        La vita di Phaedra &ldquo;Lulu&rdquo; Theffo &egrave; scandita da due tempi: uno in cui sale in moto per gareggiare e un secondo in cui attende di farlo. Due tempi, come i motori che la quarantacinquenne di origine francese residente a Sarnico (Bergamo) predilige, come certifica la sua partecipazione agli ultimi tre campionati 2T Italian GP con la Honda del BBM Racing, impreziosita dal terzo posto nel 2022 in 125 GP grazie a tre podi. &rdquo;Il mio innamoramento per le due tempi non si pu&ograve; spiegare, &egrave; qualcosa di viscerale &ndash; racconta &ndash; le adoro perch&eacute; la guida deve essere precisa, devi avere il gas in mano, non mollare, sono moto un po&rsquo; &lsquo;stronze&rsquo;, vanno pi&ugrave; forte nelle curve e poi c&rsquo;&egrave; quel rumore inconfondibile. Le quattro tempi non mi danno le stesse emozioni, tranne la Ducati MotoGP di Loris Capirossi che guidai nel 2006 per qualche giro&rdquo;. Andrea Riva, campione "per caso" | Storie Italiane La storia di Phaedra Theffo  Come sei riuscita a fartela prestare? &ldquo;Nel 2005 e 2006 lavorai come addetta stampa per il Team Pramac D&rsquo;Antin, il primo anno con Roberto Rolfo, il seguente con Jos&eacute; Cardoso e Alex Hofmann. Avevo conosciuto un po&rsquo; tutti nell&rsquo;ambiente nel 1998 e 1999, quando andavo alle gare del Mondiale. Furono gli anni in cui debuttai in sella&rdquo;. Chi ti ha trasmesso la passione? &ldquo;Sono nata a Gisors, in Francia, ma a otto anni mi trasferii in Belgio, dove non c&rsquo;&egrave; cultura motociclistica, almeno in pista. Per&ograve; nella nostra via c&rsquo;era un ragazzo che andava alle gare e mi aggregai, come tuttofare. Ero in ammirazione. Poi, vedendo le gare dell&rsquo;Europeo, scrissi persino articoli per Motosprint. Mai avrei pensato di correre, fino al trasferimento in Italia, nel 1997&rdquo;. E l&igrave; cosa &egrave; accaduto? &ldquo;Giacomo Guidotti, oggi capotecnico di Luca Marini, mi promise che mi avrebbe fatto girare nelle pause del Trofeo Challenge, ma dovevo saper cambiare le marce. Fino ad allora avevo provato soltanto scooter, cos&igrave; andai con un amico al parco di Monza per guidare un cinquantino Aprilia con le marce. Nel 1999 feci i primi turni in pista con una 125 e l&rsquo;anno successivo iniziai a correre&rdquo;. Ricordi la tua prima gara? &ldquo;Alla primissima non mi qualificai, cos&igrave; la prima fu a Misano. Mi fecero salire sul podio perch&eacute; ero l&rsquo;unica donna, ma avevo fatto pena&rdquo;. Nel 2005 il passaggio alle GP. &ldquo;Merito di Roberto Bava, tecnico di grande esperienza, che mi mise a disposizione una Honda 125 GP per correre a Vallelunga nel trofeo omonimo. L&rsquo;avevo conosciuto nel 1997, quando andavo a vedere l&rsquo;Europeo, un amico carissimo&rdquo;. Com&rsquo;erano invece i rapporti con i piloti? &ldquo;Nei primi tempi il mondo delle corse non era tanto bello, serviva attenzione, ma non ai piloti, quanto ad alcuni addetti ai lavori&hellip; Adesso la gente &egrave; pi&ugrave; rispettosa&rdquo;.  Phaedra Theffo e l'amore per le moto  Raccontaci la tua vittoria. &ldquo;Luglio 2018, Franciacorta, nella 125 SP del MotoEstate. Il giorno pi&ugrave; bello della mia vita, non tanto per il successo, dato che non eravamo in tanti e non c&rsquo;era quel livello provato altre volte. Ma &egrave; stata la mia prima gara dopo un lungo periodo sulle Minimoto, a cui mi ero dedicata dal 2007 al 2018: quel successo &egrave; merito di Martino, che mi ha risistemato la moto e mi segue ancora oggi. Senza di lui non avrei pi&ugrave; corso con le ruote alte, gli devo tutto. Per&ograve; se devo scegliere una performance, ne indico altre&rdquo;. Quali? &ldquo;Europeo 125 del 2006 a Vallelunga: ottenni un&rsquo;insperata qualificazione. E poi le ultime due gare del 2023, a Magione e Misano, concluse al quarto e al sesto posto. Ho girato con un buon passo e questo mi ha fatto felice, anche se io non lo sono quasi mai&rdquo;. Peraltro hai corso queste due gare a poche settimane da un delicato intervento chirurgico. &ldquo;A marzo 2023 ho sentito un nodulo sotto l&rsquo;ascella, all&rsquo;altezza del seno sinistro. Ho effettuato l&rsquo;ecografia a Bergamo, era un carcinoma maligno. L&rsquo;intervento &egrave; stato effettuato il 7 giugno dalla dottoressa Mauri, dimostratasi particolarmente competente e gentile&rdquo;. Hai voluto renderlo pubblico non certo per protagonismo. &ldquo;Ho raccontato la vicenda perch&eacute; voglio incentivare le donne a farsi visitare. Alcune aspettano le lettere per i controlli, altre li rimandano. Ma il mio caso dimostra che &egrave; meglio fare gli esami perch&eacute; se becchi in tempo un tumore fai in tempo a uscirne bene&rdquo;. Ora come stai? &ldquo;Devo soltanto sistemare il braccio con la cicatrice e fare i controlli come tutti. Non voglio essere compatita, perch&eacute; mi sento benissimo. Mi alleno tanto, con sedute di sparring dopo le ore in ufficio. Il pugilato &egrave; la cosa migliore perch&eacute; non metti su massa, allena la resistenza e i riflessi&rdquo;. Infortuni in moto, invece? &ldquo;Pur facendo un miliardo di cadute sono stata fortunata. Con le Minimoto mi sono rotta il polso destro e procurata una distorsione, in moto soltanto la clavicola nel 2021&rdquo;. Mai pensato di ritirarti dopo quell&rsquo;incidente? &ldquo;&Egrave; l&igrave; che capisci quanto grande &egrave; la passione: era come se si fosse fermato il mondo, l&rsquo;unica cosa che contava era il momento di tornare in moto&rdquo;. L&rsquo;et&agrave; per&ograve; avanza. &ldquo;Finch&eacute; ci sono le due tempi correr&ograve;, poi valuter&ograve;. Ho un sacco di amici sessantenni che corrono. Io sar&ograve; sempre in forma, non smetter&ograve; mai, magari avr&ograve; pochi soldi e far&ograve; meno gare. Ma non mi accontento soltanto dei turni di prove libere, cos&igrave; come non mi piace usare la moto in strada: io non sono un motociclista, sono un pilota. Posso arrivare prima, a met&agrave; classifica, ultima: non mi interessa. Mi interessa soltanto correre&rdquo;. La straordinaria avventura di Alex Belometti | Storie Italiane       

"Le gare sono la mia vita: io non mi sento motociclista, ma pilota. E dire che ho cominciato per caso..."

L'indistruttibile Phaedra Theffo | Storie Italiane

        Sessantotto anni il prossimo 7 giugno e non sentirli. Franco Mayr &egrave; un arzillo milanese trapiantato a Piacenza con un aggettivo cucito addosso alla&nbsp; perfezione: pragmatico. Del resto, il team manager che da 40 anni &egrave; impegnato nell&rsquo;Enduro &egrave; un tipo che preferisce i fatti alle parole. I suoi numeri parlano da soli: 26 Mondiali vinti con Chicco Muraglia, Giorgio Grasso, Gianmarco Rossi, Stefan Merriman, con l&rsquo;indimenticato Mika Ahola (cinque allori), con Jeremy Joly, Alex Salvini, Ruy Barbosa, Harry Edmondson, Jane Daniels e Jed Etchells. La straordinaria avventura di Alex Belometti | Storie Italiane Storie Italiane: Franco Mayr  Aggiungiamo otto&nbsp;vittorie alla Sei Giorni, nove titoli europei, e ben 65&nbsp;allori italiani, senza dimenticare che da oltre dieci anni &egrave; nella Top 3 del Mondiale. Un percorso ricco di gloria nato nel 1984 dalla passione e&nbsp;dalla conoscenza del mondo dell&rsquo;Enduro di Mayr. Dopo i primi riscontri positivi nei campionati italiani, nel 1987 decise di partecipare all&rsquo;Europeo (elevato a Mondiale nel 1990). Di tempo ne &egrave; passato da quell&rsquo;84 in cui la squadra Jolly schierava Muraglia, Grasso, Edi Orioli, Fabio Fasola e Maurizio Cecconi, inizio di un percorso vissuto con&nbsp;cinque differenti marche. E con piloti, oltre a quelli citati, come Pellegrinelli, Trolli, Scovolo, Croci, Passeri, Albergoni,&nbsp;Zanni,&nbsp;Mossini, Botturi, Balletti, Battig, Redondi, McCanney e Charlier. Dopo le partnership con Kawasaki, Yamaha e Honda,&nbsp;&egrave; arrivata quella (ancora presente) con l&rsquo;Husqvarna, a cui per tre anni si &egrave; affiancato il rapporto con la Fantic. Da due anni Mayr &egrave; coadiuvato da due soci nella gestione del team: Luca Castellana e Matthew Savi. Per il 2024 &egrave; stata rafforzata la collaborazione con Husqvarna Motorcycles Italia per un team satellite con tre piloti: Matteo Pavoni (sulla FE 350&nbsp;4T in E2), Morgan Lesiardo (sulla TE 300 2T nella E3) e Luca Colorio (con la TC 125 nella Youth).&nbsp; Franco, come ti sei appassionato&nbsp;alle gare di Regolarit&agrave;, che ti videro protagonista anche da pilota dal&nbsp;1973&nbsp;al 1985, disputando anche due Sei Giorni? &ldquo;Tutto &egrave; nato grazie a mio padre Enrico, appassionato di moto, e poi ho vissuto l&rsquo;infanzia nell&rsquo;alta Val Seriana dove l&rsquo;Enduro &egrave; di casa".  Nel 1984 arriv&ograve; la creazione della squadra Jolly Totip: lasciasti l&rsquo;attivit&agrave; di famiglia nel settore alimentare.  "La passione per l&rsquo;Enduro mi ispir&ograve; a creare un team con Muraglia e Grasso, grazie anche al sostegno di mia moglie Daniela e mio fratello Carlo. A dare il via al progetto fu per&ograve; Roberto Angiolini, boss del Jolly Club Auto, plurivittorioso nei grandi Rally&rdquo;. Dal 1984 al 1990 sponsorizzasti diversi piloti sebbene corressero con marche differenti: fu una gestione complicata? &ldquo;Angiolini not&ograve; come&nbsp;molti team fossero &lsquo;scoordinati&rsquo;. Abbigliamenti e colori differenti, Case e importatori&nbsp;a cui sembrava non interessare un&rsquo;immagine identificativa. Quindi tutto si concretizz&ograve; senza difficolt&agrave; perch&eacute; il marchio Totip era un plusvalore come immagine per chi lo aveva sul proprio abbigliamento e sulla moto&rdquo;. Dal 1991 il Team Jolly si &egrave;&nbsp;evoluto. &ldquo;Le&nbsp;varie marche con cui collaborai in passato erano rappresentate da&nbsp;importatori e distributori. Nel 1990 compresi che&nbsp;queste marche si stavano organizzando per avere team esterni identificati anche come immagine e che per continuare con Totip bisognava&nbsp;legarsi a un solo marchio. Dopo alcuni incontri, nel 1991 scelsi di&nbsp;rappresentare Kawasaki-KL gestendo anche l&rsquo;aspetto tecnico. Con loro vincemmo tre Mondiali: uno con Muraglia e due con Grasso. La Kawasaki nel 1994 si ferm&ograve; per&nbsp;motivi di omologazioni&rdquo;.  &nbsp; Franco Mayr, 40 anni di successi  E arriv&ograve; la Yamaha. &ldquo;Ma dopo un biennio con Belgarda, perdendo un Mondiale ormai vinto con Grasso a causa di un infortunio, nel 1996 anche la Yamaha si ritir&ograve; dall&rsquo;Enduro. Conoscendo l&rsquo;ingegner Antonio Rovelli e Alfredo Ciresa di Honda-HM avviammo una collaborazione, vincendo ben sette Mondiali. Un percorso che prosegu&igrave; anche con il supporto della Dallara di Bergamo, e la gestione della societ&agrave; di Alessandro Tramelli. Io nel frattempo sono stato impegnato quasi due anni in Cile per lavoro&raquo;.  Nel 2016 hai ripreso la gestione della squadra.  "Dal 2017 Husqvarna Motorcycles Italia mi ha dato fiducia con una collaborazione che continua tutt&rsquo;ora. Dal 2021 al 2023 il Team Jolly ha coabitato con una nostra formazione Fantic vincendo quattro Mondiali&rdquo;. C&rsquo;&egrave; stato anche il 2018 in cui hai perso un Mondiale ormai vinto&nbsp;nella E2 con Salvini a causa tre colpi di sfortuna. &ldquo;Ho&nbsp;imparato che la sfortuna, i casi fortuiti, il destino sono parte della vita.&nbsp;Quello che mi rammarica &egrave; che nel 2018 si sono sommate differenti situazioni negative. Salvini ha disputato una stagione straordinaria non soltanto come pilota ma come principale avversario di Steve Holcombe&rdquo;. Tra tutti i tuoi piloti del Team Jolly, chi ti ha fatto vivere le maggiori soddisfazioni? &ldquo;Ahola &egrave; stato immenso: grande persona, pilota eccezionale, in sei stagioni fu una volta secondo per poi vincere consecutivamente cinque Mondiali nelle tre classi. Merriman, un grande&nbsp;professionista. Tra chi avrebbe potuto raccogliere di pi&ugrave;, pur firmando buoni risultati, cito Albergoni, Balletti, Mossini, Salvini. Ma abbiamo avuto soddisfazioni da tutti i nostri piloti&rdquo;. Di recente sei stato vicino anche all&rsquo;ingaggio di Steve&nbsp;Holcombe: avresti allargato la tua galleria di grandi piloti. &ldquo;Verissimo. Abbiamo sempre apprezzato Holcombe: siamo stati onorati del fatto che abbia dialogato con noi esprimendo la disponibilit&agrave; a far parte della squadra. Ci siamo mossi ma, non trovando gli appoggi economici necessari, abbiamo desistito. Perch&eacute; non saremmo spaventati dalla gestione di piloti del calibro di Holcombe, ma questi meritano attenzioni particolari, con supporti tecnici ed economici adeguati&rdquo;. Guerrino Zanardo, il "nonno" della Sei Giorni | Storie Italiane       

"Merito di piloti straordinari come Ahola, Merriman e Grasso, ma anche di una visione imprenditoriale da precursore. E quegli inizi con Totip&hellip;"

Franco Mayr, 26 Mondiali in 40 anni nell'Enduro | Storie Italiane

"La mia attivit&agrave; imprenditoriale non mi ha impedito di coltivare la passione per il Fuoristrada, nata grazie alla Parigi-Dakar"

