilota factory HRC, lo stesso Loris Capirossi era ufficiale Suzuki, mentre il compagno nel Team Gresini era Marco Melandri, ex vice iridato.&nbsp;&nbsp;  La prima Top 10 nella classe regina arriv&ograve; al terzo tentativo e con il decimo posto a Le Mans inizi&ograve; un poker di piazzamenti tra i migliori dieci. In Germania si registr&ograve; il primo ingresso tra i big, con il sesto posto a soltanto 7&rdquo; dal vincitore. Una posizione replicata a Motegi e a Phillip Island, dove fu il miglior pilota Honda al traguardo, preludio all&rsquo;esaltante corsa in Portogallo dove, a distanza dalla coppia Yamaha Lorenzo-Rossi, si accese una lotta tra piloti Honda e Ducati.&nbsp;&nbsp;  Alla penultima uscita sulla Desmosedici, Stoner scivol&ograve;, mentre l&rsquo;acciaccato Pedrosa cal&ograve; alla distanza, e a giocarsi il podio furono Dovizioso, Simoncelli e Hayden, che chiusero in quest&rsquo;ordine. &quot;Sono veramente felicissimo per la gara che ho disputato. Sono riuscito a essere costante per tutti i giri fino alla fine. Dovizioso era un pochino pi&ugrave; veloce di me in rettilineo per&ograve; pensavo di riuscire a batterlo, invece all&rsquo;ultimo giro sono uscito leggermente pi&ugrave; piano dall&rsquo;ultima curva e mi ha superato negli ultimi metri prima del traguardo&quot;.&nbsp;    Quel filotto di buoni risultati rappresent&ograve; un autentico step per Marco, pur con il rammarico di aver perso il podio contro il rivale di una vita Dovizioso. La prima volta di Valencia, GP successivo e chiusura del 2010, fu legata alla qualifica, con il sospirato approdo in prima fila, impresa seguita in gara da un duello entusiasmante in avvio con Lorenzo, fatto di sorpassi quasi a ogni curva.&nbsp;&nbsp;  &quot;Chiaramente dobbiamo ancora migliorare, un po&rsquo; la moto, un po&rsquo; l&rsquo;elettronica e sicuramente io devo metterci del mio, per salire spesso sul podio il prossimo anno&quot;.&nbsp;&nbsp;  Il 2010 si chiuse con l&rsquo;obiettivo centrato di vincere il duello interno con Melandri: &quot;Un pilota veloce e di esperienza, batterlo significa essere in buona posizione&quot; aveva detto a inizio stagione.&nbsp;&nbsp;  Quell&rsquo;anno da rookie sembrava potergli spalancare le porte del Mondo. E invece, sapendo come &egrave; andata, ripensare a quel periodo fa soltanto riemergere il rammarico e il dolore, per ci&ograve; che poteva essere e purtroppo non &egrave; stato.  Incidente per Elvio Deganello: ex meccanico di Simoncelli in gravi condizioni 

Il SIC fu protagonista del salto di categoria dopo essersi preparato tra la 250 e una wild card di successo in Superbike: in MotoGP convinse subito, entrando nelle case degli italiani