Guerrino Zanardo, il "nonno" della Sei Giorni | Storie Italiane

        La verit&agrave;, Mick Doohan si era abituato a non dirla. In particolare agli ingegneri, quando la sua Honda funzionava come uno Stradivari. A orientarlo in questa direzione era il rischio che il reparto corse giapponese abbassasse la guardia sul fronte dello sviluppo. Il ritornello con i tecnici era sempre: fare di pi&ugrave;, essere ancora pi&ugrave; virtuosi. Tanto che nel 1999, il suo ultimo anno in sella, l&rsquo;australiano aveva convinto l&rsquo;HRC a fornirgli una moto particolare. Oltre alle due NSR 500 ufficiali, come da prassi, nel suo box c&rsquo;era una terza versione nata come esperimento per sistemare il punto debole delle mezzo litro che pure gli avevano portato 54 vittorie nella classe regina, tradotte in cinque Mondiali consecutivi. Passa alla prossima pagina Johnny Cecotto, bello e dannato | Storie Sprint &nbsp; Storie Sprint: Mick Doohan  Da sempre, la due tempi nipponica a centro curva non girava, e per Doohan era un problema: cos&igrave; il marchio del Sol Levante aveva elaborato un telaio molto simile a quello della Yamaha, il riferimento in quel dettaglio. Che la moto &ldquo;laboratorio&rdquo; fosse stata realizzata soltanto per assecondare le richieste dell&rsquo;australiano divenne chiaro dal terzo GP della stagione, quando il campione in carica incapp&ograve; a Jerez nella caduta che lo spinse al ritiro: da quel momento, la terza moto non si vide pi&ugrave;. Neppure l&rsquo;australiano sa che fine abbia fatto. Doohan definisce questo episodio come lo specchio dell&rsquo;attenzione che dedicava all&rsquo;arte di motivare gli uomini HRC, con cui il rapporto era iniziato una decina d&rsquo;anni prima, nel 1989, quando aveva 23 anni. Per lui, l&rsquo;esordio era stato con un pacchetto tecnico lontano dai migliori: nella prima stagione aveva chiuso a meno di 30 secondi dalla vetta soltanto tre volte. Nell&rsquo;anno successivo firm&ograve; la prima pole alla terza gara e vinse alla penultima, in Ungheria. Poi la conferma, con il titolo del 1991 perso per nove punti e l&rsquo;annata successiva iniziata alla grande: cinque successi e due podi nei primi sette appuntamenti, prima dell&rsquo;infortunio che rischi&ograve; di diventare la tomba della sua carriera. Una gamba quasi amputata, quattro GP saltati e il titolo sfumato per quattro punti. I rivali erano Wayne Rainey e Kevin Schwantz, nemmeno loro capaci di sfuggire a barelle e infermerie in un periodo in cui il ritiro non era una scelta propria, ma la conseguenza dei problemi fisici. Dal suo infortunio peggiore Doohan riemerse come un tornado e dal 1994 spazz&ograve; via una concorrenza rimasta orfana prima di Rainey e poi di Schwantz. Tre anni pi&ugrave; tardi firm&ograve; il dominio pi&ugrave; schiacciante: vinse 12 gare su 15, con l&rsquo;unico zero nell&rsquo;ultimo round, a ennesima prova della sua determinazione e testardaggine. A una decina di giri dalla bandiera a scacchi del GP Australia, l&rsquo;ufficiale Honda guidava la corsa con un margine immenso, eppure continu&ograve; a spingere come un dannato siglando il giro veloce. Ma poi perse l&rsquo;anteriore della sua NSR, provando comunque a tenerla su. Per lui quello di Phillip Island era un circuito stregato: ci ha vinto una sola volta, l&rsquo;anno dopo, a poche gare da un ritiro non programmato, a causa del volo a 180 all&rsquo;ora a Jerez. Numerose fratture, tanto bast&ograve; per alzare bandiera bianca dopo aver dominato un&rsquo;era. Un koala come mascotte, lo stile di guida avvitato in sella, sui fianchi delle Honda le livree Rothmans prima e Repsol poi. Fumo e lubrificante, tabacco e carburante, per un pilota con il fuoco dentro. Ma quando le cose andavano lisce come l&rsquo;olio, non lo ammetteva mai. Soprattutto agli ingegneri. Il GP della tua pole numero uno, Jerez 1990: caduto in prova, ti si incastr&ograve; una gamba nella parte posteriore della moto, tanto che i commissari impiegarono parecchio per liberarti. In gara scattasti male, recuperasti firmando il giro veloce, finendo per&ograve; fuori dal podio, quarto.  &ldquo;Stavo ancora cercando di capire le 500: prototipi molto leggeri, attorno ai 115 chili di peso, con telai rigidi, completamente diversi da quelli che avevo utilizzato fino a quel punto. Avevo esordito nel Motomondiale l&rsquo;anno precedente, mentre nel 1988 avevo corso con una Superbike e nella stagione prima con una Yamaha 250 derivata di serie che avr&agrave; avuto meno del 30% della potenza delle mezzo litro. Il salto fu decisamente grande: mi dovevo adattare, e se fare un giro veloce era una cosa, avere la fiducia necessaria per andare al massimo in tutta la gara era differente&rdquo;.  Nel 1989 avevi esordito come pilota Honda: il tuo materiale era come quello dei piloti di punta, Eddie Lawson e Wayne Gardner?  &ldquo;Non direi. Se non sbaglio il mio telaio era sette versioni pi&ugrave; indietro del loro- Poi c&rsquo;era la questione pneumatici: certi ufficiali ricevevano le gomme migliori, noi prendevamo il resto. La differenza sul giro, in qualifica, poteva essere di un secondo. C&rsquo;era praticamente una gara nella gara, decisa da questi aspetti&rdquo;.  Era una situazione difficile da accettare?  &ldquo;Diciamo che ci ho dovuto fare i conti. Poi arriv&ograve; la Suzuki, che mi fece un&rsquo;offerta per il 1991: mi voleva accanto a Schwantz. Restai in Honda perch&eacute; ebbi la garanzia di ottenere lo stesso materiale degli altri ufficiali. Nel team non ci sarebbe stato pi&ugrave; un numero uno, le novit&agrave; tecniche sarebbero state distribuite in modo equo&rdquo;.  A proposito di Schwantz: delle cinque volate per il primo posto che vi hanno coinvolti, ne hai vinta una e perse quattro.  &ldquo;Kevin era un pilota sensazionale, faceva cose straordinarie. Uno dei pi&ugrave; talentuosi contro cui abbia corso. La sua filosofia era rischiare tutto, vincere o cadere, mentre io ero anche disposto ad accettare un secondo posto, o il miglior risultato possibile, perch&eacute; pensavo che una stagione andasse affrontata cos&igrave;. Kevin era veloce, probabilmente il pi&ugrave; coraggioso di tutti noi. Quando gli andava bene trionfava e festeggiava. Quando andava male, finiva con un ruzzolone. Ed &egrave; accaduto spesso&rdquo;.  Passa alla prossima pagina &nbsp; Mick Doohan: intervista esclusiva  Il primo successo arriv&ograve; in Ungheria, su un tracciato pieno di buche e in condizioni critiche, tanto da sollevare le proteste dei piloti perch&eacute; non sicuro: ci voleva del pelo?  &ldquo;In quel caso, penso che quello che descrivi come coraggio fosse il frutto di una fiducia costruita in anni di corse. A ci&ograve; faceva da contraltare la paura, quell&rsquo;ingrediente che a volte ti fa esitare abbastanza da farti evitare un viaggio in ambulanza. L&rsquo;importante era conoscere il limite. Altrimenti sarebbe stato pericoloso: per s&eacute; e per gli altri&rdquo;.  Parlando di incidenti, nel 1993 a Donington generasti la carambola coinvolgendo la coppia Suzuki: tamponasti Alex Barros, finendo poi addosso a Schwantz.  &ldquo;Avevo visto un varco in frenata, ma poi Alex chiuse lo spazio e ci fu il patatrac. Lo tamponai e, cadendo, andai addosso a Schwantz. Un casino: le moto che strisciavano a terra, sembrava di essere al bowling. Per fortuna c&rsquo;era una via di fuga abbastanza ampia davanti a noi. La responsabilit&agrave; fu mia: stavo tentando di approfittare di una situazione e improvvisamente il varco in cui volevo infilarmi non c&rsquo;era pi&ugrave;&rdquo;.  Un salto in avanti fino al 1998: a due minuti dalla fine delle qualifiche di Assen la sessione venne interrotta dalle bandiere rosse. Eri secondo, in prima fila, ma decidesti comunque di rientrare e spingere, chiudendo per un soffio il giro di lancio e poi stampando la pole. Nonostante quattro Mondiali gi&agrave; vinti non lasciavi agli altri nemmeno le Briciole.  &ldquo;Pi&ugrave; vinci, pi&ugrave; vuoi vincere, e pi&ugrave; senti che dovresti vincere. &Egrave; un appetito che viene mangiando. Ero abituato a essere in pole e quando non succedeva ero deluso. In quella specifica occasione, correvamo su una pista in cui i piloti equipaggiati con le Dunlop avevano un vantaggio, mentre io ero con le Michelin, pi&ugrave; costanti da un circuito all&rsquo;altro ma a volte non al livello della concorrenza. Volevo demoralizzare gli avversari, ecco il motivo. Era un gioco mentale&rdquo;.  Cinque titoli vinti e due sfiorati: eri in sella alla moto migliore?  &ldquo;Da pilota non ti senti mai al 100%, pensi che esista sempre del margine per migliorare. In alcune occasioni la mia Honda si comportava in maniera fantastica, ma quando succedeva non lo dicevo agli ingegneri. C&rsquo;era il rischio che si rilassassero. Ecco perch&eacute; nel 1999 nel mio box c&rsquo;era una moto con un telaio copia di quello Yamaha. Ero stato io a spingere per averlo. Appena mi sono ritirato, &egrave; sparito&rdquo;.  Qual era il tallone d&rsquo;Achille delle NSR? &ldquo;Avevano una gran velocit&agrave; di punta, ma non voltavano: era nel loro DNA. Yamaha e Suzuki in inserimento erano pi&ugrave; facili, e a centro curva per noi non c&rsquo;era modo di cambiare la traiettoria impostata, mentre loro riuscivano a chiudere meglio. Noi, per farlo, dovevamo rallentare troppo. Il telaio &egrave; stato il punto debole delle NSR nell&rsquo;arco di tutta la mia carriera, l&rsquo;aspetto a cui ho dedicato pi&ugrave; impegno. Per fortuna, di margine per lavorare ce n&rsquo;era parecchio: non c&rsquo;erano le limitazioni ai test e allo sviluppo come succede oggi in MotoGP. Arrivava sempre qualcosa di nuovo&rdquo;.  Passa alla prossima pagina &nbsp; Mick Doohan il motivatore  Di preciso, su quel fronte qual era il tuo ruolo?  &ldquo;Da pilota, ero la componente organica che l&rsquo;ingegnere non poteva costruire o analizzare. Il tassello che poteva fare la differenza, perch&eacute; riportavo il mio feedback, le sensazioni. In questo senso, le abilit&agrave; risiedono anche nel modo di comunicare: come parli, quali gesti usi e via dicendo. In sostanza, devi farti capire. E non &egrave; cos&igrave; scontato, perch&eacute; hai davanti persone che parlano diverse lingue, dall&rsquo;italiano al francese, e vengono da culture a volte distanti, come quella australiana oppure europea, con approcci e modi di lavorare diversi che devono trovare una sintesi e funzionare&rdquo;.  Chi teneva le redini di tutta la faccenda?  &ldquo;Ero io il leader del box. Come penso fosse Michael Schumacher in Ferrari. Quando resti al top a lungo, com&rsquo;&egrave; successo a me, impari ad affrontare tutti gli aspetti: non sei un atleta che la domenica viene estratto da una scatola e messo su una moto per performare e basta, ti confronti con un ricco contorno. Relazioni con amministratori delegati, rappresentanti di aziende, sponsor, politici. Ci devi navigare, in mezzo a tutta quella roba, e il modo in cui lo fai pu&ograve; essere decisivo. E poi c&rsquo;&egrave; un team che lavora per te. Devi saperlo motivare e tenere unito&rdquo;.  Come si fa?  &ldquo;Con un comportamento da professionista: disciplina, puntualit&agrave;, etica lavorativa, determinazione. Il fatto &egrave; che io odiavo perdere. Lo detestavo proprio. Se vincevo lavoravo duro, e se non ce la facevo, lavoravo ancora di pi&ugrave;. Dopo un successo non ho mai pensato di rilassarmi, n&eacute; fisicamente, n&eacute; mentalmente. Dicevo al team: &egrave; stata una grande gara, ma ecco quali aspetti possiamo migliorare&rdquo;.  Passa alla prossima pagina &nbsp; Mick Doohan e l'ossessione per la vittoria  &nbsp;Eri ossessionato?  &ldquo;Se ero impegnato nel mio mestiere, s&igrave;. Ma riuscivo a dividere il lavoro dalla vita privata. Penso ai pugili: quando sono sul ring, si trasformano&rdquo;. Esiste un segreto, per vincere?  &ldquo;A volte la differenza tra finire primo o secondo &egrave; piccolissima e dipende da quanto lavori sodo. Se mi chiedi chi era il pi&ugrave; forte fra me, Kevin, Wayne o altri, non penso fossimo cos&igrave; diversi nelle capacit&agrave; di guida. A essere decisivo era l&rsquo;aspetto mentale, relativamente sia a una gara che a un&rsquo;intera stagione. Correre &egrave; tutta questione di testa. Perch&eacute; devi gestire una marea di cose: la pressione, la posizione in cui ti trovi, la concentrazione e poi le distrazioni. Vince chi gioca meglio le sue carte. Magari sei in testa con cinque secondi di vantaggio e cadi. Se succede, &egrave; perch&eacute; hai avuto un calo di concentrazione&rdquo;.  Hai citato tante virt&ugrave;: ce le avevi dentro o le hai dovute acquisire?  &ldquo;Ci ho lavorato, non &egrave; successo in uno schiocco di dita. &Egrave; molto raro imparare qualcosa senza commettere errori. Da pilota, cerchi di ridurli al minimo e prepararti al massimo per prevenirli, ma sai che prima o poi qualcosa succeder&agrave;. Purtroppo, a differenza di altri sport, nelle moto il conto pu&ograve; essere salato. Perch&eacute; ci si fa male&rdquo;. Sito Pons: "Ho fatto scoprire la 250 alla Spagna" | Storie Sprint       

L'australiano: "Motivare il proprio gruppo di lavoro &egrave; un&rsquo;arte: quando dominavo, chiedevo alla Honda sempre qualcosa in pi&ugrave;. Come Schumi in Ferrari"

Mick Doohan: "Ero esigente con tutti. Odiavo perdere" | Storie Sprint

        Questa &egrave; una storia che nasce da un passaggio dato in auto, e vede come protagonista un ex pilota che, per caso, si ritrova nuovamente in gara. No, non &egrave; l&rsquo;inizio di una puntata di &ldquo;Blu Notte&rdquo; di Carlo Lucarelli, ma si tratta di una storia sportiva e a lieto fine. Un&rsquo;avventura che ha quel sapore tipico degli anni &rsquo;70 e &rsquo;80, quando anche alcuni tra i migliori piloti erano costretti a lavorare per mantenersi, e che vede come protagonista Andrea Riva, ventiseienne di Sotto al Monte, una piccola cittadina della Bergamasca. Mancano pochi giorni alla prova del campionato italiano Indoor di San Severino Marche e Luca Petrella, pilota ufficiale GASGAS, ha un problema tecnico al furgone, per questo chiede aiuto a Riva. Il quale, da pochi mesi, ha appeso il casco al chiodo ma, vista l&rsquo;occasione, decide di correre in quella particolare gara aiutato da Riccardo Cattaneo, seguidores di Petrella. Il resto, lo racconta lo stesso Andrea. La straordinaria avventura di Alex Belometti | Storie Italiane La storia di Andrea Riva  Ma chi &egrave; Andrea Riva e com&rsquo;&egrave; nata la passione per il Trial?  &ldquo;&Egrave; stato mio padre Doriano a trasmettermela: &egrave; sempre stato un appassionato di moto, in particolare Fuoristrada, e ha corso sia nell&rsquo;Enduro che nel Trial&rdquo;.  Quando hai iniziato ad andare in moto?  &ldquo;Cominciai per gioco a cinque anni con una Minicross, a otto vidi un&rsquo;esibizione di bicitrial, nel quartiere Citt&agrave; Alta di Bergamo. Mio padre cap&igrave; che mi era piaciuta, e allora mi compr&ograve; una biketrial usata. Era una bici &lsquo;scassata&rsquo; con la quale mossi i primi passi ma poi, vedendo che mi stavo appassionando, i miei genitori mi regalarono un modello pi&ugrave; bello con il quale, a dieci anni, partecipai alla mia prima gara a Gandino&rdquo;.  Come and&ograve;?  &ldquo;Confrontandomi con gli avversari, mi resi conto di avere un livello molto basso, cos&igrave; nel periodo invernale lavorai per migliorare. Avevo preso a cuore il biketrial e ricordo che, sotto casa, allestimmo un&rsquo;area Trial dove mi allenavo giorno e notte! Infatti, capitava di utilizzare i fari della macchina per illuminare l&rsquo;ostacolo da superare. Gi&agrave; allora ero curioso, testardo, preciso e continuavo a provare fino a quando non ci riuscivo. Fu cos&igrave; che nel 2008 chiusi al secondo posto nell&rsquo;Italiano e nel 2012 vinsi sia l&rsquo;Assoluta nell&rsquo;Italiano che il titolo iridato nella categoria Minime, dedicata agli Under 15&rdquo;.  Nel 2013, sempre con il Team Future Trial, passasti ai motori.  &ldquo;Iniziai ad andare sulla moto da Trial nel 2012 con una Beta 125 poi, con la mia famiglia, decidemmo di passare dalla bici alla moto. Non fu un debutto facile e nel 2014 cominciai con la TR3 125. Arrivando dalla bici, faticavo nelle zone guidate mentre in quelle Indoor non avevo particolari problemi&rdquo;.  E come superasti quel momento di difficolt&agrave;? &ldquo;Guardavo i video su Youtube e cercavo di mettere in pratica i trucchi una volta salito in moto. La mia fortuna &egrave; stata che mio padre &egrave; sempre stato molto bravo a percepire se e quando facevo i giusti movimenti affrontando gli ostacoli. Successivamente ho partecipato ai collegiali FMI ma, soprattutto nel primo periodo, ad aiutarmi sono stati i fratelli Chiappa (piloti di ottimo livello negli Anni &rsquo;80 e &rsquo;90) con Ivano che, una volta a settimana, mi seguiva in allenamento. Poi nel 2015 ho corso da privato assistito da Fabio Viscardi, debuttando in TR2, mentre nel 2016 sono passato al Team Miton&rdquo;.  Il 2016 ti ha regalato la prima grande soddisfazione.  &ldquo;Nella gara dell&rsquo;italiano Trial Indoor di Marradi ho aperto le zone e sono riuscito a chiudere la prima manche alle spalle di Adam Raga e Matteo Grattarola. Questo mi ha permesso di accedere alla finale dove mi sono classificato terzo&rdquo;.  &nbsp; Andrea Riva racconta la sua avventura  Successivamente hai corso con Sherco e TRRS.  &ldquo;Terminati gli studi, ho lavorato per una catena di negozi di articoli sportivi, poi per&ograve; con la mia famiglia abbiamo visto che non riuscivo ad allenarmi. Per questo i fratelli Chiappa mi hanno offerto di lavorare nel loro panificio&rdquo;.  La vera svolta &egrave; arrivata quando sei passato in GASGAS. &ldquo;S&igrave;, oltre a correre ho iniziato a lavorare in GG Italia e oggi seguo il customer service e, da qualche tempo, sono anche il referente sia in gara che negli eventi. Infine, con la FMI, collaboro nel progetto dei Talenti Azzurri, con i corsi e i raduni collegiali&rdquo;.  Un impegno notevole che, in vista del 2023, ti aveva spinto a chiudere con le gare.  &ldquo;Nel 2023 dovevo correre con la GASGAS ma ho rifiutato perch&eacute; volevo tornare a studiare all&rsquo;universit&agrave;. Poi mi hanno proposto un cambio di mansione e dall&rsquo;officina sono passato al customer service e questo mi ha portato a un maggiore impegno a livello lavorativo. Quando, per&ograve;, Luca Petrella mi ha detto che aveva bisogno di un passaggio per partecipare all&rsquo;Indoor di Civitanova Marche ho chiesto ai miei colleghi del reparto marketing di preparare una moto per me. Era un mezzo del parco stampa a cui ho montato la frizione e due particolari che usavo sulla mia moto, e siamo partiti&rdquo;.  E torniamo all&rsquo;inizio della storia.  &ldquo;Ho chiuso al terzo posto e allora ho pensato di partecipare anche alle successive prove dell&rsquo;Italiano&rdquo;.  Come ti sei allenato per le tappe seguenti?  &ldquo;Posso dire che ho pi&ugrave; vissuto di &lsquo;rendita&rsquo; in questa stagione, curando maggiormente l&rsquo;aspetto psicologico. Andare alle gare con maggiore spensieratezza ha influito positivamente sul risultato finale. Ovviamente all&rsquo;ultima gara di Montecrestese, dove si decideva l&rsquo;assegnazione del titolo, la tensione era tanta, ma se ho raggiunto questa condizione &egrave; anche merito del mio attuale lavoro e dell&rsquo;essere riuscito ad aprirmi maggiormente a livello mentale. Ho avuto poco tempo per girare in moto, nel 2023 ho fatto soltanto 70 ore, e per mantenermi in forma vado a fare arrampicata in palestra e a camminare in montagna&rdquo;.  Quali sono i tuoi pregi e difetti?  &ldquo;A volte in gara divento troppo frettoloso e sbaglio, mi arrabbio con facilit&agrave; e poi ho sempre faticato a curare i rapporti con team e sponsor. Tra i pregi, direi la determinazione per raggiungere un obiettivo, il coraggio e la precisione&rdquo;.  In dieci stagioni di gare abbiamo visto al tuo fianco anche Chiara, tua sorella: quanto &egrave; importante per te avere al tuo fianco la famiglia?  &ldquo;Senza di loro nulla sarebbe stato possibile. Mio padre mi ha sempre supportato e seguito nelle mie scelte sportive. Mia mamma Ede ha sempre visto il Trial come qualcosa di positivo e anche oggi &egrave; al mio fianco nelle scelte sportive e lavorative. Mia sorella Chiara &egrave; la numero 1, mi segue sempre e ovunque, ha rinunciato al suo tempo libero per dedicarlo a me: gliene sar&ograve; sempre grato. Chiara, oltre a essere la mia prima supporter, ha sempre dato una mano facendo benzina, controllando la pressione dei pneumatici e portando lo zaino con gli attrezzi&rdquo;.  La tua famiglia &egrave; stata al tuo fianco anche nell&rsquo;ultima gara dell&rsquo;Indoor 2023.  &ldquo;Non capita spesso di giocarsi un titolo, e a Montecrestese ero comprensibilmente teso. Nelle settimane precedenti avevo vissuto due settimane di interrail in Spagna e questo mi ha aiutato a mantenere la mentalit&agrave; delle gare precedenti. Nella prima manche, per&ograve;, ho commesso un po&rsquo; di errori legati al poco allenamento, avevo i crampi alle braccia e alla fine ho sbagliato anche l&rsquo;ultima zona. Gianluca Tournour, invece, era partito molto bene ma poi ha avuto problemi alla moto: sono stato fortunato a entrare in finale. Mi spiace che Gianluca abbia avuto quel problema perch&eacute; mi sarebbe piaciuto giocarmi il titolo in finale, dove mi sono ripreso e a fine serata ho disputato lo spareggio con Luca Petrella&rdquo;.  Chi devi ringraziare per il titolo?  &ldquo;Il Dynamic Trial e in particolare Roberto Mazzola, GASGAS-KTM, e i miei amici, in particolare Salvo&rdquo;.  E dopo aver vinto il titolo in un gioved&igrave; sera di agosto, la mattina dopo Andrea &egrave; tornato al lavoro, festeggiando con quei colleghi a cui aveva chiesto una moto: tutto merito di un passaggio dato a un amico&hellip; I "Cavalieri di Motosprint": tutto pronto per i Caschi d'Oro       

"Quando il mio amico Petrella, ufficiale GASGAS, mi ha chiesto un passaggio per recarsi a una gara, ho deciso di cimentarmi. E da quel momento..."

Andrea Riva, campione "per caso" | Storie Italiane

        La disperazione in un calcio. Ultima curva del GP Belgio del 1975, la gara della 250 ormai agli sgoccioli e tre piloti aperti a ventaglio, con la vittoria in bilico. Walter Villa sull&rsquo;Aermacchi Harley-Davidson ufficiale, il compagno di squadra Michel Rougerie, e Johnny Cecotto (qui il nostro podcast) su una Yamaha. Il giorno prima, al termine delle qualifiche, uno scenario del genere sembrava impensabile per il venezuelano in sella alla bicilindrica dei tre diapason: era di diversi secondi pi&ugrave; lento dei due avversari, da quanto ricorda, e per giustificarsi puntava il dito verso la maggiore velocit&agrave; della concorrenza sul dritto.  Sito Pons: "Ho fatto scoprire la 250 alla Spagna" | Storie Sprint Storie Sprint: Johnny Cecotto  La domenica, dunque, si sarebbe dovuto inventare qualcosa di speciale, per sperare di giocarsela. E cos&igrave; fece: dopo 150 chilometri di gara sul tracciato di Spa-Francorchamps era ancora attaccato alle Aermacchi Harley-Davidson. E all&rsquo;ultima staccata piazz&ograve; la zampata: una frenata decisa, la leva spremuta come un limone per mettersi in testa. Villa, che proprio non se l&rsquo;aspettava, si difese in qualche modo. Quale? Tirando un calcio verso Cecotto, appunto, nel tentativo di arginare una mossa dalle conseguenze inevitabili: la gara, per lui, era ormai persa. A vincere sarebbe stato il diciannovenne sudamericano, che aveva gi&agrave; la fama del fenomeno. Merito di un esordio con il botto, sul circuito francese del Paul Ricard, qualche mese prima: nella classe 350 aveva lasciato tutti di stucco vincendo la sua prima gara nel Motomondiale davanti al pilota pi&ugrave; quotato del lotto, Giacomo Agostini, 14 titoli gi&agrave; in bacheca e un altro in arrivo. Il distacco rifilato al Campionissimo, di 25 secondi, fu un abisso di cui il venezuelano va ancora fiero, e fece decollare una carriera intensa ma breve, terminata all&rsquo;inizio del decennio successivo quando pass&ograve; alle quattro ruote, diventando compagno di squadra di un&rsquo;altra Leggenda, l&rsquo;allora debuttante Ayrton Senna sulla Toleman, in Formula 1. Campione del Mondo della 350 nell&rsquo;anno dell&rsquo;esordio e della Formula 750 tre stagioni pi&ugrave; tardi (nel 1978), Cecotto non si fece notare soltanto in pista, ma anche nel colorato paddock degli anni &rsquo;70, un arcobaleno di esperienze ed emozioni, gli sponsor scarsi e la velocit&agrave; come catarsi, e poi avventura, emancipazione, adrenalina, spontaneit&agrave;. Ray-Ban a goccia e camicia aperta sul petto, jeans a campana e sorriso maledetto, il sudamericano si afferm&ograve; in un periodo in cui il talento era tutto: se ce l&rsquo;avevi bene, altrimenti ciao. Lui faceva parte del primo club, e beato lui che se l&rsquo;&egrave; goduta, correndo in moto e sprintando dietro alle gonne. Facendo storcere il naso, anche in questo caso, al solito Ago. Vittima del novellino, leggenda nel mirino. La gara di Spa-Francorchamps nel 1975, lottando con le Aermacchi-Harley Davidson: quanta grinta serv&igrave; per vincere? &ldquo;Il tracciato era lungo 14 chilometri e le moto di Villa e Rougerie volavano sui rettilinei. In qualifica mi mancavano 4-5 secondi al giro. La domenica per&ograve; scattai bene, nel primo tratto ricordo di essere stato in testa, poi gi&ugrave; in discesa, fra le case, prima che i due mi sorpassassero di motore. A un certo punto c&rsquo;era una doppia curva che fino alle qualifiche avevo affrontato in quarta marcia. Preso dalla foga di restare con le Aermacchi Harley-Davidson, domenica mi buttavo dentro in quinta: il posteriore che si muoveva di brutto sembrava volermi mollare da un momento all&rsquo;altro. Con quello slancio arrivavo forte alla staccata dell&rsquo;ultimo tornantino e spesso li superavo entrambi. Avanti cos&igrave; per tutta la gara, fino al momento decisivo: Villa, che pensava di aver vinto, quando mi vide entrare in staccata scalci&ograve;, provando a buttarmi gi&ugrave;. Ma non mi prese: vinsi io&rdquo;. Era il settimo appuntamento di una stagione iniziata al Paul Ricard, dove avevi lasciato tutti a bocca aperta vincendo all&rsquo;esordio assoluto in due diverse classi, 250 e 350: cosa ricordi di quel fine settimana francese? &ldquo;Ero arrivato dal Venezuela, senza conoscere la pista, con una moto clienti in vendita a chiunque, gomme Dunlop acquistate in circuito e con la prospettiva di correre al massimo tre GP. Poi me ne sarei tornato in Sud America, perch&eacute; il budget non permetteva di pi&ugrave;. In Francia partecipavo sia alle 250 che alla 350. Nella quarto di litro mi qualificai con il secondo tempo dietro a Ikujiro Takai, sulla Yamaha ufficiale. E vinsi. Nella categoria superiore scattai dalla pole e viaggiai circa un secondo al giro pi&ugrave; veloce di Agostini: veramente una cosa incredibile! A quel punto di sponsor ne spuntarono parecchi. Fui in grado di completare la stagione, conquistando il Mondiale 350&rdquo;. Passa alla prossima pagina &nbsp; Johnny Cecotto: il pilota, il personaggio  L&rsquo;anno successivo, il 1976, trionfasti alla 200 Miglia di Daytona sulle tele, con la gomma posteriore finita. Il tuo rivale principale era Kenny Roberts, anche lui alle prese con qualche problema di pneumatici. &ldquo;Eravamo entrambi alla frutta, ma io riuscii ad arrivare in fondo, lui no. Si dovette fermare per una sosta &lsquo;extra&rsquo;. Montavamo le Goodyear. Non so se avessimo lo stesso materiale, perch&eacute; Kenny era trattato da ufficiale, io invece ero un semplice cliente. In ogni modo, dopo il suo problema quelli dei pneumatici corsero a dire al mio team di fermare anche me. Probabilmente avrebbero preferito una vittoria di Kenny Roberts, statunitense come loro, idolo di casa a Daytona. Ma la mia squadra li rassicur&ograve; dicendo che avevano controllato il battistrada nella sosta per il rifornimento, e andava tutto bene. Arrivai sotto la bandiera a scacchi con l&rsquo;acqua alla gola, ma c&rsquo;ero riuscito: primo!&rdquo;. Quell&rsquo;anno gareggiasti anche in 500, dove nel 1978 conquistasti otto pole su 11 Gran Premi: vincesti in volata ad Assen, raccogliendo qualche altro podio, ma in altre occasioni and&ograve; peggio. A cos&rsquo;era dovuta questa altalena? &ldquo;Guidavo una Yamaha privata, non ufficiale. In qualifica andavo forte, ma in gara emergeva un problema: dopo qualche giro il posteriore cominciava a saltare e mi costringeva a rallentare. Nelle curve la moto non stava pi&ugrave; attaccata a terra e diventava inguidabile. Fra il battistrada, la carcassa e l&rsquo;ammortizzatore si innescava qualcosa di anomalo&rdquo;. La tua Yamaha 500 funzionava soltanto sul giro secco, insomma. Nella Formula 750 la musica invece era diversa. &ldquo;L&igrave; guidavo una moto ufficiale, per&ograve;. Mi pare che i pneumatici fossero gli stessi della 500, ma l&rsquo;ammortizzatore era un altro. Con quella moto, quindi, il problema non c&rsquo;era e riuscivo a concretizzare, tanto che vinsi il titolo. La 750 &egrave; la miglior moto che abbia mai guidato. Una bestia, certo, super veloce, difficile e potentissima: dava un gran gusto&rdquo;. Le tue esperienze con le due ruote erano iniziate proprio con una moto di quella cilindrata, ma in un contesto del tutto diverso. &ldquo;S&igrave;, la mia storia era cominciata in Venezuela una settimana prima dell&rsquo;inizio del campionato nazionale del 1972. Avevo 16 anni e guidavo una Honda CB quattro cilindri stradale. Per pura curiosit&agrave; mi feci i circa 300 chilometri che mi separavano dalla pista di San Carlos per andare a vedere le prove dei piloti che avrebbero partecipato alle serie venezuelane. Avevano mezzi da corsa, ma alcuni, come me, avevano raggiunto il tracciato su moto stradali. Finite ufficialmente le prove, si erano messi a girare in pista con le stradali: visto che ero l&igrave;, mi unii al gruppo, a proteggermi giusto un paio di jeans e un giacchino. Tenevo comodamente il passo degli altri. Cos&igrave; uno mi disse: &lsquo;Hai girato bene, corri anche tu domenica prossima?&rsquo;. E io: &lsquo;No, assolutamente&rsquo;. La sera tornai a Caracas e andai a dormire. La mattina successiva mi svegliai con una convinzione: avrei corso anch&rsquo;io!&rdquo;. Cosa ti serviva per farlo? &ldquo;Innanzitutto il permesso di mio padre, che aveva un&rsquo;officina di auto. Mi liquid&ograve; con sufficienza, dicendomi di lasciar perdere. Ma io lo martellai senza piet&agrave;, tormentandolo per tre giorni, finch&eacute; non cedette. Fatta la licenza, poi, ero pronto per partire. Pap&agrave;, vedendomi con i jeans, mi diede dello scemo e mi mand&ograve; a comprare una tuta di pelle. La ricordo ancora, gialla, di parecchie taglie in pi&ugrave;. La pagai con un assegno&rdquo;. Cos&igrave; ti presentasti alla tua prima gara: una 750 stradale sistemata alla bell&rsquo;e meglio e senza esperienza. &ldquo;Si partiva a spinta, a motore spento. La mia Honda aveva il motorino d&rsquo;avviamento, che era vietato. Prima del via un commissario mi avvert&igrave;, dicendomi che mi avrebbe tenuto d&rsquo;occhio. Non ci avevo mai provato, e infatti fu una d&eacute;b&acirc;cle: spingevo la mia Honda, una falcata dopo l&rsquo;altra, tenendo il gas aperto. Insomma, sbagliavo. Quando, esausto, chiusi la manopola, il motore finalmente part&igrave; e mi avviai, ultimissimo. Rimontai fino al terzo posto ma mi si ruppe la catena. Poi i primi due si ritirarono. Morale, avrei potuto vincere&hellip;&rdquo;.  Passa alla prossima pagina &nbsp; Johnny Cecotto, campione e playboy  Dal tuo racconto sembra che tu avessi doti innate: ai tuoi tempi essere un pilota di successo era un affare di puro talento, oppure c&rsquo;era la possibilit&agrave; di imparare e lavorare su tecnica e velocit&agrave;? &ldquo;Che si trattasse di correre in moto o in auto, a mio avviso se non ce l&rsquo;avevi naturale non avevi la possibilit&agrave; di andare oltre un certo livello. Qualcuno ti aiutava svelandoti qualche trucchetto, magari, ma poca roba. A me accadde con Andrea Ippolito, che per esempio mi spieg&ograve; l&rsquo;importanza delle scie e come sfruttarle, sganciandosi al momento giusto e poi creando della distanza per non essere ostacolati dalle turbolenze. Sono cose che aiutano, ma non fanno la differenza&rdquo;. Hai parlato dell&rsquo;importatore della Yamaha in Venezuela, che ti port&ograve; da Caracas al Motomondiale. Gli sei sempre stato fedele: non hai mai ricevuto altre offerte? &ldquo;Certo, mi chiam&ograve; la Suzuki alla fine del 1975, dopo il titolo in 350. Mi volevano per la classe regina. La moto di Hamamatsu era vincente, si era gi&agrave; visto. Quella era la strada del professionismo, di chi voleva a tutti i costi il titolo della 500. Per me, per&ograve;, era pi&ugrave; importante la riconoscenza nei confronti di Ippolito. Non potevo lasciarlo cos&igrave;, dopo tutto quello che aveva fatto per me. Mi aveva portato al Mondiale e avevamo vinto. Senza di lui non avrei raggiunto certi risultati&rdquo;. Il tuo casco ha una storia interessante, la puoi raccontare? &ldquo;Nella mia prima gara ne avevo usato uno aperto, addirittura. Poi mi comprai un Bell integrale bianco che pensavo di verniciare come quello di Jarno Saarinen, il mio idolo, con le bande rosse sopra e sui lati. Allora sistemai il nastro da carrozziere e presi in mano la vernice, ma ebbi un ripensamento. &lsquo;Devo fare qualcosa di mio, non di un altro&rsquo; mi dissi. Quindi rielaborai la base del finlandese. Ne usc&igrave; un bel lavoro, con due corna rosse che partivano da dietro e spuntavano davanti&rdquo;. Proprio nel 1972, l&rsquo;anno della tua prima gara, Saarinen aveva vinto il titolo della 250 da privato: perch&eacute; tifavi per lui? &ldquo;Era il grande antagonista di Giacomo Agostini, vincitore gi&agrave; tante volte, che a me stava antipatico. E poi lo stile di guida: l&rsquo;italiano era &lsquo;old school&rsquo;, composto, mentre Jarno teneva il ginocchio fuori e correva con manubri particolari, molto spioventi. Era il confronto tra il vecchio e il nuovo&rdquo;. Con Agostini, poi, arrivasti a sfidarti in pista: l&rsquo;hai mai temuto? &ldquo;Neanche un po&rsquo;. A me interessava soltanto vincere. Specialmente se c&rsquo;era lui&rdquo;. Nel paddock eri spesso insieme con Barry Sheene, due playboy con l&rsquo;aria di chi la sa lunga e la voglia di fare una gran baldoria: &egrave; vero che avevate messo Ago nel mirino? &ldquo;Gli facemmo parecchi scherzi. I gavettoni, per esempio. Poi le donne: una sera a Imola nel nostro albergo arrivarono due ragazze di Genova, molto belle, che chiesero di Ago dicendo di avere un appuntamento. Io, anche se non era vero, dissi loro che Giacomo era uscito e che se volevano potevano venire con me a Bologna, dove stavo andando a cena. Dovevi vedere la faccia di Agostini quando mi vide rientrare in hotel con le mie nuove due amiche! Ci rimase malissimo. Ancora rido, a ripensarci&rdquo;. Luca Cadalora, il pilota che ha sempre seguito il cuore | Storie Sprint       

L'esclusiva: "Sconfissi Giacomo Agostini al Paul Ricard, nel giorno in cui debuttai nel Mondiale con due successi. E quanti scherzi nel paddock"

Johnny Cecotto, bello e dannato | Storie Sprint

Max Biaggi, Loris Capirossi, Valentino Rossi, Jorge Lorenzo, questi sono solo alcuni dei nomi che hanno legato le proprie imprese nel motomondiale al marchio di Noale nella ormai defunta 250GP. Che si chiamasse RS250V, RSW250 o RSA250 la base tecnica era la medesima: motore bicilindrico a V di 90&deg;, 249,6cc 2 tempi in grado di erogare nelle sue ultime evoluzioni oltre 105cv il tutto in un contenutissimo peso si 100kg. Le 250GP ancora oggi sono considerate dai piloti che le hanno usate e da moltissimi appassionati le pi&ugrave; belle moto da Gran Premio mai realizzate e tra queste a spiccare su tutte c&rsquo;era la Aprilia RS 250 V.  HONDA RC30: LA STORIA DELLA MOTO CHE CONQUIST&Ograve; LA SBK E LA GENTE  L&rsquo;eredit&agrave; della AF1    La casa di Noale debutt&ograve; nel 1985 con il progetto AF1 250, una moto costruita in un inverno per assecondare le richieste di Michele Verrini che voleva debuttare nel motomondiale con un proprio team. Ivano Beggio allora Patron Aprilia credette subito nell&rsquo;ambizione di Verrini e in poco tempo anche grazie alla partnership con Rotax che forn&igrave; i motori riusc&igrave; a schierare la AF1 in griglia nel motomondiale, affidandola a Loris Reggiani. La moto era molto semplice, un motore Rotax bicilindrico &ldquo;in tandem&rdquo; da circa 75 cv ed un telaio scatolato in alluminio prodotto da Aprilia per un peso di circa 90kg. Nella prima stagione arriv&ograve; subito il podio in Jugoslavia ma per arrivare al successo a Noale dovettero attendere il GP di San Marino 1987 quando Loris Reggiani transit&ograve; per primo sotto la bandiera a scacchi a Misano Adriatico. Per essere pi&ugrave; competitivi per&ograve; serviva ben altro...  MOTOGP, ALEX MARQUEZ: &quot;MARC-GRESINI? SE NON SI DIVERTE, SI RITIRER&Agrave;&quot;  Nata per vincere    Per la stagione 1991 Aprilia fa sul serio ed il nuovo progetto (in mano ormai da un paio di stagioni a Jan Witteween)&nbsp;fu&nbsp;un vero passo avanti a livello tecnico. Il motore, che gi&agrave; nel 1988 era diventato di produzione Aprilia venendo nominato AF/1V passando ad&nbsp;un bicilindrico a V di 90&deg; (bench&egrave; non fosse una V pura, avendo i due alberi controrotanti), nel 1991 riceve un primo importante aggiornamento. Cambia interamente la termica, questo permette anche di rivedere il sistema di raffreddamento, cambia anche l&rsquo;accensione e sostituiti anche i carburatori. Non solo il motore per&ograve; riceve aggiornamenti ma anche il telaio cambia in maniera importante, il doppia trave in alluminio riceve degli innesti in carbonio diventando pi&ugrave; rigido e leggero, migliorando notevolmente rispetto a quello della AF1 precendente del 1990. Il passo avanti &egrave; evidente tanto che con la nuova AF1 centrano subito un successo a testa Pierfrancesco Chili e Loris Reggiani, il primo ad Assen mentre il secondo al Paul Ricard. Nella stessa stagione Aprilia, sempre con la AF1 250 &quot;clienti&quot;, si aggiudica il titolo europeo 250GP grazie ad un giovane ragazzo romano che aveva iniziato a correre solo qualche anno prima: Max Biaggi.    IANNONE PU&Ograve; TORNARE A VINCERE DOPO LA SQUALIFICA? I PRECEDENTI  Continua nella pagina successiva  &nbsp;  La AF1 lascia podi e vittorie alla RS  La AF1 250 continua a vincere anche l&#39;anno successivo, nel 1992, con Loris Reggiani secondo nel mondiale dietro solo a Luca Cadalora, e con la storica prima tripletta sul podio, in quel di Hockenheim con Chili, Biaggi e Reggiani a festeggiare quella che fu un&#39;impresa per la Casa di Noale e la sua 250 (poi replicata a Kyalami all&#39;ultima stagionale con la prima vittoria di Biaggi). E nel 1993, contrariamente a quel che riportano alcune fonti, arriv&ograve; la RS 250 V, evoluzione della AF1, ormai arrivata a fine ciclo. La nuova RS (nome che la collegava ora al nuovo modello 125 stradale arrivato nel 1992)&nbsp; portava in dote una nuova aerodinamica e l&#39;introduzione della valvola parzializzatrice elettronica allo scarico, in luogo di quella a comando pneumatico.  ARRIVA LO SPONSOR CHESTERFIELD   L&#39;inizio di stagione non fu il massimo per la bicilindrica RS, ancora indietro con lo sviluppo ed i primi risultati iniziarono a vedersi da met&agrave; stagione in avanti. In quell&#39;anno debutt&ograve; anche una livrea che segn&ograve; una vera epopea per la Aprilia RS250W. Ad agosto venne siglato l&#39;accordo con la Chesterfield.&nbsp; Nel 1994 arriva una ciclistica aggiornata. La nuova moto fa un balzo avanti importantissimo tanto che Max Biaggi &egrave; in grado di vincere l titolo contro Loris Capirossi e Tadayuki Okada, vincendo sette gare. Nel 1995 arriva il bis:&nbsp;Max Biaggi &egrave; imprendibile in sella alla nerissima Aprilia RS250V ufficiale, conquista 8 successi e 4 podi e si porta a casa il secondo&nbsp;titolo in 250 per lui e per Aprilia che conquister&agrave; anche il titolo costruttori. L&rsquo;anno successivo la storia non cambia, Biaggi &egrave; sempre imprendibile e si porta a casa il titolo nonostante tre ritiri nelle ultime sei gare della stagione. In questi anni Aprilia ha iniziato a differenziale le RS250V ufficiali da quelle che poi vendeva ai clienti, il rebranding ha portato anche un nuovo nome per la moto di Noale che divenne RSW250 per le moto ufficiali e RSW250 LE per i team privati con trattamento semiufficiale.  MOTOGP AUSTRALIA, MARC MARQUEZ: &quot;CASEY STONER ERA UN ANIMALE&quot;  Continua nella pagina successiva  &nbsp;  Fine decennio nel segno di Capirossi e Rossi  La fine degli anni &lsquo;90 porta con s&eacute;&nbsp;un nuovo aggiornamento alla RS250V, il telaio in alluminio diventa pi&ugrave; rifinito, la ciclistica si aggiorna con nuove sospensioni e soprattutto l&rsquo;introduzione delle pinze ad attacco radiale che sostituiscono quelle assiali utilizzate fin qui. La nuova moto vede anche una nuova carena, pi&ugrave; protettiva e che poi sar&agrave; ripresa dalle Aprilia RS125 e RS250 stradali che saranno un successo a livello commerciale fino a met&agrave; degli anni 2000. A portarle in pista nel 1998 ci sono Loris Capirossi e Valentino Rossi che conquisteranno a fine anno il primo ed il secondo posto in campionato vincendo 13 delle 14 gare disputate in quella stagione. Nel 1999 &egrave; il turno di Valentino Rossi laurearsi campione del mondo 250GP con Aprilia che conquister&agrave; nuovamente anche il titolo costruttori.    I primi anni 2000 e l&rsquo;ultima evoluzione della RSW250  Il nuovo millennio si apre con Aprilia che deve cedere il passo alle case giapponesi che con Olivier Jacque su Yamaha prima ed il compianto Daijiro Kato su Honda poi si prendono i titoli 2000 e 2001. Per tornare al successo Aprilia dovr&agrave; aspettare il 2002 dove per&ograve; riusc&igrave; ad aggiudicarsi non solo il titolo piloti e costruttori nella 250 con Marco Melandri ma anche nella 125 con Arnaud Vincent. Fu una stagione memorabile per le 2t di Aprilia che si portarono a casa 4 titoli iridati ma soprattutto 14 successi su 16 gare sia in 125 che in 250. La supremazia del progetto RSW venne confermato anche nel 2003 quando sulla moto ufficiale della casa di Noale sal&igrave; Manuel Poggiali, nonostante il sanmarinese fosse al debutto nella quarto di litro riusc&igrave; subito a conquistare l&rsquo;alloro con Aprilia che nuovamente si impose in 14 delle 16 gare stagionali grazie anche ai successi di Fonsi Nieto, Toni Elias e Randy de Puniet.    SBK 2024: COSA CAMBIER&Agrave; DAVVERO COL NUOVO REGOLAMENTO TECNICO?  Continua nella pagina successiva  &nbsp;  L&rsquo;arrivo della RSA250 e la fine del sogno  Nel 2007 debutta l&rsquo;ultima versione della duemezzo di Noale che porta la sigla si RSA250, affidata a Jorge Lorenzo che aveva gi&agrave; conquistato il titolo nel 2006 con 8 vittorie e 3 podi contro Andrea Dovizioso. La nuova moto non fu una rivoluzione, sebbene le modifiche con la RSW erano notevoli, ma un importante miglioramento ad adeguamento alle tecnologie che ormai stavano debuttando nel motomondiale. La RSA250 vanta una nuova aspirazione, pi&ugrave; efficace, oltre ad una nuova termica ed una nuova disposizione del cambio. Il nuovo motore aveva oltre che pi&ugrave; potenza, anche un regime di rotazione utile migliore e pi&ugrave; ampio che andava dai 6.000 giri/min ai 13.500 giri/min. Anche la ciclistica viene aggiornata: la nuova moto ha un telaio pi&ugrave; corto permettendo cos&igrave; di utilizzare un forcellone pi&ugrave; lungo in grado di migliorare sensibilmente la trazione, venne implementata anche l&rsquo;elettronica con l&rsquo;introduzione di tre accelerometri, utili a gestire la potenza ormai superiore ai 105cv del bicilindrico di Noale, soprattutto in condizioni di scarsa aderenza. La RSA permise a Jorge Lorenzo di conquistare il suo secondo titolo in 250 vincendo 9 gare e salendo sul podio in tre occasioni. La casa di Noale conquist&ograve; l&rsquo;ennesimo titolo costruttori grazie anche ai successi di Alvaro Bautista, nel frattempo passato in 250 dopo il titolo conquistato nel 2006 in 125. Proprio nella stagione 2007 Aprilia raggiunge il traguardo delle 125 gare vinte in 250.  MONDIALE CON IL &quot;SIC&quot;    Nel frattempo l&rsquo;acquisizione di Aprilia da parte del Gruppo Piaggio ha permesso il debutto o meglio il ritorno di marchi come Gilera e Derbi nel motomondiale, le moto erano come avviene oggi con KTM ed i brand del gruppo in Moto3, identiche alla RSW250 marchiata Aprilia. Nel 2008 da met&agrave; stagione Marco Simoncelli gi&agrave; leader di campionato con la Gilera RSW250 ricevette la RSA per il finale di stagione nel quale conquist&ograve; il titolo piloti a Sepang. Nel 2009 ultima stagione nel motomondiale delle quarto di litro, il Sic non riusc&igrave; a confermarsi ed il titolo piloti and&ograve; ad Hiroshi Aoyama ma Aprilia conquist&ograve; comunque il titolo case.  La storia della RS250V e delle sue evoluzioni termina, insieme a quella della classe 250, l&rsquo;8 novembre 2009 a Valencia con la vittoria di Hector Barbera davanti ad Alvaro Bautista entrambi su Aprilia. La casa di Noale con la sua quarto di litro tra il 1993 ed il 2009 ha collezionato ben 150 vittorie in 290 Gran Premi, monopolizzando in diverse occasioni tutto il podio e conquistando 18 titoli tra piloti e costruttori facendo della RS250V la moto pi&ugrave; vincente degli ultimi 20 anni della classe pi&ugrave; amata di sempre.   