Ritorno al Futuro, 2010: Simoncelli, il rookie pi&ugrave; amato

Non &egrave; stato soltanto il fascino della prima volta a rendere storica l&rsquo;impresa di Jorge Lorenzo nel 2010. Il primo titolo di uno spagnolo in MotoGP, che avvi&ograve; una sequenza di nove titoli iberici in dieci stagioni nella top class, fu arricchito dal contesto: il maiorchino - gi&agrave; due volte iridato in 250 - fu capace di vincere il Mondiale da compagno di team del dominus Valentino Rossi, rovesciando la situazione nella top class, ma anche all&rsquo;interno del team ufficiale Yamaha. Al punto da spingere il pesarese a scommettere sulla Ducati. Una vicenda che, anni dopo, si sarebbe rovesciata, con Lorenzo a sentirsi di troppo a inizio 2016, puntando su Borgo Panigale per il biennio successivo.&nbsp;&nbsp;  Battere Rossi, che a 30 anni era tornato padrone e si sentiva pronto per la Decima, non appariva semplice. Ma Lorenzo aveva lavorato su se stesso in ogni aspetto: per esempio, aveva arginato la propria timidezza frequentando un corso di recitazione durante l&rsquo;anno da rookie in classe regina. Anche se la &ldquo;nuova versione&rdquo; ebbe i suoi effetti collaterali: &quot;A volte ho dichiarato certe cose semplicemente per mostrarmi pi&ugrave; sicuro di quanto non fossi realmente...&quot;.&nbsp;    Jorge impar&ograve; dai momenti negativi dei primi due anni in top class: prima metabolizz&ograve; le botte tremende generate dall&rsquo;approccio con la MotoGP - quando dopo traumi cranici e caviglie fratturate ammise di aver avuto paura di morire - poi fece tesoro della bruciante sconfitta in casa a Barcellona, dove Valentino lo super&ograve; all&rsquo;ultima curva con uno dei sorpassi pi&ugrave; belli di sempre. A differenza di Casey Stoner, che nell&rsquo;avventura ducatista non seppe riannodare il filo spezzato sul sorpasso subito al Cavatappi di Laguna Seca da Rossi, nel 2010 Lorenzo si ripresent&ograve; pi&ugrave; agguerrito. Forte anche di un team preparatissimo, con Ramon Forcada capotecnico e Davide Marelli prezioso aiuto al reparto degli elettronici, fino al fondamentale inserimento di Wilco Zeelenberg come team manager. &quot;Wilco ha corso ad alti livelli, mi fornir&agrave; preziosi consigli di guida&quot;. Il maiorchino fu buon profeta.&nbsp;&nbsp;  Lorenzo inizi&ograve; il 2010 dopo aver recuperato da un infortunio alla mano destra rimediato in inverno, e inizi&ograve; a vedere il compagno di team soffrire per guai fisici. E ben prima del Mugello, perch&eacute; se &egrave; vero che la gamba fratturata imped&igrave; a Rossi di disputare quattro gare, fu soprattutto la spalla infortunata allenandosi con il Motocross - pochi giorni dopo aver vinto il GP inaugurale in Qatar - a condizionare Valentino. Tanto che a fine stagione, quando venne operato, si disse che la spalla venne trovata in condizioni peggiori di quanto preventivato.&nbsp;&nbsp;  Lorenzo seppe approfittarne, e non si limit&ograve; a trionfare a Jerez - dopo una lunghissima rimonta - e Le Mans. Perch&eacute; decise di vincere su tutta la linea: in pista, nel peso all&rsquo;interno del team e persino nella&hellip; festa.&nbsp;&nbsp;    Il ventitreenne, infatti, celebr&ograve; nel giro d&rsquo;onore con trovate ispirate alle celebri gag di Valentino: in Spagna si gett&ograve; in un laghetto a bordo pista, e con la tuta inzuppata d&rsquo;acqua e il casco fatic&ograve; a riemergere, in Francia si sedette davanti a un maxischermo gustando dei pop corn come se fosse al cinema. Al predominio in pista, forte anche di una M1 al punto pi&ugrave; alto dell&rsquo;era delle 800, Lorenzo un&igrave; l&rsquo;ironia, leggibile anche come scherno, e per la prima volta in un duello generazionale, Valentino si ritrov&ograve; dalla parte sbagliata: quella del veterano da spodestare. L&rsquo;incidente del Mugello acceler&ograve; il processo: Lorenzo fece tripletta a Silverstone (dove ad attenderlo in pista c&rsquo;erano tre amici vestiti da Beatles...), Assen e Barcellona, poi rivinse a Laguna Seca - dove festeggi&ograve; al Cavatappi vestito da uomo sulla Luna, piantando la canonica bandiera &ldquo;Lorenzo&rsquo;s land&rdquo; - e Brno, dove sal&igrave; a sette successi nei primi dieci GP. Un dominatore assoluto in una MotoGP che pure aveva tutti gli ufficiali - i due piloti Yamaha, e le coppie Pedrosa-Dovizioso e Stoner-Hayden &ndash; sulle stesse moto dell&rsquo;anno precedente, pi&ugrave; una promettente infornata di rookie, con Marco Simoncelli e Ben Spies.&nbsp;  Il titolo era ipotecato gi&agrave; in piena estate, quando scoppi&ograve; la bomba del passaggio di Rossi alla Ducati. Di fatto, il maiorchino divenne ci&ograve; che Phil Read aveva rappresentato per un&rsquo;altra leggenda, Giacomo Agostini. &quot;Non so perch&eacute; Valentino abbia lasciato la Yamaha - dichiar&ograve; Lorenzo - sicuramente stava bene prima del mio arrivo, ma quando il mio rendimento &egrave; cresciuto lui si &egrave; ritrovato in una posizione meno comoda&quot;.&nbsp;&nbsp;  Rossi annunci&ograve; l&rsquo;addio a Ferragosto, e scese dalla M1 non prima di un&rsquo;ultima impresa, a Sepang, nel giorno in cui per&ograve; Lorenzo, terzo al traguardo, conquist&ograve; il titolo: era il 10 ottobre 2010 quando al quartultimo GP celebr&ograve; con le magliette &ldquo;Game Over&rdquo; e i figuranti vestiti da Super Mario Bros.    E da 10 fu la sua stagione da nove vittorie, otto delle quali per distacco. Gi&agrave;, perch&eacute; Jorge era preciso, veloce, bellissimo da vedere in sella, ma meno da &ldquo;corpo a corpo&rdquo; rispetto a Rossi e Marquez. &quot;Migliorer&ograve; la partenza, vedrete&quot; aveva detto alla vigilia della stagione, unendo l&rsquo;atto alla parola, generando per&ograve; pi&ugrave; di una gara povera di pathos. &quot;Lorenzo si merita il Mondiale, ma con me avrebbe avuto vita meno facile&quot; disse Valentino. In effetti, il suo compagno vinse con 148 punti su Pedrosa, mentre Rossi, con due gare in meno rispetto a Dani, chiuse a soltanto 12 punti dal pilota Honda. &quot;Forse vincer&ograve; ancora - disse Lorenzo a Sepang - ma nessun altro titolo sar&agrave; come questo, perch&eacute; ho battuto Rossi, il pi&ugrave; forte pilota della storia, con la sua stessa moto&quot;.&nbsp;&nbsp;  Una settimana prima del titolo di Jorge, per&ograve;, Rossi si era tolto un sassolino dallo stivale, aggiudicandosi a Motegi un duello in famiglia da mezzogiorno di fuoco. I due piloti Yamaha non corsero per un (misero) terzo posto nel GP Giappone, ma per marchiare il territorio. Vale prevalse e Jorge si infuri&ograve;: &quot;Rossi non ha giocato pulito, ho temuto per la mia integrit&agrave; fisica, mi ha toccato tre volte, non &egrave; normale se a farlo &egrave; il tuo compagno mentre tu ti stai giocando il titolo. Mi sono riunito con lo staff Yamaha, mi hanno garantito che gli faranno un richiamo&quot;. Quella presa di posizione annunciata da Lorenzo nei confronti del pilota che da solo aveva rimesso la Yamaha al centro del Motomondiale, ma che poi era stato spinto verso la porta, sintetizz&ograve; quanto e come le cose fossero cambiate, in quel solo 2010...  Lorenzo: &ldquo;Rossi-Marquez? Dall&#39;Argentina 2015 &egrave; cambiato tutto&rdquo; 

Il trionfo di Lorenzo fu il primo di uno spagnolo in MotoGP. Jorge tolse a Valentino lo status di numero uno anche in casa Yamaha:&nbsp;&laquo;Ho battuto il pilota pi&ugrave; forte di sempre, con la sua stessa moto&raquo;