Con questa quarto di litro la Casa di Noale ha fatto incetta di titoli tra piloti e costruttori dal 1993 anno del debutto al 2009 ultimo anno prima delle Moto2

Aprilia RS 250 V, la classe media che vola(va) alto

        Sito Pons era furioso. E chissenefrega se la sua rabbia era rivolta verso uno degli sportivi pi&ugrave; consolidati del periodo, mentre lui era un novellino che si era appena affacciato sul palcoscenico internazionale. Non trattenne le parole, corse da Toni Mang, vincitore di cinque titoli nelle classi intermedie del Motomondiale negli anni &rsquo;80, e gli picchiett&ograve; l&rsquo;indice sulla spalla per richiamare la sua l&rsquo;attenzione. Quel dito poi lo utilizz&ograve; per indicare la scritta che aveva sulla tuta. Dove c&rsquo;era il proprio cognome. &ldquo;Lo leggi? Ricordatelo, perch&eacute; una manovra come quella di oggi non me la farai pi&ugrave;. Altrimenti vedrai&rdquo;.  MotoGP, Flamigni: "Bezzecchi puntiglioso e metodico come Rossi" Sito Pons e la "promessa" a Toni Mang  Fu la scintilla, questa, di un duello sportivo e verbale trascinatosi per gran parte del decennio, con lo spagnolo sempre pi&ugrave; affermato nella classe 250 e in grado di dare del filo da torcere ai migliori, incluso il tedesco. Quella volta a indispettire Pons fu una carenata, mentre successivamente nel 1988, a Suzuka, a farlo esplodere fu la frustrazione. La coppia si giocava la vittoria assieme a un pilota di casa, Masaru Kobayashi, trionfatore l&rsquo;anno prima al ritorno del Mondiale in Giappone dopo una lunga assenza. Nelle fasi decisive, prima della bandiera a scacchi, una manovra del nipponico rovin&ograve; le possibilit&agrave; di Pons, finito cos&igrave; secondo dietro a Mang. Spenti i motori, prima della conferenza stampa, lo spagnolo lo rifece e sventol&ograve; l&rsquo;indice sotto il naso del vecchio nemico: &ldquo;Questa &egrave; l&rsquo;ultima gara che vinci&rdquo;. Una frase profetica, perch&eacute; l&rsquo;allora trentottenne tedesco &ndash;&nbsp;campione in carica della 250 &ndash; in effetti non calpest&ograve; pi&ugrave; il gradino pi&ugrave; alto del podio. La rivalit&agrave; fra i due divent&ograve; una forma di stima reciproca, tanto che a fine anno, quando Pons mise le mani sul primo dei due titoli iridati consecutivi nella quarto di litro, Mang lo omaggi&ograve; con un gesto di massima sportivit&agrave;: stacc&ograve; dalla carena della propria Honda l&rsquo;adesivo numero 1 e lo consegn&ograve; all&rsquo;avversario. Una piccola cerimonia privata, specchio di un ambiente in cui comportarsi da gentiluomini era un valore. Quell&rsquo;epilogo consacr&ograve; Pons fra i grandi del motociclismo: primo spagnolo a vincere l&rsquo;iride nella 250, categoria che per gli iberici era quasi un tab&ugrave;, pi&ugrave; tardi si fece sotto pure in 500, trovando per&ograve; pi&ugrave; freni che stimoli. Qualche caduta di troppo, un&rsquo;impazienza esagerata, la nascita di un figlio, l&rsquo;impasse tecnica che sembrava insormontabile. Astuto e ambizioso, stratega essenziale, talento fenomenale: questo era Pons. Occhi di ghiaccio, i suoi: per capire come gli girava occorreva leggere le estremit&agrave; delle labbra. All&rsquo;ins&ugrave; per spruzzare lo champagne dal podio o scherzare, leggermente all&rsquo;ingi&ugrave; quando le cose si facevano serie e la concentrazione era massima. Una trentina abbondante d&rsquo;anni fa rimontare fino al podio dall&rsquo;ultima posizione non gli sembrava nemmeno cos&igrave; speciale, annebbiato com&rsquo;era dall&rsquo;imperativo di vincere. Ma oggi, nel Motomondiale con un team che porta il suo nome da decenni &ndash; e con il quale ha seguito assi come Alex Criville, Loris Capirossi e Max Biaggi &ndash; se si guarda indietro Pons annuisce con una leggera punta d&rsquo;orgoglio negli occhi. E i lati della bocca vanno nella direzione giusta. Verso l&rsquo;alto. Quella volta con Mang, molto prima dei tuoi titoli: prov&ograve; a intimidirti e sentisti di dover mettere le cose in chiaro? &ldquo;Ero arrivato da poco, non ero nessuno. In una staccata invece di fare la sua linea mi diede una sportellata, per poco non mi buttava fuori. Rompemmo il ghiaccio cos&igrave;, noi due&rdquo;. A Suzuka, nel 1988, perch&eacute; lo apostrofasti? In fondo non aveva fatto nulla di scorretto, era stato Kobayashi a pasticciare. &ldquo;Ero arrabbiato, tutto qui. Perch&eacute; aveva vinto lui e non io. Allora gli dissi che non sarebbe mai pi&ugrave; salito sul gradino pi&ugrave; alto del podio&rdquo;. Un po&rsquo; promessa e un po&rsquo; minaccia, la tua. &ldquo;Quell&rsquo;anno ci ritrovammo ai ferri corti anche a Spa-Francorchamps. La gara fu interrotta per un incidente e divisa in due parti, con il risultato finale dato dalla somma dei tempi. Al momento dello stop avevo un po&rsquo; di vantaggio, cos&igrave; mi sarebbe bastato arrivare nella sua scia. Ma ricordavo quella promessa: non volevo che vedesse la bandiera a scacchi per primo. All&rsquo;ultimo giro lo sorpassai all&rsquo;esterno in una curva da quinta piena, il guard-rail vicinissimo. A fine gara dichiar&ograve; che avevo vinto nello stile che piaceva a lui. Mi fece piacere&rdquo;. Classifica piloti AGGIORNATA I primi passi nella 250, la rivalit&agrave; con Garriga  A impensierirti nel 1988 fu Joan Garriga, spagnolo come te. La vostra rivalit&agrave; &egrave; leggenda e vi vedeva agli antipodi: tu il freddo calcolatore, lui spontaneo &egrave; istintivo. &ldquo;Era estroverso, aveva un modo di fare spontaneo. Io ero pi&ugrave; riflessivo, tranquillo, focalizzato sull&rsquo;obiettivo. Non si era mai visto uno spagnolo forte in 250, figuriamoci due iberici in lotta per il titolo! I tifosi impazzirono, c&rsquo;erano cinque milioni di telespettatori per le nostre gare. Alcuni amavano Garriga, altri Pons&rdquo;. Perch&eacute; prima di voi la 250 non era stata il terreno di caccia giusto per gli spagnoli? &ldquo;Quando cominciai io, praticamente di veloce non c&rsquo;era nessuno. Quelli del campionato nazionale mi dicevano di lasciar perdere, prima che ci provassi: &lsquo;Che vai a fare l&agrave;? Ti daranno due giri, tornerai con la coda fra le gambe&rsquo;. Le serie spagnole si correvano nei circuiti cittadini, ci giocavamo la vita a 200 km/h e a pochi centimetri dal pubblico, era pericoloso per tutti. Non aveva senso. Io sognavo il Paul Ricard, Silverstone&rdquo;. Con tale ambizione, raggiungesti i massimi livelli in un lampo. &ldquo;Lo ammetto: non ero uno sfegatato della moto. Studiavo architettura a Barcellona, tutti i giorni andavo all&rsquo;universit&agrave; con la Vespa di mio nonno, vecchia di vent&rsquo;anni. Un amico mi disse che un concessionario aveva messo in piedi un concorso per scegliere un pilota da schierare in un monomarca Bultaco. Ma dovevo preparare un esame e non ne avevo molta voglia. Di esperienza ne avevo poca. Alla fine ci provai, eravamo in 150. Vinsi la selezione e poi il monomarca&rdquo;. A quel punto, senza perdere tempo, bussasti alla porta di Antonio Cobas, un preparatore sopraffino al lavoro su una 250 artigianale, la Siroko. &ldquo;Gli chiesi un&rsquo;opportunit&agrave; e lui me la diede. Nella pausa invernale andammo a fare un test al Paul Ricard, e c&rsquo;erano tutti quelli del Mondiale, impegnati nella preparazione della stagione 1981: Jean-Francois Bald&eacute;, Patrick Fernandez e via dicendo. Feci il secondo crono senza problemi. Fu la conferma: c&rsquo;era in ballo qualcosa di speciale&rdquo;. Sempre con Cobas, nel 1984, vincesti il tuo primo GP. &ldquo;Quel successo, proprio in Spagna, mi proiett&ograve; in vetta al Mondiale. Avrei dovuto correre con una Yamaha, ma la moto non era arrivata in tempo per il primo round della stagione. Allora in Sud Africa ci andammo con la Cobas dell&rsquo;anno prima, che portava il nome del suo costruttore. Finimmo sul podio, poi arriv&ograve; la 250 dal Giappone, ma a Misano fu un grippaggio dietro l&rsquo;altro, ogni turno, un disastro. Cos&igrave; decidemmo di scaricare la Yamaha e di proseguire con quello che avevamo. Chiusi la stagione al quarto posto&rdquo;.  Passa alla prossima pagina I titoli mondiali, i passaggi nella 500  Nel 1985 ci fu un assaggio della 500 per poi fare ritorno in 250 con la Honda, sfiorando il titolo: il 1987 doveva essere l&rsquo;anno giusto. &ldquo;Nel team c&rsquo;era una novit&agrave;: un ingegnere. Ma era un matto, sbagliava sempre la carburazione. Grippavo. Fosse successo in accelerazione, avrei sentito che stava per &lsquo;stringere&rsquo; e avrei tirato la frizione. Ma in frenata non c&rsquo;era niente da fare. Ruota bloccata e via per aria. Corsi anche con una mano fratturata, antidolorifici e tutto il resto. Quando mandammo via l&rsquo;ingegnere iniziammo a recuperare. All&rsquo;ultima gara, in Argentina, per arrivare secondo nel Mondiale dovevo vincere, mentre Reinhold Roth doveva arrivare sesto o peggio. Facemmo proprio questi risultati, e finimmo a pari punti&rdquo;. Poi arrivarono i due titoli, in una carriera da quattro pole e 15 vittorie: avevi bisogno di un riferimento per andare forte? &ldquo;Da solo non ero molto veloce. Ma mica era un difetto: in gara non sei solo. Essere primo in qualifica non era importante. In ogni caso, ho sempre avuto chiara una cosa: dovevo rischiare il minimo. Se potevo vincere con cinque decimi di vantaggio, perch&eacute; provare a farlo con cinque secondi?&rdquo;. Nel 1990, il ritorno in 500 con la Honda, convinto di spaccare il mondo, ma ti mancarono le gomme giuste. &ldquo;Quelle erano soltanto per gli ufficiali dei team gestiti direttamente dalle fabbriche. A Suzuka, alla prima gara, lottai anche per il podio contro piloti che avevano i pneumatici giusti, non come i miei. A Laguna Seca feci il terzo tempo in qualifica. Chiesi quelle gomme, ma niente&rdquo;. A Rijeka, settima gara, ti eri messo in testa di stare con Mick Doohan, sulla Honda ufficiale, e cadesti. Pierfrancesco Chili ti centr&ograve;. &ldquo;Le mie gomme avevano meno grip, e che diamine. Mi feci male, s&igrave;. L&rsquo;anno dopo in un&rsquo;occasione mi ritrovai senza freni e finii in un muro. Che male. Ho avuto un figlio. Ho detto basta&rdquo;.  Passa all'ultima pagina dell'intervista a Sito Pons &nbsp; Sito Pons: pochi rimpianti, tanto orgoglio  Pensi di aver sbagliato qualcosa, nella tua carriera? &ldquo;Dopo i due titoli in 250 avrei dovuto aspettare un anno in pi&ugrave; prima di salire in 500. Vincere un terzo Mondiale, magari anche un quarto, nel 1990 e 1991. Aspettare che fosse la Honda a cercarmi, anzich&eacute; andare a propormi. Loro non volevano che facessi il salto di categoria. Se avessi atteso, poi, al mio arrivo avrei avuto a disposizione il motore &lsquo;big bang&rsquo;, a scoppi irregolari, dall&rsquo;erogazione pi&ugrave; gestibile. Sono convinto che se avessi aspettato, le cose sarebbero andate in modo molto diverso&rdquo;. Se rifletti su ci&ograve; che hai fatto da pilota, cosa ti passa per la testa? &ldquo;A volte riguardo le mie gare e noto dettagli che allora mi sfuggivano. Ero immerso in quello che facevo, incapace di fare valutazioni obiettive. Nel 1986 a Silverstone durante il primo giro uscii di pista per evitare un pilota caduto e mi ritrovai in fondo. Pioveva di brutto. Li sorpassai quasi tutti, rimontando fino al podio. Che dire? Di me ho un&rsquo;impressione molto migliore, rispetto alla considerazione che in quei momenti avevo di me stesso. Orgoglio, &egrave; quello che provo&rdquo;.  Bagnaia-Ducati, il legame rende invincibili       

Gli inizi, la rivalit&agrave; con Mang, i trionfi, i tonfi: la nostra intervista esclusiva alla leggenda spagnola

Sito Pons: "Ho fatto scoprire la 250 alla Spagna" | Storie Sprint

        Il segreto che si &egrave; tenuto dentro per una notte intera, e anche di pi&ugrave;, non l&rsquo;ha confidato nemmeno a sua moglie. Ma a un certo punto, Wayne Rainey &egrave; costretto a parlare. MotoGP Mugello: gli orari tv del GP Italia Wayne Rainey a cuore aperto  &Egrave; l&rsquo;1 agosto, il giorno del Gran Premio di Donington, decima tappa su 14 del Mondiale 1993. Lo statunitense, campione del Mondo in carica della classe regina all&rsquo;inseguimento del quarto iride consecutivo, ha un problema alla vista. Non ci vede bene per niente. Colpa del botto fatto il giorno prima, durante le prove del sabato, quando la sua Yamaha YZR 500 lo ha &ldquo;consegnato&rdquo; a terra. Una schiena dolorante e qualche unghia saltata via, fra le conseguenze. Ma soprattutto un gran colpo alla testa, il morso dell&rsquo;asfalto ben visibile sul casco AGV. L&rsquo;americano ha pensato bene di non dire nulla a nessuno. Una commozione cerebrale: che vuoi che sia? La sera prima si &egrave; coricato convinto di svegliarsi, l&rsquo;indomani, a posto. E invece, la vista fa ancora i capricci. Nel warm up &egrave; un paio di secondi pi&ugrave; lento dei migliori. E cos&igrave; &egrave; costretto a confessare il segreto al suo capotecnico, che non ci pensa troppo prima di dirgli che in quelle condizioni non pu&ograve; guidare. Ma il trentaduenne californiano non &egrave; uno che molla facilmente. Ci sono una battaglia da combattere e una guerra da vincere, per lui. Kevin Schwantz, in classifica, &egrave; davanti ma a tiro, pochi i punti a separarli: 192 per il texano della Suzuki, 169 per Rainey. Dal 1988, quando entrambi avevano iniziato a correre a tempo pieno nel Mondiale 500, erano sempre stati ai ferri corti. Biondi e affilati, americani e dotati: dalla California il numero 1 della categoria, dal Texas il pilota della Suzuki. Disposti a cedere un millimetro all&rsquo;avversario? Mai, nemmeno nelle prove libere, figuriamoci in gara. &Egrave; con questa motivazione addosso che Rainey si infila nel motorhome dopo il warm up e ragiona sul da farsi. Un&rsquo;ora dopo torna nel box del team ufficiale Yamaha, tappezzato di loghi Marlboro, con un piano ben preciso. Cosa decidesti di fare in quel momento? &ldquo;Qualcosa di decisamente folle, se ci penso adesso. Chiesi al mio capotecnico di sistemare i rapporti del cambio per consentirmi di partire in seconda marcia, anzich&eacute; in prima. Il fatto &egrave; che con la vista non riuscivo a misurare la profondit&agrave;, quindi a capire quanto distanti da me fossero gli altri piloti. Invece con le traiettorie ero a posto. Partendo davanti non avrei dovuto superare nessuno e avrei risolto il problema. Scattando in seconda pensavo di essere rapido perch&eacute; avrei dovuto infilare una marcia in meno accelerando, e toglierne una in meno frenando per la prima curva. Ma non ci avevo mai provato: era un salto nel buio&rdquo;. Un passo indietro: i medici non ti fermarono. &ldquo;Non c&rsquo;erano i protocolli di adesso. Non manifestai il problema e nessuno se ne accorse&rdquo;. Pronti via, cosa accadde? &ldquo;Scattai dalla seconda fila con un grande spunto. Alla prima curva avevo un solo avversario davanti (Alex Barros, nde), lui and&ograve; largo e io passai in testa. A quel punto era quasi fatta, perch&eacute; su gomme fredde ero quasi imbattibile. Poi, dietro si verific&ograve; un incidente che coinvolse anche Mick Doohan e Kevin (l&rsquo;australiano della Honda travolse entrambe le Suzuki di Schwantz e Barros alla staccata della variante, nde). Quindi in ottica iridata tutto volgeva a mio vantaggio. Il mio compagno di squadra, Luca Cadalora, mi segu&igrave; come un&rsquo;ombra per tutta la gara. Io pensavo: forza, passami! Lo fece sul finire del GP e vinse, io fui secondo e contento&rdquo;. And&ograve; bene, possiamo dire. &ldquo;Quella fu la prima volta, nella mia carriera, in cui gareggiai sapendo di non essere mentalmente a posto e non era una cosa sicura da fare. Fu un po&rsquo; da pazzi, lo ammetto. Francamente: non avrei dovuto correre, quel giorno&rdquo;. La vivesti come una cosa straordinaria, oppure normale? &ldquo;Negli anni avevo accumulato esperienza, avevo gareggiato al top e combattuto un sacco di battaglie, vincendo parecchie gare. Quell&rsquo;episodio fu soltanto qualcosa in pi&ugrave; nell&rsquo;ambito di ci&ograve; che occorreva fare per vincere un titolo mondiale: ho un problema e lo affronto, questo fu il ragionamento. Tutto qui&rdquo;.  La Storia Sprint di Wayne Rainey  Quel giorno a Donington chiudesti alle spalle del tuo compagno di squadra, una rarit&agrave; per te. &ldquo;Ai miei tempi, nei test ogni team girava per conto suo, non si svolgevano sessioni con tutti i piloti insieme, come si fa oggi. Si provava parecchio materiale e dovevo essere certo di spingere al massimo. L&rsquo;altro portacolori della squadra, quindi, era il mio unico metro di paragone. La mia strategia era quella di considerarlo a tutti gli effetti un rivale. In gara, poi, se finivo ottavo dovevo essere certo che lui, chiunque fosse, si classificasse nono. Con il tempo, per&ograve;, il mio approccio &egrave; mutato: gli avversari sono diventati tutti uguali&rdquo;. Stare davanti per te era una gioia o un&rsquo;ossessione? &ldquo;All&rsquo;inizio della mia carriera volevo sempre essere primo. Non soltanto in gara, ma in ogni turno di prove. Era un modo per far capire agli altri che sarei stato tosto, da battere. Sapevo bene come ci si sentiva a essere dietro: se Eddie Lawson era un decimo pi&ugrave; veloce di me, non la prendevo affatto bene e iniziavo a scervellarmi riflettendo su come recuperare. Pensando a questo, volevo mettere gli altri in quella particolare condizione. Pi&ugrave; avanti ho capito che quello che conta &egrave; il risultato della domenica. Lavoravo in quella direzione, dando meno importanza alle prove e alle qualifiche&rdquo;. Com&rsquo;era il processo di messa a punto? &ldquo;Posso dire tranquillamente che ci &egrave; capitato di essere nella m&hellip;. fino al collo il sabato sera, stravolgere la moto e provare qualcosa di nuovo per il warm up per poi doverla di nuovo smontare tutta perch&eacute; le cose non funzionavano come avrebbero dovuto. Poi ci presentavamo in gara con un ulteriore setting, mai provato prima, e finivamo magari per vincere! Non succedeva spesso, ma un paio di volte l&rsquo;anno s&igrave;. Ai giapponesi della Yamaha non piaceva affatto vedere il motore aperto e le sospensioni a pezzi a poche ore dal via. Ma avevo un&rsquo;ottima squadra: avevano tanta fiducia in me. E io ne avevo in loro&rdquo;. Sei mai stato felice per un piazzamento pi&ugrave; che per una vittoria? &ldquo;&Egrave; tutto relativo. Vinsi la mia ultima gara in Repubblica Ceca, nel 1993 a Brno, la corsa che segu&igrave; quella di Donington: trionfai con facilit&agrave;, dando il 90% e non il 100%. Non mi fece sentire del tutto appagato: a me piaceva dover lottare. Sempre quell&rsquo;anno, in Austria finii terzo con un grandissimo ultimo giro: avevo parecchi metri di ritardo da Barros. Lui commise qualche errore e io riuscii a raggiungerlo, infilarlo e salire sul podio. Ero raggiante&rdquo;. Correvate a Salisburgo: in uscita dalla prima &ldquo;esse&rdquo; a volte prendevi il cordolo e saltavi, con la YZR imbizzarrita: da vedere era parecchio spettacolare. &ldquo;Ma non era la cosa pi&ugrave; intelligente da fare: quando salti con una moto da GP rischi che la catena si spezzi oppure puoi provocare altri danni. Un paio di volte persi anche l&rsquo;appoggio del piede dalla pedana. Per&ograve; era divertente&rdquo;.  Passa alla prossima pagina &nbsp; Wayne Rainey: l'incidente di Misano, le 500  A Misano, quell&rsquo;anno, hai subito l&rsquo;incidente che ha messo fine alla tua carriera: hai anche ricordi belli di quel tracciato? &ldquo;I curvoni a sinistra in accelerazione fra la curva del Carro e il Tramonto, certo, quando Misano si percorreva in senso antiorario: erano i pi&ugrave; belli dell&rsquo;intero calendario. Tre, ma si affrontavano come un&rsquo;unica grande svolta, infilando le marce senza tirarle al massimo e arrivando all&rsquo;ultima curva in quinta, a quel punto con il regime dei giri oltre il punto di massima coppia. Cos&igrave;, se dietro slittava, sapevi che non avrebbe riservato sorprese, come invece sarebbe accaduto con l&rsquo;arrivo di ancora pi&ugrave; potenza&rdquo;. Aprire il gas con quelle moto era come accendere una miccia? &ldquo;La parte in assoluto pi&ugrave; delicata era l&rsquo;inizio dell&rsquo;apertura, rispetto alla quale ero sempre molto concentrato: era il momento pi&ugrave; rischioso. Si lavorava parecchio anche sulla carburazione, per evitare comportamenti troppo bruschi o imprevisti nell&rsquo;erogazione. A Laguna Seca, per esempio, si usavano rapporti corti ed era difficile anche tenere la moto gi&ugrave; davanti. Tendeva a impennarsi molto. Anche gli high side erano facili. In un giro tenevamo il gas aperto del tutto per il 27% del tempo, mi pare. Con le MotoGP, e con l&rsquo;elettronica a gestire le cose, mi hanno detto che quel tempo &egrave; salito al 67%&rdquo;. La tua Yamaha: la moto migliore del lotto? &ldquo;Dal mio punto di vista no. Il fatto &egrave; che non si lavorava abbastanza sullo sviluppo, rispetto agli avversari. La conseguenza &egrave; che alla fine chi doveva fare la differenza era il pilota, cio&egrave; io. E quel peso, sulle mie spalle, si faceva sentire eccome. Nel 1992 arrivai a giocarmi il titolo all&rsquo;ultima gara senza pi&ugrave; ricambi. Un pasticcio, potenzialmente, perch&eacute; avevamo lavorato sull&rsquo;ordine degli scoppi del nostro quattro cilindri e ci&ograve; comportava maggiori sollecitazioni per l&rsquo;albero motore e il cambio. A volte qualche pezzo si rompeva e andava sostituito. Per fortuna and&ograve; bene&rdquo;. Un bel brivido. &ldquo;Da una parte, al rischio ero abituato da sempre, perch&eacute; mio padre, gi&agrave; quando ero piccolo, mi aveva portato verso scelte controcorrente. Se tutti correvano con le Yamaha 90 cm&sup3;, noi ci compravamo una Suzuki. Se era la Honda ad andare per la maggiore, noi optavamo per una Bultaco. Abbiamo sempre fatto le cose a modo nostro, distinguendoci. Ci piaceva, quel genere di sfida: vincere con ci&ograve; che gli altri avevano scartato&rdquo;. Da professionista, per&ograve;, immagino ci fossero pi&ugrave; pressioni e maggiore stress. &ldquo;Dipende da come prendi le cose. Quando la mia carriera &egrave; finita, una parte di me ha pensato: finalmente! Le corse sono state tutto per me, la mia vita, ci&ograve; che ero. Se non avessi avuto l&rsquo;incidente di Misano, nel 1993, penso che avrei continuato per almeno un paio d&rsquo;anni. Ma il fatto &egrave; che volevo sempre vincere: secondo o terzo non mi interessava. E se non riuscivo a vincere, non mi davo pace. Probabilmente &egrave; stato un errore, perch&eacute; occorre accettare il fatto di non poter finire sempre primi. Per&ograve;, quando sei nel bel mezzo di una bagarre, nella tua bolla mentale, &egrave; difficile fare questi ragionamenti. A ogni modo, forse avrei dovuto essere un po&rsquo; meno radicale, per vivere meglio le corse. L&rsquo;ho capito dopo aver smesso&rdquo;. Calendario MotoGP 2023       

La leggenda del Motomondiale in esclusiva: "Le corse sono state tutto per me, la mia vita, ci&ograve; che ero"

Wayne Rainey: "Senza vittorie, non mi davo pace" | Storie Sprint

        Nel Medioevo furono eretti in Europa centinaia di castelli, per permettere ai feudatari di difendersi dagli attacchi provenienti dall&rsquo;esterno. Nel motociclismo, invece, i Castelli servono per andare all&rsquo;attacco, conquistando l&rsquo;intero globo. La storia di Lucio e Massimo Castelli   Lo dimostrano Lucio e Massimo Castelli, da Gorla Minore (Varese), artefici rispettivamente di 17 titoli mondiali piloti in pista e otto nel Motocross. Lucio compir&agrave; 90 anni il 30 giugno, ma &egrave; ancora lucidissimo e non si perde i raduni di Moto d&rsquo;Epoca, a cui presenzia con una delle sue MV Agusta: &ldquo;Lavoravo in officina da Mario Colombo, lui conosceva il Conte, Domenico Agusta, nel 1954 mi port&ograve; in azienda e venni assunto. Stavo in officina e quando, nel 1964, venne riaperto il Reparto Corse, Arturo Magni mi chiam&ograve; perch&eacute; mi occupassi della ciclistica. Essendo assunto, quando nel 1976 il Reparto Corse chiuse, restai alla MV, ho fatto da autista al conte Corrado fino alla pensione, nel 1989&rdquo;. Rispetto al padre, Massimo, che la settimana scorsa ha festeggiato 62 anni, ha avuto un percorso lavorativo pi&ugrave; tortuoso: &ldquo;Iniziai nel 1978 all&rsquo;Aspes come garzone, aiuto meccanico: imparavi lavando e smontando le moto, chiaramente senza responsabilit&agrave;. Dopo la pausa per il Militare, nel 1982 andai alla Cagiva, restando fino al 1991, quando Michele Rinaldi mi propose di aggregarmi a lui&rdquo;. Il cambio di casacca non fu accolto favorevolmente in famiglia: &ldquo;Pap&agrave; si arrabbi&ograve; molto perch&eacute; secondo lui la Cagiva, essendo una ditta, mi garantiva un lavoro sicuro come operaio, ma non mi andava di stare in catena di montaggio. Il Reparto Corse stava chiudendo, mi dissi &lsquo;un treno cos&igrave; non passa pi&ugrave;&rsquo; e andai da Rinaldi a Parma, per rimanerci dal 1992 al 1999. Passai al Team Freetime Yamaha Skittles di Reggio Emilia per cui correvano Yves Demaria e Pit Beirer. Dopo due anni aprii un&rsquo;officina e conobbi Giacomo Gariboldi che nel 2005 diede vita al suo team, un po&rsquo; per gioco&rdquo;. Da quell&rsquo;istante Massimo Castelli non ha pi&ugrave; cambiato casacca, diventando uno dei capisaldi della formazione di Arsago Seprio, fino a occupare il ruolo di responsabile tecnico: &ldquo;Il team fu messo insieme per aiutare i giovani: partimmo con il Regionale lombardo, poi l&rsquo;Italiano. Nel 2009 vincemmo l&rsquo;Europeo 250 con Christophe Charlier ma poco dopo la Yamaha ci abbandon&ograve;. Con un colpo di fortuna, o forse perch&eacute; siamo stati bravi, siamo stati chiamati in HRC ed &egrave; arrivato Tim Gajser, con cui abbiamo vinto cinque Mondiali: nel 2015 in MX2, nel 2016, 2019, 2020 e 2022 in MXGP&rdquo;. Oltre alle superfici di gara, anche i compiti dei due Castelli si discostano non poco come racconta Lucio: &ldquo;Io facevo il telaista, guardavo tutta la ciclistica, forcella, ammortizzatori, ruote, freni, filo del gas. Avevo un libretto che indicava ogni quanti chilometri erano obbligatorie le sostituzioni. I freni, anche se erano ancora quasi nuovi, dopo tre gare andavano cambiati. Le gomme ce le portavamo noi, erano soltanto di due tipi, da asciutto e da bagnato. A volte si restava svegli il sabato notte per sistemare la moto dopo una rottura. I motori di scorta erano quattro, due per cilindrata e durante l&rsquo;anno li ripristinavamo, mettendo a posto albero motore, pistoni, testa&rdquo;. Lucio e Massimo Castelli, dalla pista all'off-road   Vedendo il padre in azione in garage insieme allo zio Edoardo, anch&rsquo;egli dipendente Cagiva, l&rsquo;erede si &egrave; innamorato delle moto fin dalla tenera et&agrave;: &ldquo;Anch&rsquo;io come pap&agrave; cominciai come telaista, ma dopo, avendo la passione, ho imparato altre cose. Mi occupavo dei motori in Yamaha da Rinaldi e tutt&rsquo;ora &lsquo;faccio&rsquo; il motore di Gajser, sono responsabile del team a livello tecnico. Sopra di me ci sono Gariboldi, come team manager, e Marcus Freitas, che da anni &egrave; uomo HRC, il general manager che mantiene i contatti tra noi e il Giappone. Il lavoro &egrave; cambiato perch&eacute; in Cagiva dovevi montare le gomme, revisionare la forcella, facevi proprio tutto. Adesso invece c&rsquo;&egrave; chi ti porta il motore, la Pirelli fornisce le gomme, c&rsquo;&egrave; un tecnico giapponese per le sospensioni e un altro tecnico nipponico che si occupa soltanto dell&rsquo;elettronica. Lui fa la mappatura alla moto e noi inseriamo la schedina nella centralina. Anche per questo la gestione &egrave; pi&ugrave; rapida, non si lavora pi&ugrave; di notte come ai tempi della Cagiva&rdquo;. Persino l&rsquo;incidenza dell&rsquo;uomo appare agli antipodi, almeno a detta di Massimo: &ldquo;Ai tempi di pap&agrave;, le moto della 500 erano pi&ugrave; difficili da gestire e il pilota contava parecchio. Credo che nella Velocit&agrave; attuale il 70 percento lo faccia la moto, nell&rsquo;off-road le percentuali sono invertite. Le moto nel Cross si equivalgono pi&ugrave; o meno tutte, almeno considerando le ufficiali. Gajser pu&ograve; vincere ovunque, come era per Tony Cairoli. Il pilota &egrave; ancora molto pi&ugrave; importante della moto, anche se chiaramente, se guida un &lsquo;cancello&rsquo; non puoi pretendere che vinca&rdquo;. A differenza di Lucio, che ha conquistato sei titoli della 350 e 11 consecutivi della 500, dal 1964 al 1974 con Mike Hailwood (due), Giacomo Agostini (tredici) e Phil Read (gli ultimi due), il figlio ha trionfato in classi e con team differenti: &ldquo;I primi due Mondiali li ho vinti in 125 con la Cagiva, nel 1985 e nel 1986 con Pekka Vehkonen e Dave Strijbos. Con la Casa varesina ho fatto pure un anno nella Velocit&agrave;, nel 1990 con Randy Mamola, Ron Haslam e Alex Barros, e in inverno la Parigi-Dakar vinta da Edi Orioli. Nel 1992 in 250 ho conquistato il mondiale Cross con Donnie Schmit, al primo anno con Rinaldi, anche se non conoscevo nessuno e parlavo pochissimo l&rsquo;inglese&rdquo;. Un&rsquo;incombenza che il padre non ha mai avuto: &ldquo;Non parlavamo lingue straniere &ndash; conferma Lucio &ndash; ci pensava Magni, sia per confrontarsi con Hailwood e Read che per le trasferte&rdquo;. D&rsquo;altra parte lavorava per un&rsquo;azienda italiana, mentre Massimo ha a che fare con i giapponesi: &ldquo;Da un lato lavori bene perch&eacute; hai tutto ci&ograve; che serve, se ti dicono che domani arriveranno cinque motori stai sicuro che li avrai. Ma per far loro capire le cose serve tempo, il loro tempo di reazione &egrave; lungo&rdquo;. La possibilit&agrave; che la serie vincente continui con la terza generazione &egrave; per&ograve; esclusa, sentendo Massimo a cui pesano sempre di pi&ugrave; le lunghe attese in aeroporto: &ldquo;Ho un figlio che va in moto, ha passione e ha voluto provare a fare l&rsquo;aiuto meccanico. Alla fine ha scoperto che non &egrave; il suo mondo, troppi sacrifici, mentre i coetanei sono in giro a divertirsi: ha deciso di smettere e fa l&rsquo;operaio&rdquo;. Alla domanda su cosa serva per fare a lungo il meccanico in squadre cos&igrave; importanti, invece, i Castelli rispondono quasi all&rsquo;unisono, usando la stessa parola chiave: &ldquo;Se non hai passione&hellip; non ce la fai&rdquo;. Francesco Faraldo, l'inventore d'Oltremanica | Storie Italiane       

Due generazioni di pluricampioni del mondo dietro le quinte: Lucio ha trionfato 17 volte con MV Agusta, Massimo ha prevalso nell'off-road

Lucio e Massimo Castelli, i meccanici vincitutto | Storie Italiane

        Per narrare la storia del pi&ugrave; longevo trofeo motociclistico del Mondo basta navigare sul sito ufficiale della manifestazione ideata da Daniele Alessandrini e dal Moto Club Motolampeggio di Roma. L'intervista ad Andrea Liberini | Trofeo Italiano Amatori La storia del Trofeo Italiano Amatori   Il Trofeo Amatori nasce nel lontano 2005 ed &egrave; un debutto assoluto per la Velocit&agrave; italiana. La novit&agrave; nasce &ldquo;profumata&rdquo;: porta infatti con s&eacute; l&rsquo;odore invitante e casereccio della pasta al sugo che l&rsquo;organizzazione offre, nel paddock, a tutti i piloti iscritti. &Egrave; il segno di un modo diverso di concepire le competizioni, un po&rsquo; importato dalle gite in gruppo che Alessandrini organizzava con successo da anni, un po&rsquo; ispirato a un&rsquo;idea di community che distingue l&rsquo;agonismo dallo stare insieme e che non abbandoner&agrave; mai il trofeo. Il 2006 vede la manifestazione concretizzarsi con due classi separate, la 600 e la 1000, e disputarsi su quattro prove che si corrono negli autodromi di Magione, Vallelunga, Misano e Varano; vi aderisce un bel gruppo di piloti, in netta crescita rispetto all&rsquo;anno precedente, tra questi l&rsquo;imprenditore fiorentino Dante Del Vecchio, che disputa ininterrottamente tutte le edizioni fino il 2021, risultando cos&igrave; il pilota con il maggior numero di presenze nel Trofeo. L&rsquo;anno successivo le gare diventano cinque e per la prima volta entra a far parte degli autodromi il mitico Mugello, e probabilmente &egrave; proprio l&rsquo;inserimento del circuito iridato a decretare il successo della serie che registra un notevole incremento di piloti, tanto che nel 2008 il patron Alessandrini imprime una svolta storica alla formula, e divide entrambe le cilindrate in due griglie separate, la Base e la Avanzata. La distinzione avviene in base alle prestazioni dei piloti e questo crea un sostanziale equilibrio fra i concorrenti che devono anche utilizzare gli stessi pneumatici, le gare sono sempre pi&ugrave; equilibrate tanto che alla fine le quattro classifiche restano incerte fino all&rsquo;ultima prova. Nel 2009 si assiste a quattro gare combattute con arrivi al fotofinish. Non ci sono variazioni particolari nel 2010 e gli autodromi rimangono invariati, ma &egrave; un episodio meteorologico a far ricordare questa edizione. In occasione della gara di Franciacorta, durante le prove del sabato mattina, una tromba d&rsquo;aria si abbatte sul paddock sollevando non soltanto le tende, ma anche alcune moto che vengono scaraventate addirittura sulla collinetta soprastante. L&rsquo;alacre lavoro degli organizzatori e di tutti i presenti consente di effettuare comunque le gare la domenica, sotto uno splendido Sole. Grandi novit&agrave; nel 2011: nasce infatti la Pro K 600 e 1000 che si disputa nel contesto delle sei prove della Coppa Italia, tutte su circuiti lunghi, mentre le gare delle quattro categorie storiche rimangono all&rsquo;interno della Coppa FMI e si disputano su cinque appuntamenti all&rsquo;interno dei quali continua a essere presente Franciacorta. Il 2012 segna la fine degli impegni in Coppa FMI. Undici appuntamenti in pista in appena cinque mesi sono un carico di lavoro notevole per lo staff di Alessandrini, cos&igrave; tutte le classi passano alla Coppa Italia e si torna a gareggiare anche a Varano. Nell&rsquo;edizione 2014 non ci sono variazioni importanti sia nel numero di prove che a livello di regolamenti, se non che vengono istituite in tutte le classi diverse sottocategorie, quali Under, Over e altre che comunque garantiscono a tanti piloti di assaporare la gioia del podio in ogni gara. Dal 2015 i round diventano sei con sette gare per ogni classe con possibilit&agrave; di uno scarto, dato che si corre a rotazione anche il sabato pomeriggio. L&rsquo;idea &ldquo;garantisce&rdquo; quei piloti che non possono prendere parte a una prova o che incappano in cadute o guasti meccanici, permettendo loro di scartare il risultato peggiore senza compromettere il campionato. La scelta del patron Alessandrini si rivela molto apprezzata e il Trofeo si conferma come il campionato pi&ugrave; frequentato del panorama motociclistico internazionale. Trofeo Italiano Amatori in continua evoluzione  Non vi sono cambiamenti sostanziali per i successivi quattro anni ma nel 2019 arriva la divisione dell&rsquo;affollata 1000 Base in due categorie, la A e la B, e questa comprende il neonato Rookie Challenge. Nel 2020, dopo la pandemia, Alessandrini decide che &egrave; giunto il momento di ritoccare le classi. Scompare la 600 Avanzata, a seguito della costante diminuzione d&rsquo;interesse che fa registrare questa cilindrata, mentre nella 1000, alle storiche Base e Avanzata va ad aggiungersi la Superior (exPro), una sorta di classe regina molto performante nella quale si confrontano anche i giovani &ndash; ma con innata abilit&agrave; &ndash; e altri piloti di esperienza, magari con alle spalle anche carriere sportive di rilievo. Si conferma poi il successo della Rookies 1000, il trofeo riservato ai debuttanti che, visti i numeri, ha una propria griglia. Nonostante la crisi che attraversa la societ&agrave; italiana (e lo sport), i piloti del Trofeo Italiano Amatori non mollano e anche nel 2021 i numeri si mantengono molto alti: nasce nella 600 Base la sottocategoria dei Rookies (sempre per piloti esordienti, inesperti o pi&ugrave; lenti) e poi una nuova griglia, Rookie Challenge 1000 Pro, un minicampionato che si corre soltanto su tre gare, con impegno e costi ridotti. Si pu&ograve; arrivare in autodromo addirittura il sabato mattina, ratificare le iscrizioni poi effettuare i turni di qualifica e correre alla domenica. Ancora una volta il Promoter ci ha visto giusto, la formula &egrave; vincente tanto che le griglie vanno quasi esaurite in tutte le gare. &Egrave; questo l&rsquo;anno del record di categorie, con ben otto titoli assegnati a fine stagione, tre nella 600 (Base, Rookie e Pro) e cinque nella 1000 (Base, Avanzata, Superior, Rookie Challenge e Rookie Challenge Pro). Ma chi pensava che le categorie si stabilizzassero, sbagliava; infatti, la stagione 2022 si apre con la novit&agrave; del Rookie Challenge della 600 Base e un nuovo regolamento tecnico pensato da Daniele Alessandrini per la Superior Cup. Altra scommessa vinta, salgono cos&igrave; a nove i piloti che a fine stagione occupano il gradino pi&ugrave; alto del podio dei campionati marcati Trofeo Italiano Amatori. La cui storia &egrave; lunga quanto ricca di successo. Coppa Italia: il calendario 2023       