Ritorno al Futuro, 2010: Jorge Lorenzo, il pioniere

&quot;E dire che non amavo l&rsquo;Estoril...&quot;. Le snervanti curve dell&rsquo;Estoril non sono mai piaciute troppo a Marco Melandri. Il dolore all&rsquo;avambraccio che aveva nell&rsquo;affrontare i tornanti veloci, le staccate e le rapide riprese, non gli consentivano di amare il circuito portoghese. Eppure &egrave; proprio l&igrave; che il 3 settembre 2000, poche settimane dopo aver compiuto 18 anni, Melandri imprezios&igrave; l&rsquo;anno d&rsquo;esordio in 250 con il primo podio nella categoria di mezzo.  Una categoria ricca di protagonisti quell&rsquo;anno, sebbene fossero saliti in 500 Valentino Rossi e Loris Capirossi, campioni dei due anni precedenti: nel 2000 la quarto di litro era la classe di Olivier Jacque e Shinya Nakano (i piloti della Yamaha Tech 3 che si contesero il titolo, vinto dal francese), del sensazionale debuttante Daijiro Kato, per la prima volta impegnato in tutto il Mondiale e non soltanto nelle wild card, poi Tohru Ukawa e Ralf Waldmann. Fu in tale contesto che si ritrov&ograve; a lottare Melandri, arrivato alla classe di mezzo dopo due anni interi in 125, contrassegnati da sette successi e altri dieci podi, con il titolo mondiale perso un punto contro quell&rsquo;Emilio Alzamora iridato senza vincere un GP.&nbsp;  Melandri approd&ograve; ancora minorenne alla 250, categoria che nel decennio precedente era stata a forte impronta italiana, con otto Mondiali vinti da Luca Cadalora, Max Biaggi, Capirossi e Rossi. Un&rsquo;eredit&agrave; doppiamente pesante visto che Melandri saliva sulla moto, l&rsquo;Aprilia, che aveva vinto cinque volte nei precedenti sei anni, sempre con piloti italiani.&nbsp;  &quot;Quando nel 2000 arrivai all&rsquo;Aprilia - racconta - mi accolsero molto bene, ma al tempo stesso fu un anno complicato perch&eacute; arrivai subito dopo Valentino e nel team erano tutti innamorati di lui. Per loro gli aspetti che funzionavano nella moto erano quelli che avevano conosciuto con Rossi. Io per&ograve; avevo necessit&agrave; completamente diverse perch&eacute; ero pi&ugrave; basso e pi&ugrave; minuto, e perch&eacute; guidavo in modo diverso. Per me, quindi, il primo anno fu difficile&quot;.&nbsp;&nbsp;    L&rsquo;esordio in 250 non sort&igrave; l&rsquo;effetto desiderato: Marco ottenne un tredicesimo posto in Sud Africa a un minuto e mezzo da Nakano, per poi arrivare a sfiorare il terzo posto al Mugello, preceduto di pochi millesimi da Kato, e a Brno.&nbsp;&quot;La voglia di ottenere il podio - prosegue Melandri rituffandosi nei ricordi di quel periodo - era veramente tanta&quot;. E infatti, di l&igrave; a poco, il risultato arriv&ograve;, inevitabile per una combinazione come quella formata dal talento del romagnolo e dalla qualit&agrave; tecnica dell&rsquo;Aprilia.  Il GP del Portogallo del 2000 fu la dodicesima tappa del calendario e fu ricca di sorprese. Melandri partiva dalla sesta posizione in griglia; la pole position era stata di Jacque, davanti ai giapponesi Kato, Nakano e Ukawa. Melandri, invece, aveva alla sua sinistra il tedesco Waldmann, a destra c&rsquo;era David Checa e poco pi&ugrave; in l&agrave; Klaus N&ouml;hles.&nbsp;  La battaglia fu subito serrata: Kato balz&ograve; al comando di una gara che avrebbe vinto di larga misura, seguito nei primi giri da Ukawa, Melandri e Nakano. La corsa dei due giapponesi inseguitori, per&ograve;, fin&igrave; al quarto giro. Se Ukawa scivol&ograve; in modo innocuo, Nakano che si trovava in scia e con il gas spalancato non fece neppure in tempo a frenare centrando in pieno la Honda NSR ufficiale che fece da trampolino. Nonostante la dinamica spaventosa, Nakano riport&ograve; una ferita al gomito destro, senza fratture, ma quell&rsquo;unico &ldquo;zero&rdquo; stagionale fu fatale per le sue chance di titolo.&nbsp;  Ad approfittare della doppia uscita di scena furono Melandri e Jacque con il francese che and&ograve; a prendersi la seconda posizione e &ldquo;Macio&rdquo; che per il resto della gara cerc&ograve; di rimanere aggrappato al suo codone, fino a mollare un po&rsquo; il gas una volta consapevole che il terzo gradino del podio sarebbe stato suo.&nbsp;  Melandri su Rossi: &ldquo;Pi&ugrave; difficile ritirarsi che continuare andando male&rdquo;  Marco, in quell&rsquo;occasione, divent&ograve; il pilota pi&ugrave; giovane a salire sul podio della 250 superando il primato che fino a quel momento era del leggendario Mike Hailwood: Melandri aveva 18 anni e 27 giorni, contro i 18 anni e 63 giorni di &quot;Mike the Bike&quot;, quando fu terzo al terribile Tourist Trophy del 1958.  &quot;Fu una gara difficile per me - racconta oggi Melandri - su un circuito che non amavo e quindi le aspettative a inizio weekend non contemplavano il podio. Sicuramente fui fortunato perch&eacute; ci fu la caduta di Ukawa e Nakano all&rsquo;uscita dal tornantino. Diedero una bella botta. In ogni caso, me la sarei potuta comunque giocare con loro perch&eacute; in gara, rispetto alle prove, stavo meglio a livello di braccia&quot;.&nbsp;  Il ricordo va quindi all&rsquo;ultimo giro quando, di norma, la saliva &egrave; a zero e la voglia di aggiudicarsi un piazzamento accostabile a una vittoria &egrave; immensa: &quot;Pensavo a un sacco di cose - dice - a tutte le difficolt&agrave; che avevo incontrato nella prima parte della stagione, al fatto che non riuscivo mai ad avvicinare il podio, cos&igrave; come non riuscivo a trovare il giusto feeling con la moto. Soltanto dopo avrei realizzato che con un piccolo salto di qualit&agrave; avrei potuto giocarmi anche la vittoria&quot;.&nbsp;&nbsp;E infatti, nelle dichiarazioni che &ldquo;Macio&rdquo; rilasci&ograve; quel giorno, a fine GP, spieg&ograve; di non essere del tutto soddisfatto: &quot;Dissi certe cose, perch&eacute; sapevo che avrei potuto fare di pi&ugrave; ed essere pi&ugrave; veloce&quot;.&nbsp;    Quel podio in Portogallo sblocc&ograve; Melandri, che ripet&eacute; il terzo posto anche nei tre GP successivi: a Valencia, dove si classific&ograve; dietro Nakano e Jacque, ma super&ograve; Ukawa in volata, poi a Rio venne regolato in volata dalle Honda di Kato e dello stesso Ukawa, mentre a Motegi fu terzo alle spalle di Kato e Nakano.&nbsp;  A fine campionato ottenne il quinto posto nella classifica generale con 159 punti: &quot;Quando arrivai all&rsquo;Aprilia - ammette - puntavo a qualcosa di diverso ma incappai in un sacco di cadute molto pesanti durante l&rsquo;inverno. A inizio stagione avrei voluto cercare di cambiare qualcosa, avrei dovuto essere pi&ugrave; calmo e rischiare di meno&quot;.&nbsp;  Di quell&rsquo;anno in particolare, inoltre, Melandri ricorda bene gli avversari e le moto rivali: &quot;Le Yamaha erano veramente veloci, Nakano era forte e nel 2000 guid&ograve; meglio di Jacque anche se poi il titolo and&ograve; al francese. In Aprilia c&rsquo;era anche Waldmann e per me lui fu il riferimento pi&ugrave; importante&quot;.&nbsp;  Quel 2000 fu un prezioso anno di scuola per Melandri, che dopo una stagione senza successi si riscatt&ograve; l&rsquo;anno successivo, vincendo il GP Germania e conquistando nove podi, buoni per il terzo posto dietro il dominatore Kato e Tetsuya Harada.&nbsp;&nbsp;  Il trionfo sarebbe arrivato nel 2002, con nove successi che lo resero il pi&ugrave; giovane campione del Mondo della 250, superato poi da Dani Pedrosa e Jorge Lorenzo. Ma quel titolo, che garant&igrave; il salto alla MotoGP nel 2003, fu la &ldquo;missione compiuta&rdquo; per Melandri, capace di ottenere lo stesso risultato di Rossi - e sulla stessa moto - ma con qualche mese in meno sulla carta d&rsquo;identit&agrave;.&nbsp;&nbsp;  Del resto, Melandri &egrave; sempre stato enfant prodige: debutt&ograve; nel Motomondiale a soli 15 anni e 24 giorni in 125, categoria nella quale il primo successo arriv&ograve; a 15 anni, dieci mesi e 20 giorni, primato che nel 2008 &egrave; stato battuto da Scott Redding. Anche se a firmare il record assoluto, nel 2018, &egrave; stato il turco Can &Ouml;nc&uuml; (in Moto3).&nbsp;  Melandri, che a fine stagione 2019 ha annunciato il suo ritiro dal mondo delle competizioni, &egrave; anche il pilota italiano con pi&ugrave; vittorie in Superbike, 22, le stesse ottenute nei GP. Anche se 20 anni fa, un terzo posto fu grande quasi quanto una vittoria e regal&ograve; un record &ndash; insidiato ma soltanto sfiorato da Lorenzo, sul podio a 18 anni e 33 giorni &ndash; che nessuno potr&agrave; cancellare, visto che la 250 &egrave; andata in pensione...  Melandri e Fabrizio si sfidano a suon di &ldquo;lato B&rdquo;&nbsp;- FOTO 