Capace di rinnovarsi ogni anno, la serie ideata da Daniele Alessandrini sta battendo ogni primato di longevit&agrave;

Trofeo Italiano Amatori, una storia fatta di record | Storie Italiane

        Luca Cadalora, Luciano Pavarotti. Di Modena, entrambi. Uno veleggiava con la voce sopra orchestre di legni e ottoni, l&rsquo;altro si faceva accompagnare dal sibilo plurale di due e quattro cilindri accordati all&rsquo;unisono. La Storia Sprint di Luca Cadalora   Mondi apparentemente distanti, i loro, dalla quiete dei camerini alla frenesia dei box, dalla misura del palco agli eccessi della pista. Eppure, un punto d&rsquo;incontro c&rsquo;&egrave; stato. Il pilota emiliano si &egrave; ritrovato a intonare alcuni passi d&rsquo;opera proprio come il concittadino, anche se a modo suo e in contesti del tutto diversi. &Egrave; successo a cena, nelle tavolate con cui il Team Roberts, impegnato in 500 con la Yamaha, chiudeva le sue domeniche migliori. Era la prima met&agrave; degli anni &rsquo;90: il boss della squadra dei tre diapason, Kenny, dell&rsquo;Italia amava non soltanto il cibo e il vino, ma anche la musica. E cos&igrave;, in quel clima di festa, incoraggiava Cadalora per farsi cantare qualche verso. Fra un &ldquo;&lsquo;O Sole Mio&rdquo; e un &ldquo;Nessun Dorma&rdquo; il modenese ha sfoggiato il suo lato pi&ugrave; radioso, anche se in altre occasioni ammette di essere stato un personaggio difficile, talvolta scorbutico, persino scomodo. Iridato nella 125 nel 1986 e autore di una doppietta in 250 nel &rsquo;91 e &rsquo;92, nella classe regina ha assaporato l&rsquo;agrodolce soddisfazione di chi si cimenta nella sfida impossibile: dopo tre anni alla corte di Roberts, in sella alle YZR ufficiali marchiate Marlboro, ha mandato al diavolo l&rsquo;americano e si &egrave; presentato in griglia con una Honda privata e senza un main sponsor. Nello schieramento multicolore del 1996, fra lampi fluorescenti e azzardi grafici, la sua carena bianca e spoglia appariva come un&rsquo;involontaria e sfacciata provocazione. Nel mirino dell&rsquo;italiano c&rsquo;era il grande numero uno del periodo, Mick Doohan, inarrestabile sulla NSR 500 ufficiale. Cadalora l&rsquo;ha fatta grossa: &egrave; riuscito a vincere il primo round della stagione creando un piccolo terremoto e calamitando qualche antipatia. A 30 anni dal suo approdo definitivo in top class, e in vista delle 60 candeline che spegner&agrave; in maggio, Cadalora si guarda indietro per raccontare armonie e dissonanze di una carriera da 34 vittorie nelle tre classi, di cui otto in 500. Luca Cadalora: l'intervista  Quella stagione, il 1996: una follia? &ldquo;Ho sempre seguito il cuore, nelle mie scelte. Mi sentivo di fare questa cosa e sono andato avanti. &Egrave; stato un azzardo. Una stagione di ribellione. Mi opposi a certe scelte del team con cui correvo, gestito dal tre volte campione del Mondo Kenny Roberts&rdquo;. Era la struttura ufficiale Yamaha con cui avevi esordito nel 1993, al fianco del campione del Mondo in carica Wayne Rainey: perch&eacute; avvenne il divorzio? &ldquo;Volevo correre con le gomme Michelin, come la stragrande maggioranza della griglia. Non averle costituiva un handicap, anche se ero gi&agrave; arrivato secondo nel Mondiale e avevo vinto diverse gare. C&rsquo;era un&rsquo;impressionante altalena di performance: in alcune piste i pneumatici funzionavano, in altre no. Quei tre anni con le Dunlop mi avevano logorato. Ero stanco&rdquo;. Da ufficiale dei tre diapason a privato in sella a una Honda: come fu il passaggio? &ldquo;Il primo test a Phillip Island fu disastroso. Non mi trovai affatto bene, con la base usata da Doohan. Feci pure un gran volo: mi si piant&ograve; una pedana nella coscia, sfiorandomi l&rsquo;arteria femorale. Un bel buco, drenaggio e via dicendo. Lasciai l&rsquo;Australia malconcio e preoccupato. La NSR non mi era piaciuta&rdquo;. Poi un secondo test, con questa moto che non sembrava funzionare come serviva a te. &ldquo;Andammo in Malesia, dove si sarebbe corsa la prima gara. Erv Kanemoto, il capotecnico che mi seguiva e che aveva gi&agrave; lavorato con me nei titoli vinti in 250, si era dato da fare per assecondare le mie esigenze. Finalmente, mi trovavo bene. Il tecnico ufficiale della Showa ci fece provare un sacco di roba per le sospensioni. Fece il massimo per assecondarmi, mi diede tutto. Probabilmente, serviva anche a lui...&rdquo;. Come si svilupp&ograve; a quel punto il rapporto con la Showa? &ldquo;Dissero che ci avrebbero fornito forcella e ammortizzatori dei piloti ufficiali. Ma occorreva pagare per avere materiale cos&igrave; speciale e diverso dallo standard. La cifra era esorbitante, tipo 150.000 dollari soltanto per la forcella. Il mio ragionamento: sono matti? Avevamo fatto diverse giornate di test, per far funzionare il loro materiale. E a loro vantaggio. Era quello, il modo di trattarci?&rdquo;. La prima gara, proprio in Malesia, a Shah Alam: cosa ricordi? &ldquo;Vinsi, ma dalla Honda non venne nessuno a complimentarsi. Sembrava avessimo fatto qualcosa di male. In quel momento compresi che sarebbe tata tosta, da l&igrave; in avanti. Mi ero messo dietro Doohan e ci&ograve; aveva creato qualche rigidit&agrave;. All&rsquo;HRC faceva piacere se uno vinceva una gara ogni tanto, gli dava anche una mano, magari per la gara di casa". &nbsp; Luca Cadalora: cuore e coraggio  Cosa intendi con &ldquo;dare una mano&rdquo;? &ldquo;Assistenza. Magari a livello di sospensioni, come quella che avevo avuto nei test&rdquo;. Quindi, dopo la tua vittoria qualcuno si era indispettito. &ldquo;Non ci fu pi&ugrave; alcuna forma di supporto. Anzi, fu guerra. Ma noi reagimmo spiazzando di nuovo tutti. Prima del GP di Jerez, il quarto di una stagione che ne contava 15, chiedemmo all&rsquo;HRC di montare forcelle &Ouml;hlins, che si trovavano sul mercato. Noi avevamo le moto in leasing, eravamo tenuti a chiedere l&rsquo;autorizzazione alla Honda, che fra l&rsquo;altro era legatissima alla Showa, della quale avevamo declinato quell&rsquo;offerta economicamente cos&igrave; impegnativa. Ero convinto che prendendo le &Ouml;hlins, che saranno costate 9000 dollari e non 150.000, e lavorandoci noi, io ed Erv, saremmo andati meglio che con il materiale che ci avrebbe preparato la Showa&rdquo;. La Honda vi sbatt&eacute; la porta in faccia? &ldquo;Tutt&rsquo;altro: a sorpresa ci autorizz&ograve;. Andammo a Jerez e la gara fu una grande lotta fra me, Alex Criville e Doohan, che vinse. Lo spagnolo cadde (avvenne all&rsquo;ultima curva del GP ricordato per l&rsquo;incredibile invasione del pubblico negli ultimi due giri, nde) e io arrivai secondo con questa soluzione ibrida, la forcella &Ouml;hlins davanti e l&rsquo;ammortizzatore Showa dietro. Ero il primo dei privati: questo sollev&ograve; l&rsquo;attenzione degli altri team satellite. Alex Barros chiese subito le &Ouml;hlins. Insomma, avevo creato un altro problema&rdquo;. Quell&rsquo;anno vincesti anche in Germania, in volata proprio su Doohan. Negli ultimi giri sorpassavate i doppiati come birilli: vi prendevate dei rischi, eh? &ldquo;Fa parte delle corse. Erano battaglie all&rsquo;ultimo sangue, le nostre. Anche con Wayne Rainey, di cui sono stato compagno di squadra in Yamaha. Oppure Kevin Schwantz. Non sapevi mai cosa aspettarti, da loro. Era sempre una sorpresa. Dov&rsquo;era il limite, non si sapeva&rdquo;. A proposito di bagarre: il tuo arrivo in volata con Helmut Bradl a Misano nel 1991 &egrave; storia. Sulle 250, usciste dall&rsquo;ultima curva appaiati e vi appoggiaste l&rsquo;uno all&rsquo;altro, a gomiti larghi. Cosa si prova in momenti come quello? &ldquo;Diventi quasi un animale. Una belva. Non vale soltanto per me, ma per tutti i piloti. Quando i confronti sono cos&igrave; accesi sei disposto a qualsiasi cosa. Fa anche un certo effetto dirlo. Ma sai com&rsquo;&egrave;...&rdquo;. &Egrave; appagante vincere cos&igrave;? &ldquo;Il massimo della libidine, della trance agonistica. Adrenalina pura, ti d&agrave; una scossa incredibile. Sei riuscito a restare in piedi quando non c&rsquo;era pi&ugrave; margine&rdquo;. Tu, per&ograve;, non eri uno che guidava sopra i problemi. &ldquo;Se non sentivo la moto come piaceva a me, non riuscivo a dare il 100%. Ce l&rsquo;avevo dentro, era automatico. Andavo al 95%. L&rsquo;avevo imparato cadendo parecchio ai tempi della 125, ai miei inizi. Avevo fatto dei bei voli&rdquo;. Cosa chiedevi a livello di sospensioni? &ldquo;Ci sono piloti che sfruttano la dinamica di movimento della moto, per guidare. Altri invece la contrastano: vogliono un mezzo che si muove meno, pi&ugrave; rigido, per usare la forza nei movimenti. La mia guida era meno fisica, assecondava le inerzie, gli spostamenti, i cambiamenti di baricentro, di peso&rdquo;. Come ti sentivi, quando eri a posto con la messa a punto? &ldquo;Dava un gusto incredibile. Era come se la moto fosse un prolungamento del mio corpo. La sella diventava il mio sedere, collegato alla gomma posteriore. Le braccia un tutt&rsquo;uno con la forcella, fino alla ruota. Una sensazione davvero bellissima&rdquo;. &nbsp; Luca Cadalora, Kenny Roberts, Giacomo Agostini  &Egrave; vero che con Roberts, nella prima met&agrave; degli anni &rsquo;90, usavate gi&agrave; la videometria? &ldquo;Avevamo uno studio con la moviola, per mandare le immagini avanti e indietro, al rallentatore. Potevamo vedere, per esempio, se la mia forcella affondava del tutto in una determinata staccata e compararla con quella di Wayne&rdquo;. In 250 hai corso nel team di Giacomo Agostini, in 500 con Roberts e con un compagno di squadra come Rainey: da loro hai assorbito tanto? &ldquo;Se eri sveglio, imparavi parecchio. Ho avuto la fortuna di lavorare con gente che ha segnato delle epoche. Alcuni team, per&ograve;, li ho anche fatti tribolare. Non ero facile da gestire. Magari ero felice e poi avevo giornate storte. Se ero girato male, mi chiudevo in camera e non c&rsquo;ero per nessuno&rdquo;. &Egrave; vero che intonavi i pezzi d&rsquo;opera per Kenny? &ldquo;A lui piaceva molto sentire cantare in italiano. Pure il vino, apprezzava. E non soltanto. Davo il mio meglio. Quando le gare andavano bene, la domenica sera, tutto il team andava a cena, una trentina di persone. A turno, a un certo punto, ognuno si alzava e diceva o faceva qualcosa. In quei momenti, ho anche intonato qualche passo d&rsquo;opera&rdquo;. Hai lavorato con parecchie realt&agrave; non italiane e parlavi un buon inglese: di chi era il merito? &ldquo;Di Eddie Lawson: quando correvo in 250 per Agostini, lui era in 500 nella stessa struttura. Era un esempio per me. Mi ospit&ograve; a casa sua, a Upland, in California. Ogni tanto c&rsquo;erano i suoi amici e la sua ragazza, a volte eravamo soltanto noi due. Quindi imparare la lingua fu una necessit&agrave;. Deve avermi ascoltato quando chiamavo la mia famiglia, perch&eacute; a un certo punto inizi&ograve; a chiamarmi &lsquo;Ciao mama&rsquo;. Era la mia formula d&rsquo;esordio quando ero al telefono. Ci divertimmo un sacco, fu fantastico&rdquo;. Fra i tuoi rivali qualcuno ti ha svelato dei segreti, anche involontariamente? &ldquo;Imparai moltissimo da Toni Mang. Ricordo l&rsquo;87: ero all&rsquo;esordio in 250 e andavo a palla. La Yamaha sembrava fatta apposta per me. Mang aveva 37 anni, io 24. Pensavo: questo tedesco non va. Ad Anderstorp, in Svezia, sorpassavo tutti all&rsquo;esterno, lui compreso. La sua era una strategia: si era risparmiato, si era lasciato superare, ma all&rsquo;ultimo giro pass&ograve; davanti e col cavolo che riuscii a replicare. Compresi di dover imparare da lui: non serve andare sempre al 100%, a ogni curva, a ogni staccata&rdquo;. Come vivevi la competizione? &ldquo;Non ho mai corso contro qualcuno. Forse a inizio carriera, ma poi ho capito che non era la cosa giusta. Volevo essere il pi&ugrave; veloce, indipendentemente dagli altri. Correvo per me stesso. Altrimenti mi avrebbe creato uno stato d&rsquo;animo non ideale. Magari altri piloti cercavano quella motivazione l&igrave;, ma la mia carriera nasceva da una spinta positiva: per andare bene, dovevo essere sereno. Non potevo provare odio&rdquo;. Com&rsquo;era scattata la molla? &ldquo;Un giorno, da ragazzino, ero nel garage di casa e trovai delle riviste in cui si parlava di mio padre. Era stato un pilota, negli anni &rsquo;50, e c&rsquo;erano delle sue foto sul podio: fino a quel momento, per&ograve;, non avevo mai sentito parlare di questo aspetto della sua vita. Gli chiesi: &lsquo;Ma sei tu questo? E come mai hai smesso?&rsquo;. Mi spieg&ograve; che era la sua passione, ma poi aveva conosciuto mia madre e messo su famiglia, doveva lavorare per sostenerci, cos&igrave; aveva abbandonato. Ci&ograve; fece nascere in me l&rsquo;idea di fare qualcosa a cui mio padre aveva dovuto rinunciare. &Egrave; la motivazione che mi ha spinto sempre. Fino alla fine&rdquo;. Calendario MotoGP 2023       

La storia del pilota emiliano, raccontata in questa intervista esclusiva

Luca Cadalora: il pilota che ha sempre seguito il cuore | Storie Sprint

        Per gli appassionati di gare stradali l&rsquo;Isola di Man &egrave; ci&ograve; che la Mecca rappresenta per i musulmani: una localit&agrave; da visitare almeno una volta nella vita. Rapiti dall&rsquo;atmosfera, tantissimi appassionati ci sono voluti tornare. Il trentenne originario del senese Francesco Faraldo &egrave; andato oltre, trasferendosi sull&rsquo;isola per sviluppare meglio l&rsquo;attivit&agrave; di costruttore artigianale di moto da corsa. La storia di Francesco Faraldo   &ldquo;A fine 2015 sbarcai sull&rsquo;isola, con la mia ragazza Helena e il furgone &ndash; racconta Faraldo &ndash; stavamo a Port Erin e lavoravo nella ristorazione. Restammo un anno intero ma volevo tornare in Italia per costruire qualcosa. Lass&ugrave; non avevo un garage, cos&igrave; al rientro in Toscana iniziai ad allestire una Supertwin. Provando e riprovando, dato che sono un autodidatta, ho imparato a fare le carene e l&rsquo;impianto elettrico&rdquo;. In precedenza avevi corso? &ldquo;S&igrave;, a 18 anni, disputai tre stagioni nella Salita con un&rsquo;Aprilia RS 125, una moto molto economica. I primi due anni&hellip; insomma, poi al terzo feci un podio all&rsquo;ultima gara. Un altro podio, ma in condizioni particolari, l&rsquo;avevo conquistato alla stagione d&rsquo;esordio. Non sono mai stato un grande pilota e non ho mai avuto il budget giusto&rdquo;. In pista niente? &ldquo;Soltanto nel 2015, nel monomarca Yamaha 125: podio alla prima gara e poi sempre peggio. Ai tempi lavoravo in un ristorante, in sala, nel 2013 e 2014 ero stato anche a Londra, passando in cucina&rdquo;. Torniamo alla tua attivit&agrave; di costruttore. &ldquo;Il mio lavoro principale &egrave; rappresentato dalle carenature, dagli impianti elettrici e dai telaietti in alluminio, non faccio niente di meccanica. Non ho macchinari, tranne un piccolo tornio. Quello che faccio &egrave; tutto manuale, la vetroresina non ha bisogno di attrezzature, e uso il carbonio soltanto per piccoli pezzi come il parafango&rdquo;. La tua prima creatura? &ldquo;Una Supertwin su base Kawasaki, nel 2018: l&rsquo;anno prima ero andato al TT per fare volantinaggio cos&igrave; da vendere i miei prodotti. Mi accordai con Rikki McGovern, io gli davo la mia moto, lui doveva metterci il motore. And&ograve; male, alla NW 200 si ruppero due motori, al TT un altro. Per fortuna all&rsquo;Isola di Man conobbi Derek McGee&rdquo;. La tua svolta. &ldquo;Preparai una Moto3 con motore Honda 250 e gliela affidai. Derek &egrave; il miglior pilota d&rsquo;Irlanda anche se da noi &egrave; poco conosciuto. Nel 2019 mi trasferii in Irlanda del Nord per seguirlo tutto l&rsquo;anno. L&rsquo;intenzione iniziale era di vivere in Irlanda ma era troppo cara, cos&igrave; prendemmo casa a Moira, a una trentina di chilometri da Belfast, in affitto dagli sponsor di Derek. Vincemmo tutte le gare stradali a cui partecipammo. Non avevo ancora aperto l&rsquo;azienda ma gi&agrave; producevo carenature e mi feci un po&rsquo; di clienti&rdquo;. Francesco Faraldo e la scelta della Moto3  Come mai la Moto3? &ldquo;La 600 e la Mille non mi fanno impazzire perch&eacute; sono popolari e tutto ci&ograve; che &egrave; popolare non mi piace. Desideravo conoscere tutta la tecnologia della Moto3 e fare qualcosa di diverso. In Italia gi&agrave; esistono le 450, in Irlanda non sapevano cosa fossero&rdquo;. Perch&eacute; le tue carene hanno successo? &ldquo;In Irlanda i piloti usavano carene oscene, io invece ho puntato su modelli Moto2 e MotoGP. Ho preso dalla Repubblica Ceca delle carene MotoGP replica e le ho adattate. La maggior parte, per&ograve;, qui le usano per le Supertwin&rdquo;. L&rsquo;esperienza in Irlanda del Nord non &egrave; stata tutta rose e fiori. &ldquo;Siamo andati via perch&eacute; l&rsquo;accento locale &egrave; veramente difficile, parlano proprio male e non si sforzano di aiutarti. Stavamo perdendo tutto l&rsquo;inglese appreso. Per fortuna i miei piloti, come Derek, sono dell&rsquo;Irlanda del Sud ed &egrave; davvero un altro parlare&rdquo;. Hai avuto rapporti con le celebrit&agrave;? &ldquo;Evito le persone famose perch&eacute; devi dar loro la moto gratis. E invece &egrave; giusto che i piloti paghino perch&eacute; noi abbiamo delle spese e non riesco assolutamente a trovare sponsor, anche vincendo i campionati, in parte perch&eacute; sono moto piccole e poi perch&eacute; le sponsorizzazioni non vanno in base alla bravura ma alla conoscenza. Ho mandato 70 e-mail, mi han risposto in quattro, tutti no. Ho soltanto un paio di sponsor ma non ho tempo per &lsquo;vendere&rsquo; me stesso, sto in officina dalle sette alle 21, sette giorni su sette. Comunque da me le moto gratis non le vedono&rdquo;. E poi la questione con i Dunlop. &ldquo;Ho dovuto combattere con il figlio di Joey, Gary, che gareggiando nella mia categoria voleva farmi squalificare da tutte le gare, ma essendo io in regola non ci &egrave; riuscito&rdquo;. Nel 2020 un&rsquo;altra inversione. &ldquo;Ci siamo spostati a Douglas, sull&rsquo;Isola di Man. La vita &egrave; molto cara ma sono riuscito ad aprire la societ&agrave; in un giorno, senza commercialista n&eacute; spese. In Italia ci avevo provato, avevo sentito quattro commercialisti e ognuno diceva cose diverse, troppa burocrazia. Inoltre qui, anche se sono straniero, i clienti vengono e comprano: non conta chi sei, viene apprezzato ci&ograve; che fai&rdquo;. Passa alla prossima pagina &nbsp; Francesco Faraldo: il ritorno in sella  E sei anche tornato in sella. &ldquo;Nel 2020 con la Moto3 ho corso a Jurby, sull&rsquo;Isola di Man, e ho vinto sei gare su sette. Mi sono ripetuto l&rsquo;anno dopo con una 450 autocostruita. Nel 2022, invece, ho fatto correre il newcomer Keelim Ryan nella Lightweight Supersport e abbiamo vinto il campionato irlandese. Quest&rsquo;anno ho preparato quattro moto, investendo veramente tanto, avevo gi&agrave; i piloti. L&rsquo;idea era di noleggiare queste moto e venderne tre a fine anno. Ma poi si &egrave; fermato tutto (per la questione dei costi delle assicurazioni, nde). Sono deluso, perch&eacute; fino al giorno prima la Federazione irlandese mi diceva di stare tranquillo&rdquo;. Di chi &egrave; la colpa? &ldquo;Ci sono sempre quattro-cinque spettatori che chiedono risarcimenti perch&eacute; fingono di scivolare nei prati a bordo strada e, come loro, alcuni piloti caduti sul bagnato l&rsquo;anno scorso hanno denunciato i Moto Club. &Egrave; normale che l&rsquo;assicurazione aumenti. Credo che quest&rsquo;anno si correranno soltanto la NW 200 e le gare ad Armoy&rdquo;. E tu che farai? &ldquo;Mi concentro sull&rsquo;Isola di Man, io correr&ograve; a Jurby e poi con le quattro moto faremo la Southern 100 e il Manx GP&rdquo;. Qual &egrave; il tuo sogno? &ldquo;Come avrete capito, sono abbastanza strano e non amo le etichette. Vincere &egrave; facile, basta avere tanti soldi e costruire la moto migliore, con i migliori componenti. Non &egrave; quello il mio obiettivo, io voglio fare cose particolari e sono soltanto all&rsquo;inizio&rdquo;. Calendario MotoGP 2023       

La storia di Faraldo: "Da pilota e autodidatta, mi sono trasformato in costruttore per le road races"

Francesco Faraldo, l'inventore d'Oltremanica | Storie Italiane

        &Egrave; sempre alla ricerca del punto giusto dal quale osservare al meglio la zona. Non ha problemi a scalare un ripido pendio con un altoparlante portatile in una mano e il microfono dall&rsquo;altra. La sua voce accompagna le manifestazioni da quando sale sul palco di partenza il primo concorrente, fino alla conclusione della premiazione. Commenti tecnici e aneddoti raccontati a braccio, senza alcuna scaletta. Dietro quella voce, sottofondo di ogni evento, si nasconde un appassionato di moto e motori. Oscar Malugani, voce ufficiale del Trial italiano, per una volta passa dal ruolo di intervistatore a quello di intervistato. Giuseppe Fiorillo: campione, nonostante tutto | Storie Italiane La storia di Malugani   Oscar, da moltissimi anni racconti e presenti il Trial al pubblico attraverso il microfono: raccontaci la tua storia. &ldquo;Nasco il 2 Gennaio 1956 a Lecco, una citt&agrave; fortemente legata al Trial. Ho studiato fino alle scuole professionali, purtroppo per&ograve; a 17 anni mio pap&agrave; venne a mancare e per sostenere le spese familiari andai a lavorare alla CEA Saldatrici di Lecco&rdquo;. Com&rsquo;&egrave; nata la passione per le due ruote e cosa ti ha portato a commentare il Trial? &ldquo;Grazie a mio padre che port&ograve; me e mio fratello a vedere una gara. Dopo quell&rsquo;esperienza conobbi Gianvittorio Malugani e iniziai a praticare il Trial. L&rsquo;inizio come speaker di gare avvenne, come spesso accade, per caso. Un giorno Fulvio Adamoli, campione italiano e primo pilota tricolore a conquistare punti nel Mondiale, mi propose di seguirlo a Rho, dov&rsquo;era stato organizzato un Indoor. La manifestazione era ben organizzata, c&rsquo;era il DJ, che oltre a mettere la musica commentava i passaggi dei piloti, ma a modo &lsquo;suo&rsquo;. A 22 anni sei pieno di passione e, stufo di sentire certe castronerie, raggiunsi il palco e gli dissi: &lsquo;Certo che le cose serie non le sai dire!&rsquo;. Lui rispose alla provocazione e mi invit&ograve; a salire sul palco e iniziai a commentare. Adamoli rimase a bocca aperta. Non sapeva che lavoravo gi&agrave; in una piccola emittente locale, TeleLecco, e che avevo dimestichezza con il microfono".  Da quel giorno a Rho non ti sei pi&ugrave; fermato.  "Da allora ho partecipato in veste di speaker a un totale di 56 edizioni di Mondiali, tra Trial delle Nazioni ma anche Superbike a Monza e Motomondiale. Ho fatto un conto; ho superato le 1000 gare&rdquo;. Una carriera di ben 42 anni: hai commentato molte generazioni di piloti! &ldquo;Dalle prime esperienze ai tempi di Baldini e Tosco fino ai piloti moderni. Ho lavorato con lo Show Action Group per otto anni. Dal &rsquo;78 ho sempre frequentato il Trial, dove ho visto tutti i coordinatori, dal Cavalier Allemandi fino all&rsquo;attuale Cavaglieri. Ho vissuto le bellissime collaborazioni da speaker con Alberto Piombo e Roberto Rossi. L&rsquo;ultima esperienza singolare l&rsquo;ho vissuta pochi mesi fa: durante una premiazione di gara, ho presentato una&hellip; proposta di matrimonio&rdquo;. La carriera da pilota  Com&rsquo;&egrave; stato il tuo percorso da pilota? &ldquo;Mio padre sapeva che avevo la passione per la moto e la velocit&agrave;, allora mi prepar&ograve; la moto che mi piaceva, la Motom 48, montandogli una corona molto grande, per evitare che facessi disastri! Successivamente mi regal&ograve; una Gilera 50 5V Trial. Seguirono i miei primi acquisti: una Bultaco, una Ossa e una SWM 350. Dopo &egrave; iniziato il mio amore per la Fantic. Poi sono passato ad altre moto stradali ed Enduro&rdquo;. Hai partecipato a qualche gara? &ldquo;Il mio passato agonistico nel Trial &egrave; legato a qualche garetta regionale senza ambizioni di classifica&rdquo;. La tua passione ti ha reso anche autore di libri. "Ho scritto tre libri. La Ballabio-Piani Resinelli, una gara in salita che si svolgeva nel lecchese. E due opuscoli sulla storia della Moto Guzzi. Mi piacerebbe fare un almanacco del Trial e uno sulla Fantic&rdquo;. Quali gare ti sono rimaste impresse nella mente? &ldquo;Tantissime. Il mondiale Trial di Chiampo, quello di Ponte di Legno e il Trial delle Nazioni all&rsquo;Autodromo di Monza. Poi il Trial Indoor di Bolzano, un evento che raccontai per una decina di anni. E ancora i Mondiali in Valsassina e gli eventi con grande partecipazione di pubblico! Ricordo con piacere il Nazioni a Piano Rancio dove debuttai in campo internazionale. E poi i mondiali Indoor al Forum di Assago&rdquo;. Cosa sogna per il suo futuro? Leggilo nella prossima pagina! &nbsp; Sogni e aneddoti  Un tuo sogno legato al mondo del Trial? &ldquo;Mi sarebbe piaciuto vedere una gara con al via tutti assieme Diego Bosis, Donato Miglio e Matteo Grattarola&rdquo;. Questi piloti sono anche gli unici italiani a essersi aggiudicati giornate di gara nel Mondiale; definiscili con un aggettivo. &ldquo;Il migliore in assoluto &egrave; Bosis, il pi&ugrave; istintivo &egrave; Grattarola e il pi&ugrave; scientifico &egrave; Miglio&rdquo;. Hai tifato per qualche pilota in questi anni? &ldquo;Mick Andrews. E Bosis, un talento innato, Miglio, il professore per la guida perfetta e Grattarola, che non smette mai di sorprendere. A lui mi lega un aneddoto particolare: era appena transitato in una zona e alcuni ragazzi commentavano il gesto atletico. A un certo punto si avvicina una signora e mi chiede: &lsquo;Ma perch&eacute; questi stranieri tifano Grattarola?&rsquo;. Sorrisi, perch&eacute; erano dei ragazzi di un paese l&igrave; vicino e parlavano in dialetto&hellip;&rdquo;. Qual &egrave; un altro aneddoto che ti caratterizza? &ldquo;A 14 anni per avere i soldi della benzina andai a lavorare, trovai posto in una piccola azienda che seguiva la manutenzione di macchine da scrivere e timbratrici. Tra i clienti c&rsquo;era anche la Fantic e mi recavo molto volentieri a Barzago. Con la scusa della manutenzione giravo per la fabbrica; ero super appassionato, per&ograve; ogni volta mi perdevo. Cos&igrave; venivo riportato negli uffici o luoghi dove dovevo svolgere il mio lavoro&hellip;&rdquo;.       

"Ho superato le mille gare commentate, ma mi sarebbe piaciuto vedere Bosis, Miglio e Grattarola nella stessa epoca"

Oscar Malugani, la voce del Trial italiano | Storie Italiane

        Nell&rsquo;elicottero che il 22 marzo 1985 sorvola i tetti di Johannesburg, la citt&agrave; pi&ugrave; popolata del Sud Africa, c&rsquo;&egrave; un uomo con quattro costole rotte, fratture a un piede e una spalla, un ginocchio malandato e una commozione celebrale. Christian Sarron &egrave; rotolato a terra mentre tentava di ottenere la pole position al suo primo GP dopo il ritorno in 500, il primo GP da campione del Mondo uscente della 250. Kyalami &egrave; la pista sulla quale ha grippato in entrata di curva, e l&rsquo;immagine finale &egrave; quella della carenatura blu della Yamaha sponsorizzata Gauloises a brandelli sul prato della via di fuga. Randy Mamola, il pi&ugrave; amato tra gli eterni secondi La tenacia di Sarron   L&rsquo;atterraggio all&rsquo;ospedale, gli esami e un dottore che scuote il capo: domani non si corre. O almeno, non sarebbe consigliato. Perch&eacute; il francese &ndash; 30 anni da compiere la settimana successiva &ndash; &egrave; fatto di una pasta particolare. Quella che si modella ma non si spezza, si adatta senza perdere la consistenza che la rende cos&igrave;, tenace e apparentemente eterna, a prova di fuoco e fiamme, bombe e batoste. Proprio come quella inflitta dalla sua YZR quando la ruota posteriore si &egrave; improvvisamente bloccata. E cos&igrave;, il giorno dopo, eccolo l&igrave; in griglia: barcollante ma vigile, decisamente ambizioso e quasi sfacciato. Ma con quante possibilit&agrave; di fare bene? E ancor peggio: quante di avviare il motore a spinta (come prevede la partenza delle gare in quel periodo), dopo quel bollettino medico? Nonostante tutto, scesa la bandiera a scacchi le classifiche della classe regina parleranno di un pilota arrivato sesto dietro a veterani come Eddie Lawson e Freddie Spencer, mentre cronache e memorie riconsegneranno le gesta di un gallo da combattimento che ha saputo beccare al collo le star statunitensi del Motomondiale e impensierirle davvero, anche se spesso ha tenuto la cresta bassa: da quel giorno, sono sei le stagioni di militanza in top class, altrettante pole position e una vittoria sul bagnato, dove sa dare il meglio, l&rsquo;unica vittoria non americana o australiana in 500 nell&rsquo;arco di 83 GP in un periodo tra fine 1982 e met&agrave; 1989. A condizionare la carriera di Sarron, una slanciata fede nel potere della mente ma anche tanti complessi di inferiorit&agrave;, moto non ufficiali, pneumatici di serie B e un grande tradimento che gli tarpa le ali, e spezza il cuore, sul pi&ugrave; bello. Il racconto del pilota francese  Fresco campione del Mondo, torni in 500, ma la partenza &egrave; con il botto: cosa ricordi? &ldquo;Ci sono diverse premesse da fare. Innanzitutto, prima di salire sulla mezzo litro per il primo GP della stagione 1985 non avevo fatto nemmeno un test. Mai provata la moto, a Kyalami la vedevo per la prima volta. Dal Giappone, le mie YZR erano state spedite direttamente in Sud Africa e i meccanici erano nella mia stessa situazione. Partivano da zero: il grippaggio fu una conseguenza della loro inesperienza sul mezzo. In gara, anche se ero tutto acciaccato, il problema pi&ugrave; grande fu il calore diffuso dagli scarichi, reso estremo dal caldo sudafricano. Con tutte quelle ossa rotte non ero in grado di spostarmi sulla sella come sarebbe servito. Le gambe erano un disastro: le sentivo andare a fuoco&rdquo;. Appena due gare pi&ugrave; tardi, la vittoria. &ldquo;Hockenheim, dove pure scattai in maniera pietosa. All&rsquo;inizio la visibilit&agrave; era limitata dall&rsquo;acqua in pista: non si vedeva quasi niente, ma bisognava tenere aperto. Fui in grado di risalire nel gruppo abbastanza alla svelta. Una volta lontano dagli spruzzi dell&rsquo;acqua, con la visuale libera, davanti avevo soltanto Spencer sulla Honda, che aveva creato un bel margine. Lo andai a prendere e a otto giri dalla fine lo superai nell&rsquo;ultima parte della pista, all&rsquo;esterno. Quel giorno mi veniva tutto naturale&rdquo;. Sul bagnato eri uno dei pi&ugrave; veloci: perch&eacute;? "Come sull&rsquo;asciutto, il segreto era trovare subito il limite all&rsquo;anteriore e al posteriore, in ogni curva. Poi, il problema era non esagerare: pi&ugrave; facile a dirsi che a farsi. Dicevo a me stesso: se sai qual &egrave; il grip, non ci saranno sorprese. Era anche un esercizio psicologico: l&rsquo;erogazione delle nostre 500 a due tempi faceva paura anche senza la pioggia, figuriamoci sul bagnato. Le chiamavano &lsquo;le inguidabili&rsquo;. Eravamo tutti sulla stessa barca: sapevo che, riuscendo a controllare la fifa, avrei avuto un vantaggio. Probabilmente approfittavo anche del mio stile di guida, composto e pulito&rdquo;. Americani e australiani erano spesso di traverso, vero? &ldquo;Sapevano derapare, anche perch&eacute; avevano fatto tanto Motocross e sterrato. Io non ne ero capace, non mi allenavo in quel modo. Sotto questo aspetto mi consideravo inferiore. E poi loro correvano da quando erano ragazzini, io avevo iniziato a 20 anni. Avevo meno esperienza&rdquo;. Passa alla prossima pagina per l'intervista integrale &nbsp; Occasioni sprecate, ma senza rimpianti   Ancora sotto l&rsquo;acqua, a Spa-Francorchamps, hai sprecato un&rsquo;occasione d&rsquo;oro. &ldquo;Anno 1988, eravamo andati via io e Wayne Gardner, sulla Honda. Lawson, terzo, a un certo punto aveva qualcosa come trenta secondi di distacco o gi&ugrave; di l&igrave;. Commisi un errore: iniziai a pensare nel modo sbagliato. Visto che il mio diretto rivale aveva pneumatici pi&ugrave; morbidi dei miei e la pista andava asciugandosi dopo la grande pioggia, stavo giocando d&rsquo;attesa per attaccarlo all&rsquo;ultimo giro. Paradossalmente, per me era troppo facile stargli dietro. Finii per distrarmi e commettere una stupidaggine. La striscia bianca a bordo pista: ci andai sopra e&hellip; bum, a terra&rdquo;. In quel GP avevi ottenuto la terza di cinque pole consecutive. Eri il re del sabato, ma poi in gara partivi sempre male. &ldquo;Alla prima curva, la volta in cui and&ograve; meglio, fui sesto oppure ottavo. A un certo punto era diventata un&rsquo;ossessione e partivo sapendo gi&agrave; che sarebbe andata male. E poi, riguardando le immagini in TV parecchi anni dopo, mi sono accorto che ero troppo onesto. A quanto pare ero uno dei pochi a non voler rischiare una partenza anticipata. I furbetti erano tanti, non c&rsquo;era un sistema per verificare questi episodi come succede oggi. Insomma, ero sempre in ritardo&rdquo;. Dal 1987 il Mondiale &egrave; passato al via con il motore acceso, com&rsquo;era invece con la partenza a spinta? &ldquo;Per me era anche peggio. Non ne capivo il senso: perch&eacute; lottare per un decimo in qualifica e poi avere un sistema che ti fa perdere due o tre secondi al via? In tutto quel marasma, con il frastuono dei motori degli altri piloti che si avviavano attorno a me, non riuscivo a distinguere il rombo della mia moto e dosare il gas di conseguenza. In ogni modo, la prima delle cinque pole consecutive dell&rsquo;88 l&rsquo;avevo ottenuta in Austria, a Salisburgo. Scattai malissimo, nel primo giro sorpassai qualcosa come dieci piloti e mi ritrovai quarto: ora posso rilassarmi un po&rsquo;, il mio pensiero, ma in una variante la pedana interna si infil&ograve; in una buca di 4-5 centimetri fra due cordoli e volai via&rdquo;. Ti costringevi a essere sempre esplosivo nel corso del primo giro. &ldquo;Ne ricordo la sensazione di estrema libert&agrave;. Non c&rsquo;erano traiettorie da assecondare. Era pura improvvisazione. Passavo all&rsquo;interno, all&rsquo;esterno, in staccata. Dove capitava. Spingevo come un matto. Ma cos&igrave; mettevo anche a dura prova i pneumatici&rdquo;. L&rsquo;ultima delle cinque pole consecutive arriv&ograve; nel tuo GP di casa, dove la vittoria sfugg&igrave; per un pelo. &ldquo;Nella gara del Paul Ricard volevo scappare, ma il rettilineo era lunghissimo e spesso gli ufficiali mi sorpassavano di motore. Era frustrante, ma ci ero abituato. Riuscivo a malapena a tenere la scia di Lawson, che era su una Yamaha come me, ma Factory. Nessuna possibilit&agrave; di affiancarlo, figuriamoci di superarlo. E non parlo soltanto di quella gara. In quel GP ero nel gruppo di testa, mi ero scambiato qualche sorpasso aggressivo proprio con Eddie. Lui era in corsa per il titolo contro Gardner, che aveva preso un leggero margine su di noi. A un certo punto Lawson mi fece un gesto con la mano: lo interpretai come un invito a non infastidirlo troppo, vista la posta in palio. Anche se la Yamaha non aveva dato indicazioni. All&rsquo;ultimo giro, con il secondo posto in ballo, decisi di non attaccarlo. Poi cambi&ograve; tutto, poich&eacute; Gardner ruppe. La vittoria divenne improvvisamente alla portata&rdquo;. Attaccasti Lawson? &ldquo;Mancavano poche curve e non ero preparato. Infilarmi avrebbe significato rischiare un pasticcio con Eddie. Il mio fu un gesto di rispetto verso la Yamaha&rdquo;. Te ne sei pentito? &ldquo;No, io sono fatto cos&igrave;&rdquo;. La Yamaha non ti ha mai trattato da ufficiale? &ldquo;La mia posizione era di &lsquo;importer rider&rsquo;, non di &lsquo;factory rider&rsquo;. Correvo per il loro partner francese, Sonauto. Quindi le nostre YZR a inizio anno erano uguali alle ufficiali. Poi, per&ograve;, gli altri ricevevano gli aggiornamenti e io niente. Parliamo di parecchio materiale a ogni GP. Marmitte, sospensioni, evoluzioni del motore e cos&igrave; via. E poi, loro facevano i test e io no&rdquo;. Nemmeno in inverno? &ldquo;Niente&rdquo;. Cosa facevi nei mesi di stacco dalle gare? &ldquo;Mi tenevo in forma fisicamente. Ma soprattutto lavoravo sulla mente. Una delle routine che avevo elaborato riguardava la memorizzazione e la ripetizione di un giro di pista ideale, perfetto. Ripercorrevo tutti i movimenti da eseguire, metro dopo metro: la pressione del piede destro sulla pedana, la posizione del sedere, la direzione dello sguardo, gli oggetti che prendevo come riferimento lungo il percorso, per esempio un segnale. E poi le traiettorie, il modo di ruotare la manopola del gas. Immaginavo tutto al rallentatore: per ripercorrere un giro che in sella avrei compiuto in un minuto e mezzo, impiegavo mezz&rsquo;ora. Durante i Gran Premi lo facevo la mattina appena sveglio e la sera prima di addormentarmi. A letto, in silenzio, con il corpo rilassato. Ora leggo di tecniche del genere sulle riviste di contenuti scientifici: io lo facevo pi&ugrave; di trent&rsquo;anni fa!&rdquo;. Lavoravi sulla motivazione? &ldquo;Per me era la chiave per non farsi influenzare dalla paura. Che c&rsquo;era, era innegabile, ma non volevo esserne schiavo. Avevo perso molti amici piloti in pista, miei connazionali: penso a Patrick Pons, Olivier Chevallier, Michel Rougerie, Christian Leon. Ero certo che mi sarei ammazzato anch&rsquo;io, prima o poi. Ma al timore rispondevo con una determinazione: volevo sentirmi libero dai condizionamenti. Sono caduto parecchio: mi sono rotto vertebre, mani, polsi, dita e via dicendo. Se non fossi stato pronto a tornare ogni volta per dare il 100%, mi sarei ritirato&rdquo;. Nel 1989, nessuna caduta in gara, ottenesti punti in tutti i GP corsi. &ldquo;Venivo dal 1988, con le cinque pole di fila ma anche quattro ritiri. Avevo dimostrato a me stesso di poter essere veloce, ma mi ero steso spesso. Serviva costanza. Terminai il 1989 al terzo posto, come gi&agrave; successo nell&rsquo;85. Ero felice. Era il mio obiettivo&rdquo;. Passa alla prossima pagina &nbsp; Il "tradimento"  Da come parli, c&rsquo;era in ballo qualcosa di grosso. &ldquo;I pneumatici non era uguali per tutti. Esistevano la versione &lsquo;evoluzione&rsquo;, destinate agli ufficiali. In quel periodo, arrivava materiale nuovo a ogni gara, anche pi&ugrave; di una mescola o di una carcassa. Fra gli obiettivi c&rsquo;era quello di avere pi&ugrave; grip negli ultimi giri: per chi voleva vincere, quelle gomme erano imprescindibili. Ma io non le avevo mai potute utilizzare. Se ho ottenuto sei pole e una sola vittoria non &egrave; stato perch&eacute; ero uno da qualifica: non battagliavo ad armi pari e la differenza si sentiva soprattutto nel finale di gara. A ogni modo ero convinto di aver siglato un patto, dal mio punto di vista, fra gentiluomini&rdquo;. Cosa prevedeva il patto? &ldquo;Chiudendo il Mondiale 1989 nei primi tre, per il 1990 mi avrebbero fornito i pneumatici &lsquo;evoluzione&rsquo;. Raggiunsi l&rsquo;obiettivo, ma a quanto pare il fornitore si rimangi&ograve; la parola. Mi dissero che quell&rsquo;opzione non sarebbe stata disponibile per me&rdquo;. Che smacco: quale fu la tua reazione? &ldquo;Mi raccolsi in me stesso. Per quello che nella mia mente doveva essere l&rsquo;anno giusto per il titolo, non avrei avuto a disposizione il materiale necessario. Ero deluso, sfinito. Cos&igrave;, piansi&rdquo;.       