A 18 anni appena compiuti, il romagnolo divenne il pilota pi&ugrave; giovane sul podio della 250, togliendo il primato al leggendario Hailwood

Ritorno al Futuro, 2000: Marco Melandri, l&#39;enfant prodige

La stagione 2000 &egrave; ricordata come una delle pi&ugrave; controverse della storia della Superbike.&nbsp;Il primo di due titoli mondiali vinti da Colin Edwards con la Honda &egrave; tutt&rsquo;ora avvolto da strascichi e condito da polemiche perdurate nel tempo. Il ritiro forzato del campione in carica Carl Fogarty e la squalifica del diretto contendente Noriyuki Haga - che corse sub iudice, in attesa di conoscere il verdetto sul caso-doping - ebbero un peso sugli esiti della pista, lasciando anche qualche dubbio.&nbsp;&nbsp;  Non vanno, tuttavia, sottratti i meriti del pilota statunitense, al via con il numero 2, a testimonianza di come gi&agrave; nel 1999 il texano di Houston stesse preparando il colpaccio; per riuscirci, gli serviva una moto nuova. Pensionata la RC45, modello a quattro cilindri da 750 cm&sup3; sul trono nel 1997 con John Kocinski, l&rsquo;HRC sfid&ograve; la Ducati ad armi pari. La bicilindrica VTR 1000 SP venne concepita dal reparto corse di Tokyo, poi sviluppata dai collaudatori, in seguito portata in Europa con tanto di ingegneri giapponesi allegati.  Scatto Sprint, Honda: la VTR 1000 SP e i trionfi di Colin Edwards  Quando il Team Castrol ricevette il tutto, il manager Neil Tuxworth rimase a bocca aperta: &quot;Soltanto gli uomini della Casa sanno cosa ci sia l&igrave; sotto. Dal canto mio, posso dire che la moto &egrave; bella&quot;. La VTR 1000 SP andava pure forte. Malgrado una voce somigliante al borbottio di un trattore, la V Twin dell&rsquo;Ala Dorata mangiava metri alle avversarie e le superava. Nei test invernali, Colin ne esplor&ograve; i limiti, ogni tanto oltrepassandoli: una caduta a Valencia cost&ograve; a Edwards qualche sbucciatura, ma non fu quello il problema. La moto ruzzol&ograve; ripetutamente nella ghiaia, finendo poi contro le barriere. I nipponici erano disperati: nel capitombolo, volarono via carene e componenti, svelando i &ldquo;segreti&rdquo; celati nel garage da grandi paratie portate in giro nei box di ogni paddock. Quel capitombolo fu il primo brivido di un&rsquo;annata da thriller, che vale la pena ripercorrere capitolo dopo capitolo.&nbsp;&nbsp;  La prima sfida dell&rsquo;anno present&ograve; subito il &ldquo;Millennium bug&rdquo; SBK. A Kyalami, Edwards e Haga si spartirono i successi di manche, per&ograve; se andate a controllare le statistiche, non troverete il nome del portacolori Yamaha. Pi&ugrave; in l&agrave;, infatti, Nori e la sua R7 con gomme Dunlop (che lui desider&ograve; ardentemente, tanto da lasciare le Michelin) vennero cancellati dall&rsquo;ordine di arrivo, a causa di un controllo antidoping nel quale il giapponese risult&ograve; positivo all&rsquo;efedrina, Quei 25 punti mancanti risultarono pesanti nelle addizioni finali.  Vent&#39;anni fa: la doppietta virtuale di Edwards a Kyalami  Il secondo episodio determinante arriv&ograve; subito dopo, a Phillip Island. La storica vittoria di Anthony Gobert sulla Bimota e il primo gradino del podio ottenuto da Troy Corser con l&rsquo;Aprilia finirono in secondo piano: Fogarty, infatti, non si alz&ograve; con le proprie gambe dal fradicio prato australiano. Il tamponamento su asfalto umido da parte della sua 996 ai danni di Robert Ulm fu fatale alla carriera di The King, che torn&ograve; a casa con il braccio legato al collo, danno che sanc&igrave; il suo ritiro dalle corse.&nbsp;&nbsp;  Il terzo round port&ograve; a Sugo i vertici delle aziende giapponesi. Ci&ograve; era sinonimo anche di tante wild card all&rsquo;assalto e occhi puntati su tre piloti: Edwards, perch&eacute; la Honda desiderava vincere in casa; Haga, voglioso di regalare almeno un trofeo alla Yamaha; Troy Bayliss, novit&agrave; Ducati in sostituzione di Foggy. Edwards ebbe un terzo posto, Haga un secondo e l&rsquo;australiano due incidenti senza completare un giro. Trionf&ograve; a bottino pieno Hitoyasu Izutsu con la Kawasaki.&nbsp;  Scatto Sprint: Kawasaki &egrave; la regina dei record, all&#39;arrivo di Sykes  Altra pagina importante fu a Donington, dove il Team Infostrada schier&ograve; Luca Cadalora, stella dei GP al posto di Bayliss. Ma il tre volte iridato con moto a due tempi trov&ograve; pane per i suoi denti nelle derivate di serie a quattro tempi. Per il ducatista, nessun punto ottenuto, mentre l&agrave; davanti se le davano di santa ragione. La prima manche fu di Texas Tornado, nel pomeriggio il pilota &ldquo;ospite&rdquo; Neil Hodsgon si sblocc&ograve;, mettendo in riga i titolari della griglia.    Monza, Italia. Il pubblico delle grandi occasioni festeggi&ograve; Pierfrancesco Chili, profeta in patria sulla Suzuki. La seconda manche and&ograve; a Edwards, che a fine gara spieg&ograve; di aver appena visto il proprio futuro a breve. &quot;Ho lottato con Frankie, Nori e Yanagawa, ma a sorprendermi &egrave; stato quel diavolo di un australiano. Da dove &egrave; uscito fuori?&quot;. Il riferimento era ovviamente a Bayliss, stavolta non abbattuto ma capace di sorpassare quattro avversari in un sol colpo. Edwards compreso. Quel duello si sarebbe rivisto. Anche e soprattutto in Italia...&nbsp;  La tensione sal&igrave; perch&eacute; a Hockenheim, a met&agrave; Mondiale, si sarebbero viste le reali prestazioni motoristiche di ogni modello. Volava la VTR, con i suoi 190 cavalli. Faticava la Yamaha, a cui mancava lo spunto finale, sopperito da Haga, che staccava a ruote bloccate, come in Gara 2, con un sorpasso su Edwards al Motodrom. Ma l&rsquo;americano ci aveva visto bene a Monza: Bayliss vinse la prima gara internazionale della carriera iniziando ad alleggerire la dipartita di Fogarty. Edwards and&ograve; via dalla Germania da leader iridato, ma insoddisfatto. La missilistica Honda era da vittoria, sfuggita.  Discorso tutto italo-australiano a Misano, dove Corser e l&rsquo;Aprilia fecero doppietta, sempre davanti a Bayliss e alla Ducati. Male il texano, caduto in Superpole il sabato e opaco nelle due gare: &quot;Devo migliorare il feeling con l&rsquo;avantreno, ci sono fasi in cui non sento la ruota anteriore&quot; disse, invocando anche l&rsquo;ausilio del gommista Michelin. Aiuti che non arrivarono in tempo per Valencia, dove Colin ottenne un totale (misero) di 24 punti, Haga fu terzo e primo, per un computo di 41 punti, come il suo numero di gara.&nbsp;&nbsp;  Di fronte al pubblico di casa, a Laguna Seca, il biondo texano prepar&ograve; la riscossa, ma venne beffato proprio dal giapponese, primo e poi secondo. Sofferenza anche alla prima uscita a Brands Hatch per il leader del Mondiale, decimo e sesto, mentre la Ducati visse di piacevoli conferme: quella di Bayliss meritevole del posto e di Hodgson pronto per un Mondiale da protagonista. Edwards, invece, pativa non soltanto la &ldquo;giovent&ugrave;&rdquo; di una moto nuova, ma anche l&rsquo;impegno (numerosi test e la gara) per la 8 Ore di Suzuka, particolarmente sentita dall&rsquo;HRC che in quell&rsquo;epoca schierava Valentino Rossi e Texas Tornado. E dopo il flop del 2000, l&rsquo;anno dopo i due trionfarono.  In quella stagione della Superbike, invece, Colin non ebbe un compagno di squadra &ldquo;fisso&rdquo;, perch&eacute; Aaron Slight dovette risolvere importanti problemi di salute prima di tornare in sella, mentre il sostituto Simon Crafar non riusc&igrave; ad ambientarsi nel box Castrol, tantomeno sulla bicilindrica Honda. Perci&ograve;, tutto il lavoro era sulle spalle di Edwards che per&ograve; venne ricompensato dall&rsquo;HRC, con aggiornamenti importanti per la moto del Mondiale.&nbsp;  Infatti, in Olanda, l&rsquo;allora ventiseienne sigl&ograve; pole e una vittoria, poi arriv&ograve; Oschersleben, dove Haga pat&igrave; la gi&agrave; illustrata condizione di sub iudice, che ebbe il culmine in Inghilterra, appuntamento conclusivo dell&rsquo;anno.&nbsp;  Il tribunale sportivo della FMI conferm&ograve; la positivit&agrave; di Nitro Nori, che venne estromesso dagli ordini di arrivo, con tanto di ulteriori 25 punti tolti per la vittoria di Kyalami. Colin tir&ograve; fuori l&rsquo;orgoglio e fece sua la seconda manche di Brands Hatch (dove quell&rsquo;anno si corse sia la tappa d&rsquo;Europa che quella d&rsquo;Inghilterra) e la vittoria si rivel&ograve; la pi&ugrave; importante: &quot;Piango perch&eacute; sono emozionato&quot; dichiar&ograve; il neo iridato. &quot;&Egrave; stato tanto il lavoro da fare, tra incognite e difficolt&agrave;. Ho sentito mille voci a mio sfavore, quindi oggi volevo dimostrare di meritare il titolo&quot;.&nbsp;&nbsp;  Cancellati i sospetti dei maligni, Texas Tornado avrebbe fatto ancora meglio, due anni dopo. L&rsquo;alloro 2002 fu un successo da leggenda, meritato, pulito e senza polemiche. Chiedetelo a Troy Bayliss, rivale sconfitto con l&rsquo;onore delle armi nonch&eacute; il primo a riconoscere il valore dell&rsquo;americano e della Honda.  Imola 2002, Edwards: &ldquo;Una delle gare che ricorder&ograve; per sempre&rdquo; 

Edwards conferm&ograve; la velocit&agrave; delle stagioni precedenti, sfruttando la nuova bicilindrica Honda, il ritiro forzato di Fogarty e la sanzione di Haga. Nel 2000, al texano manc&ograve; soltanto il successo alla 8 Ore di Suzuka con Rossi

Ritorno al Futuro, 2000: Edwards al posto giusto

L&rsquo;intervista esclusiva a Maverick Vi&ntilde;ales ci fa capire quanto sia cambiato il suo approccio alle gare, dopo &ldquo;l&rsquo;investitura ufficiale&rdquo; come primo pilota Yamaha nella MotoGP. Ereditato il ruolo da Valentino Rossi, ora &egrave; lui che prover&agrave; a compiere le scelte giuste con l&rsquo;obiettivo di battere l&rsquo;invincibile armata Honda-Marquez. Dopo l&rsquo;esperienza in Suzuki, con cui a quei tempi di certo non poteva reggere il confronto con gli avversari, e gli anni da secondo del Dottore, al momento della ripartenza del campionato Maverick avr&agrave; tutte le carte in regola per andare all&rsquo;assalto della corona. Un messaggio chiaro a Marquez l&rsquo;ha gi&agrave; mandato ed &egrave; il titolo della copertina di questo numero.&nbsp;&nbsp;  A proposito del campione del Mondo, nella sesta puntata di &ldquo;Ritorno al Futuro&rdquo; dedicata al 2010 raccontiamo il suo primo, rocambolesco titolo mondiale conquistato nella 125. E c&rsquo;&egrave; spazio anche per il primo titolo di uno spagnolo nella MotoGP, quello di Jorge Lorenzo. Del Motomondiale, raccontiamo anche le ultime notizie che arrivano da radio-paddock: ovvero il tentativo di iniziare il 19 luglio a Jerez con una seconda gara la settimana dopo sullo stesso circuito. Jerez potrebbe diventare il palcoscenico anche del via della Superbike, l&rsquo;1-2 agosto.&nbsp;  Come sempre, su Motosprint c&rsquo;&egrave; anche tanta Italia: Moreno Coppola, capotecnico MIE Racing Althea Honda Team, ci spiega come preparare una vera derivata di serie. Ma non mancano i racconti degli anni passati in pista accanto ai piloti da Nando De Cecco e la folle vita di Alberto Donati nello Speedway. Non &egrave; finita qui: tutte da leggere la storia della dinastia Farioli nel Fuoristrada, il ricordo del debutto di Marco Simoncelli nella classe regina, l&rsquo;anno d&rsquo;oro di Alex Salvini nel Cross e la vittoria di Michele Pirro nella Moto2 a Valencia in onore dello stesso SIC.&nbsp;&nbsp;  Si riaccendono i motori: primi test a Misano 

Vi&ntilde;ales, Marquez e Lorenzo da una parte. Il debutto del SIC,&nbsp;le storie di Pirro, Farioli e Salvini dall&rsquo;altraIn questo numero gli spagnoli, almeno nelle pagine della Velocit&agrave;, la fanno da padroni.

L&#39;editoriale del Direttore: &egrave; sempre Spagna-Italia

Il Coronavirus non ci ferma e per farvi sentire la nostra vicinanza in queste lunge giornate, abbiamo deciso di lanciare un nuovo appuntamento settimanale con la nostra imperdibile rubrica: Marted&igrave; Sprint.  E da cosa potevamo iniziare se non dal tema pi&ugrave; scottante della scorsa settimana? La sentenza emessa dalla Disciplinare della FIM, che squalifica per 18 mesi Andrea Iannone, trovato positivo all&#39;antidoping in occasione di un controllo effettuato durante il weekend del GP della Malesia.  Cosa ha portato alla squalifica del pilota di Vasto e come si comporter&agrave; adesso la difesa? L&#39;Avvocato De Rensis, legale di Iannone, ne ha parlato approfonditamente con il nostro Direttore, Federico Porrozzi, Mirco Melloni e Mirko Colombi.  Per questo, e molto altro, guardate il video!    L&#39;editoriale del Direttore: il lato positivo 

L&#39;Avv. Antonio De Rensis, legale di Andrea Iannone, parla con il Direttore, Federico Porrozzi, con Mirco Melloni e Mirko Colombi della sentenza che ha portato alla squalifica di 18 mesi per il pilota di Vasto.

Marted&igrave; Sprint: Iannone, SBK e Ritorno al futuro

Quattro anni di grandi emozioni, duelli incredibili e prime volte da ricordare. L&rsquo;ultimo titolo mondiale di Kenny Roberts, i primi titoli di Capirossi, Rainey, Roche ed Edwards,&nbsp;ma anche quello di Locatelli con il Team di Vasco Rossi e quello di Biaggi in SBK. Senza dimenticare la stagione dello stop di Fogarty, il primo anno di Simoncelli in MotoGP, la prima vittoria di Rossi in 500 (e il suo infortunio al Mugello).&nbsp;  Poi, quelle di Iannone, Rolfo e De Angelis in Moto2 e i primi podi mondiali di Poggiali, Melandri, di Federici nel cross. E a proposito di off-road, l&rsquo;iride di Cairoli con KTM, i titoli sfiorati da Michele Rinaldi e Alex Salvini, l&rsquo;avventura di Chiodi negli USA, l&rsquo;ascesa di Herlings e il mondiale di Mario Rinaldi.  Sono solo alcuni degli argomenti che affronteremo (e ricorderemo) nei prossimi numeri di Motosprint in edicola dal 7 aprile. Lo faremo raccontando i piloti e le sfide pi&ugrave; incredibili di quegli anni ma a volte saranno gli stessi protagonisti a tornare indietro nel tempo, attraverso alcune interviste tutte da leggere.&nbsp;  In questo periodo di stop alle gare, ne approfittiamo per portarvi con noi in un viaggio nel passato. Per ricordarci da dove viene il nostro sport e la sua evoluzione, a livello di uomini e mezzi.  E per far battere di nuovo il nostro cuore di appassionati, in attesa che tutto torni alla normalit&agrave;.&nbsp;E che si spenga di nuovo il semaforo rosso&hellip; 

Dal 7 aprile, su Motosprint, le sfide pi&ugrave; belle e i personaggi pi&ugrave; emblematici di quattro stagioni che hanno rappresentato gli &ldquo;anni zero&rdquo; degli ultimi decenni

Ritorno al futuro: le emozioni del 1980, 1990, 2000 e 2010 su Motosprint

Il rientro di Valentino Rossi dopo 25 giorni dalla rottura di tibia e perone &egrave; stato notato non soltanto da tifosi e addetti ai lavori, ma &egrave; arrivato dritto a Montecarlo facendolo entrare di diritto tra i candidati ai Laureus Sports Awards 2018. Nella giornata di ieri sono infatti stati annunciati tutti i candidati tra gli sportivi che nel 2017 hanno spiccato per le loro doti e che il prossimo 27 febbraio verranno premiati in quelli che saranno dei veri e propri Oscar dello sport.  LA CANDIDATURA &ndash; E tra gli sportivi di spicco, nella categoria &ldquo;comeback of the year&rdquo; ovvero &ldquo;ritorno dell&#39;anno&rdquo; c&#39;&egrave; anche Dottor Rossi, in quanto &egrave; stato protagonista di un rientro fulmineo in Motogp dopo un brutto infortunio. Ricordiamo che Valentino, lo scorso 31 agosto mentre si stava allenando insieme ai ragazzi dell&#39;Academy in una sessione di enduro, &egrave; caduto procurandosi la frattura di tibia e perone. Ma il campione di Tavullia non si &egrave; dato per vinto e dopo un&#39;operazione e un inizio di riabilitazione davvero tempestivo, &egrave; riuscito a tornare in sella alla sua M1 solo dopo 25 giorni dall&#39;infortunio prendendo parte al Gp di Aragon.  ALTRI CANDIDATI IN LIZZA &ndash; Ma Valentino avr&agrave; avversari davvero tosti con cui battersi anche in questa occasione, dato che tra i nominati nella sua stessa categoria spiccano nomi altisonanti come Roger Federer che in passato ha gi&agrave; ricevuto quattro statuette ed &egrave; il favorito anche quest&#39;anno. Il tennista non solo &egrave; candidato nella categoria &ldquo;comeback of the year&rdquo; ma anche in quella di &ldquo;Sportsman of the year&rdquo; ovvero &ldquo;sportivo dell&#39;anno&rdquo;. Ma non &egrave; finita qui, perch&eacute; tra gli altri candidati ci saranno anche Cristiano Ronaldo, Il Real Madrid, Kylian Mbapp&egrave;, il Barcellona e la Chapecoense. &nbsp; 

Dottor Rossi &egrave; tra i candidati ai Laureus Sports Awards, gli Oscar dello Sport che si svolgeranno a Montecarlo il 27 febbraio

&#39;Ritorno dell&#39;anno&#39;, Valentino Rossi in lizza per l&#39;Oscar

Casey Stoner non torner&agrave; mai a correre. &Egrave; un&rsquo;idea che piace ancora a molti dei tifosi dell&rsquo;ex campione australiano, ma che non si verificher&agrave;.  La conferma arriva da una fonte autorevole, Shuhei Nakamoto.  Secondo quanto pubblicato dal sito MCN, il Vice Presidente della Honda Racing Corporation (HRC) ha chiesto esplicitamente a Casey Stoner se avesse intenzione di tornare a correre, subito dopo l&rsquo;ultimo test, a Motegi (leggi QUI).  &ldquo;Alla fine delle prove ho chiesto a Casey se voleva tornare alle corse - racconta Nakamoto - ma lui mi ha risposto immediatamente e senza esitazioni di no. Per&ograve; gli avrebbe fatto piacere fare ancora dei test, perch&eacute; questo gli piace molto. Si &egrave; stupito di essere stato cos&igrave; veloce, perch&eacute; prima de test a Motegi non saliva su una moto da un anno&rdquo;.&nbsp;  Stoner ha lasciato le corse alla fine del 2012, dopo aver vinto l&rsquo;anno prima il suo secondo titolo MotoGP proprio con la Honda. Stoner era diventato campione per la prima volta nel 2007, con la Ducati. Dopo il ritiro &egrave; tornato a casa sua, in Australia, ma ha effettuato diversi test con la Honda.  Nakamoto &egrave; andato oltre: &ldquo;Gli ho chiesto di tornare a tempo pieno, perch&eacute; non ha senso fare una wild card. Ma non ha voluto. Molti aspettano che Casey torni, ma non accadr&agrave; e non ha senso discutere ulteriormente&rdquo;.

Nakamoto vice presidente Honda HRC gli ha chiesto esplicitamente di tornare. Casey ha detto no

Stoner: Tornare? No grazie

Individuare eventuali nuove soluzioni che permettano di incrementare la sicurezza della pista di Monza per le competizioni motociclistiche, nella prospettiva di un possibile ritorno dell&rsquo;Autodromo Nazionale Monza nel calendario 2015 WSBK e di altri campionat:&nbsp; era questo il motivo dell'incontro che si &egrave; tenuto&nbsp; presso l&rsquo;Autodromo di Monza tra i responsabili del circuito, Igor Eskinja e Frank Vayssi&eacute; (FIM WSBK Safety Officers &amp; Inspectors) e Gregorio Lavilla (Dorna WSBK Sporting Director).  Dopo un approfondito sopralluogo, i rappresentanti FIM e Dorna hanno individuato alcuni punti in cui l&rsquo;ampiezza delle vie di fuga dovrebbe essere adeguata alle velocit&agrave; attualmente raggiunte dalle moto che competono nei Campionati Mondiali Superbike e Supersport; la SIAS (&lsquo;Societ&agrave; Incremento Automobilismo e Sport&rsquo;, la societ&agrave; che gestisce il  circuito) valuter&agrave; quali interventi siano necessari, fermo restando che la loro effettuazione dovr&agrave; essere sottoposta all&rsquo;approvazione della FIA, che ne valuter&agrave; la compatibilit&agrave; con le esigenze del Gran Premio d&rsquo;Italia di Formula 1.

Rappresentanti FIM e Dorma in pista per un sopralluogo 

La SBK torner&agrave; a Monza?

Mercoled&igrave; 27 novembre scorso, presso gli uffici Dorna in Barcellona, si &egrave; tenuto un incontro tra il management WSBK, nella persona di Javier Alonso - Executive Director del Campionato - e quello di SIAS, (Societ&agrave; incremento automobilismo e sport), che gestisce l&rsquo;Autodromo Nazionale di Monza, rappresentato dall&rsquo;incaricato Federico Bendinelli.  Vista la forte determinazione di SIAS a mantenere l&rsquo;evento presso l&rsquo;Autodromo di Monza, l&rsquo;accordo raggiunto tra le parti &egrave; quello di pianificare un&rsquo;ispezione del circuito entro la fine dell&rsquo;anno in corso, per effettuare uno studio sulle eventuali modifiche necessarie al conseguimento del rinnovo dell&rsquo;omologazione della pista da parte della FIM (F&eacute;d&eacute;ration Internationale de Motocyclisme).  L&rsquo;intento &egrave; di far rientrare nel calendario Superbike, gi&agrave; dal 2015, il circuito brianzolo, il pi&ugrave; antico d&rsquo;Italia, che vanta una lunga storia nel Mondiale delle derivate dalla serie.  Monza, &ldquo;il Tempio della velocit&agrave;&rdquo;, con i suoi 91 anni d&rsquo;et&agrave;, &egrave; il terzo circuito permanente pi&ugrave; antico al mondo, e ha ospitato il Mondiale SBK per 22 edizioni, con 43 gare disputate dal 1990 al 2013, mancando l&rsquo;appuntamento solo nel &lsquo;91 e nel &lsquo;94.

22 risultati per 'ritorno'

Ritorno al Futuro, 1990: il team Roberts e la legge dello zero

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Ritorno al Futuro, Louis Rossi: “Non sono Vale, ma vinco”

Ritorno al Futuro, 2000: Rossi e il mondo ai suoi piedi

Ritorno al Futuro, 1990: Raymond Roche, niente fumo, tutto arrosto

Ritorno al Futuro, 2010: De Angelis, il dolore e l'orgoglio

Ritorno al Futuro, 2010: Rossi e il passaggio di consegne

Ritorno al Futuro, 2010: Marc Marquez, il principe dell'impossibile

Ritorno al Futuro, 2010: Simoncelli, il rookie più amato

Ritorno al Futuro, 2010: Jorge Lorenzo, il pioniere

Ritorno al Futuro, 2000: Marco Melandri, l'enfant prodige

Ritorno al Futuro, 2000: Edwards al posto giusto

L'editoriale del Direttore: è sempre Spagna-Italia

Martedì Sprint: Iannone, SBK e Ritorno al futuro

Ritorno al futuro: le emozioni del 1980, 1990, 2000 e 2010 su Motosprint

'Ritorno dell'anno', Valentino Rossi in lizza per l'Oscar

Stoner: Tornare? No grazie

La SBK tornerà a Monza?

Monza vuole tornare in Superbike