L'intervista esclusiva al francese per 'Storie Sprint': "Ero certo che sarei morto in pista, prima o poi, come i miei colleghi. Sfidavo gli americani con moto inferiori"

La storia di Christian Sarron: "In equilibrio tra la vita e la morte"

Nella quarta puntata del nostro podcast si parla di Randy Mamola, il funambolico pilota americano capace di far innamorare tifosi e addetti ai lavori grazie al suo temperamento, stile di guida e carisma. Nonostante il pilota californiano non sia mai riuscito a vincere il tanto agognato titolo in 500, &egrave; riuscito a ritagliarsi uno spazio importante nella storia della top class, tanto da essere l&#39;unico pilota ammesso nella hall of fame del motomondiale senza aver vinto un titolo. Con 13 vittorie &egrave; uno dei piloti pi&ugrave; vincenti degli anni 80&#39;, sicuramente uno dei pi&ugrave; iconici di una tra le ere pi&ugrave; fortunate della storia delle due ruote. Per ben quattro volte Mamola chiuse la stagione da vice-campione del mondo, due volte in sella alla Suzuki e poi con Honda e Yamaha, a dimostrazione anche di una spiccata duttilit&agrave; con moto diverse.  L&#39;inizio con Suzuki e i duelli con Kenny Roberts e Marco Lucchinelli   Nel 1979 Mamola fa il suo esordio in 500 in sella alla Suzuki riuscendo a cogliere subito due podi, prestazioni che convinsero la casa di Hamamatsu a promuoverlo affidandogli la moto ufficiale. I risultati non tardarono ad arrivare e nel 1980 Mamola si gioc&ograve; il titolo con il suo idolo d&#39;infanzia, Kenny Roberts, gi&agrave; detentore dei due titoli iridati precedenti, riuscendo a conquistare i GP del Belgio e della Gran Bretagna. Tuttavia, mentre il &quot;marziano&quot; vinse il suo terzo titolo consecutivo, Mamola dovette accontentarsi della piazza d&#39;onore. Grazie all&#39;ottima annata disputata, il pilota di San Jose sal&igrave; alla luce della ribalta per il suo particolare stile di guida in sella e per il grande controllo della moto.  Nel 1981 Mamola e la Suzuki furono nuovamente protagonisti per l&#39;iride insieme a Marco Lucchinelli, compagno di squadra dello stesso Mamola. I favori dei pronostici alla vigilia della stagione 1981 furono tutti per l&#39;americano che rispett&ograve; le aspettative vincendo subito due gare nella prima met&agrave; di stagione e piazzandosi in testa alla classifica. Tuttavia la seconda parte del campionato fu ad appannaggio di Lucchinelli che vinse poi il mondiale relegando l&#39;allora 22enne californiano alla seconda posizione finale. Le ultime due stagioni con Suzuki furono deludenti, la moto di Hamamatsu non riusc&igrave; a tenere il passo di Honda e Yamaha, divenendo lentamente meno competitiva delle cugine. Mamola collezion&ograve; una sola vittoria e alla fine del 1983 diede l&#39;addio alla casa giapponese.  &nbsp;  Il titolo sfiorato con Honda nel 1984 e il miracoloso salvataggio di Misano 1985   Nel 1984 l&#39;americano pass&ograve; in Honda e disput&ograve; probabilmente la migliore stagione della sua carriera, concludendo il campionato con 9 podi su 10 gare, nonch&eacute; tre vittorie. Tuttavia, essendo stato chiamato dalla casa di Tokyo solo dopo i primi due GP, non prese parte all&#39;intero campionato, dovendosi cos&igrave; piazzare in classifica alle spalle di Eddie Lawson e alla Yamaha. L&#39;anno successivo Mamola non riusc&igrave; a replicare le prestazioni mostrate nel 1984 e concluse l&#39;annata in terza posizione alle spalle di Eddie Lawson e Wayne Gardner. Durante la gara di Misano l&#39;americano comp&igrave; un leggendario salvataggio entrato nella storia delle due ruote. Mamola riusc&igrave; a controllare la moto (che tent&ograve; di disarcionarlo) con un numero da circo, finendo poi la gara sul terzo gradino del podio; una delle manovre pi&ugrave; iconiche degli anni 80&#39;.    Nel 1987 vice-campione del mondo per la quarta volta consecutiva   Nel biennio 86-87 Mamola disput&ograve; le ultime stagioni da protagonista e lo fece con la Yamaha del team di Kenny Roberts. Ancora una volta i risultati non mancarono, sia per le vittorie che per i podi, ma il guizzo decisivo per il titolo stent&ograve; ad arrivare. Nel 1986 il californiano trionf&ograve; in Belgio e concluse l&#39;annata in terza posizione mentre l&#39;anno successivo collezion&ograve; ben 12 podi e tre vittorie ma per soli 20 punti dovette cedere le ambizioni iridate a favore di Wayne Gardner. Nel 1988 si apr&igrave; l&#39;ultima fase di carriera di uno tra i piloti pi&ugrave; amati della sua generazione; l&#39;americano spos&ograve; il progetto Cagiva, una sfida ardua che termin&ograve; con un solo podio in tre anni. Nel 1992 Mamola disput&ograve; la sua ultima stagione tornando in sella alla Yamaha e terminando il campionato (vinto da Wayne Rainey) in decima posizione.  Gli anni &amp;#39;80 di Randy Mamola | RSS.com  SBK, &quot;Come ti preparo l&#39;inverno&quot;: l&#39;off-season raccontata dal team Go Eleven  &nbsp; 

Il pilota di San Jose &egrave; rimasto nel cuore degli appassionati per il suo carisma e per il suo funambolico stile di guida

Storie Sprint, Randy Mamola: il pi&ugrave; amato tra gli eterni secondi

Pronto a lasciare il segno nel mondo del motociclismo gi&agrave; dall&#39;esordio, avvenuto nel 1975 con un podio alla prima gara nel Mondiale, e campione del mondo nella classe 350 cinque anni pi&ugrave; tardi, nonostante diversi problemi di visto e tanti infortuni che ne hanno complicato e segnato la carriera. E&#39; questa, in estrema sintesi, l&#39;avventura a livello internazionale di Jon Ekerold, forte pilota sudafricano protagonista del Motomondiale negli anni &#39;70 e &#39;80.  Il TT del 1982: una vittoria sfumata per 8 secondi   Uno degli episodi per cui &egrave; tuttora conosciuto e amato dagli appassionati delle due ruote riguarda per&ograve; il Tourist Trophy del 1982 e, in particolare, il Senior TT.&nbsp;Qui&nbsp;Ekerold si present&ograve; al via con una Suzuki 500 privata, celebre per l&#39;iconica livrea con i denti di squalo ben visibili sulla carena ma decisamente povera di sponsor, con cui si gioc&ograve; la vittoria fino a quando la catena non inizi&ograve; a saltare, costringendolo ad una sosta ai box che gli cost&ograve; la prima posizione per soli otto secondi in favore di Norman Brown, dopo oltre due ore di gara.  Lo stesso Ekerold, protagonista del nostro podcast condotto da Jeffrey Zani, ricorda ancora perfettamente quella corsa, che ha raccontato insieme ad altri momento iconici della propria carriera nella nuova puntata di &ldquo;Storie Sprint&rdquo;, ascoltabile qui sotto:  Jon Ekerold: uno squalo tra i pescecani | RSS.com 

Nella terza puntata del nostro podcast, l&#39;ospite &egrave; l&#39;ex pilota sudafricano: &ldquo;Ebbi problemi con la&nbsp;catena e persi la gara per soli otto secondi. Al Tourist Trophy, ci&ograve; conta di pi&ugrave; &egrave; conoscere la pista&rdquo;

Storie Sprint, Jon Ekerold: &ldquo;Il TT del 1982 fu un duro colpo&rdquo;

        Dopo Australia e Malesia un altro dei tracciati giovani tra quelli iconici del Motomondiale, il Ricardo Tormo di Valencia, intitolato al pilota spagnolo, attivo tra il 1973 ed il 1984, morto per una leucemia nel 1998, tappa fissa dal 1999 e dal 2001 atto finale della stagione. Come nel 2006, 2015, 2017 e 2020, la gara di Valencia &egrave; decisiva per l&rsquo;assegnazione del titolo MotoGP. Quest&rsquo;anno a contenderselo sono un binomio italiano (Bagnaia-Ducati) contro un binomio franco-nipponico (Quartararo-Yamaha) con il primo che deve solamente fare due punti per laurearsi campione. Storia  Nel 1998 il Motomondiale parte con l&rsquo;esperimento della terza gara in suolo spagnolo con l&rsquo;inserimento in extremis del Gran Premio di Madrid a Jarama al posto del Gran Premio del Portogallo per la mancata omologazione di Estoril. Nel 1999 l&rsquo;esperimento viene ripetuto e ad affiancarsi a Jerez e Montmel&ograve; &egrave; la neonata pista di Valencia, intitolata all&rsquo;ex pilota spagnolo Ricardo Tormo. Da allora il Gran Premio della Comunit&agrave; Valenciana &egrave; tappa fissa del Motomondiale.&nbsp; &nbsp; Diversi periodi dell&rsquo;anno  Dal 1999 al 2001 la gara si disputava nel mese di settembre, dal 2002 fino ad oggi viene collocata tra fine ottobre ed inizio novembre grazie alle buone condizioni climatiche di Valencia. Come da tradizione, due giorni dopo la gara si disputano anche gli ultimi test stagionali, quelli dei rookie e dei piloti che hanno cambiato marca. La Spagna la fa da padrone  Si scrive Valencia, si legge Spagna. Un po&rsquo; come tutti i tracciati spagnoli, del resto, i piloti iberici sono padroni di casa a Valencia. In tutte le categorie Dani Pedrosa e soci hanno raccolto 29 successi (32 se si inglobano i 3 successi di Oliveira) contro i 13 dell&rsquo;Italia. Dani Pedrosa da solo ha 7 vittorie sul Ricardo Tormo e finora &egrave; l&rsquo;unico ad aver vinto in tutte e tre le categorie (1 in 125, 2 in 250, 4 in MotoGP). Due invece sono gli hat-trick spagnoli: nel 2009 (Simon-Barber&agrave;-Pedrosa) e 2013 (Vinales-Terol-Lorenzo) &nbsp; Quanti addii   Quando pensi a Valencia pensi alla festa di fine anno ed alla consegna dei premi, ma Valencia &egrave; anche il teatro dell&rsquo;ultima gara in carriera o dell&rsquo;ultima prima del passaggio ad un nuovo team. Valentino Rossi nel 2003 saluta a modo suo la Honda (livrea speciale e parrucca) prima del passaggio in Yamaha nel 2004, stessa cosa nel 2010 dalla Yamaha alla Ducati nel 2011. Valencia ha rappresentato negli ultimi anni anche la gara finale della carriera di Casey Stoner (2012), Daniel Pedrosa (2018) e Jorge Lorenzo (2019) oltre a quella del primo ritiro di Andrea Dovizioso nel 2020. &nbsp; Troy Bayliss fa la storia   Nel 2006 Troy Bayliss vince il suo secondo titolo in Superbike e Ducati gli regala una seconda occasione in MotoGP con l&rsquo;ultima stagionale a Valencia in sostituzione dell&rsquo;infortunato Gibernau sulla GP6. L&rsquo;australiano &egrave; veloce sin dal venerd&igrave; ed in qualifica conquista una ottima seconda posizione alle spalle di Rossi. Il vero capolavoro lo fa in gara, dominandola davanti al compagno di squadra Capirossi. Per Bayliss &egrave; il primo ed unico successo in MotoGP ma soprattutto &egrave; il primo pilota a vincere una gara sia in Superbike che in MotoGP (fatto eguagliato poi da Ben Spies) &nbsp; Cadere nel giro di ricognizione? Si pu&ograve;   E&rsquo; successo a Casey Stoner nella gara del 2009. Dopo aver dominato tutte le sessioni ed essersi preso anche la pole position, l&rsquo;australiano cade nel tratto tra curva 2 e curva 3 per un highside che ancora oggi non riesce a spiegarsi.  &nbsp; Valencia ricorda Simoncelli   Dopo la morte del &ldquo;Sic&rdquo; in Malesia due settimane prima, la gara di Valencia diventa lo scenario del minuto di casino, chiesto dal pap&agrave; Paolo, in ricordo del #58 con in pista tutti i piloti MotoGP, Moto2 e 125 poi schieratisi sulla griglia di partenza dietro alla RC212V del team Gresini guidata in quell&rsquo;occasione dall&rsquo;idolo del 24enne di Coriano, Kevin Schwantz.  &nbsp; Valencia terra di mondiali   Spesso la gara finale coincide anche con l&rsquo;atto finale della sfida per il titolo mondiale. Nel 2006 il primo caso con la sfida Rossi-Hayden risolta in favore dell&rsquo;americano (pi&ugrave; costante nei risultati ma con una sola vittoria all&rsquo;attivo) &ldquo;grazie&rdquo; alla caduta di Valentino al terzo giro. Del 2015 si &egrave; detto tutto ed il contrario di tutto, con Marquez a &ldquo;protezione&rdquo; di Lorenzo per tutta la gara. Nel 2017 la famosa &ldquo;mappa 8&rdquo; di Ducati per Lorenzo a favore di Dovizioso, utilit&agrave; zero in quanto stesi entrambi nell&rsquo;arco di pochi giri l&rsquo;uno dall&rsquo;altro. Vittoria di Pedrosa e titolo a Marquez dopo un salvataggio impossibile. Nel 2020 &egrave; Mir a prendersi il titolo con una stagione in stile Hayden 2006 grazie al settimo posto ed alla caduta di Quartararo, suo avversario diretto.        

Nel weekend del 4-6 novembre il Motomondiale chiuder&agrave; la sua stagione con la gara sul tracciato Ricardo Tormo, decisiva per l&rsquo;assegnazione del titolo mondiale tra Bagnaia e Quartararo

MotoGP Valencia: storia e curiosità della “season finale”

Un&rsquo;altra delle tappe iconiche del Motomondiale torna in calendario dopo due anni di assenza, esattamente come l&rsquo;Australia appena una settimana fa. Stiamo parlando del Gran Premio della Malesia, il secondo Gran Premio pi&ugrave; &quot;giovane&quot; di quelli storici del Motomondiale.  Il Gran Premio della Malesia di quest&rsquo;anno potrebbe essere decisivo per l&rsquo;assegnazione del titolo MotoGP con una gara di anticipo. Pecco Bagnaia ci arriva con 14 punti di vantaggio su Quartararo e 27 su Aleix Espargar&ograve; dopo il podio in Australia e le difficolt&agrave; dei due rivali sempre in quel di Phillip Island.  Storia   Di per s&eacute; il Gran Premio della Malesia non ha una vera e propria storia pregressa prima dell&rsquo;ingresso nel calendario del Motomondiale. Ingresso che avviene direttamente nel 1991 con il tracciato di Shah Alam come gara finale di quel campionato, praticamente una passerella visti i titoli gi&agrave; assegnati nella gara precedente e con parecchie defezioni causa infortuni. Edizione che ha visto la vittoria di Loris Capirossi in 125, Luca Cadalora in 250 e John Kocinski in 500.&nbsp;  Essendo il secondo Gran Premio pi&ugrave; giovane tra quelli storici del calendario, ne sono state disputate appena 29 edizioni e quella di quest&rsquo;anno sar&agrave; la 30^. In 29 edizioni, 21 sono state disputate sul tracciato di Sepang, entrato in calendario nel 1999, 7 a Shah Alam ed una sola a Johor.&nbsp;  &nbsp;  Nessuna vittoria malese ma 10 vittorie giapponesi   Nonostante la Malesia sia un popolo di motociclisti, nel Mondiale non c&rsquo;&egrave; mai stato un pilota malese realmente competitivo da poter vincere in casa, risultato peraltro sfiorato da Khairuddin nel 2012 in Moto3 giunto secondo e da Syahrin in Moto2 con il terzo posto.  Curiosamente, per&ograve;, il Gran Premio della Malesia conta 10 vittorie giapponesi: 2 per Ueda, 2 per Aoyama, una a testa per Aoki, Ui, Azuma, Harada, Nakano e Kato.  &nbsp;  Scrivi Malesia, dici Italia     L&rsquo;Italia &egrave; il Paese con pi&ugrave; successi in terra malese, ben 27 tra tutte le classi. Primatista &egrave; Valentino Rossi con 7 successi (6 in 500/MotoGP, 1 in 125) davanti a Max Biaggi con 5 affermazioni (4 in 250, 1 in MotoGP). Segue la Spagna con 22 successi (Dani Pedrosa primatista con 5 successi), poi l&rsquo;Australia con 10 (Mick Doohan primatista con 5 successi, segue Stoner con 4).  Rossi+Sepang=titoli e vittorie ma anche gag     Sepang &egrave; un posto speciale nella carriera di Valentino Rossi. Sulla pista malese, infatti, il Dottore ha centrato i titoli del 2003 (Honda) e 2009 (Yamaha), vinto la 46^ gara in Yamaha nel 2010 davanti a Dovizioso nell&rsquo;ultima stagione in &ldquo;blu&rdquo; prima del passaggio in Ducati. Ma Sepang &egrave; stata la location della famosa gag della Rapida, l&rsquo;impresa di pulizie che ha pulito la sua piazzola a Losail la gara precedente.  &nbsp;  Sepang croce e delizia di Simoncelli     Quando pensi a Sepang la mente ritorna sempre a quel romagnolo alto con i riccioli che risponde al nome di Marco Simoncelli. Sepang &egrave; il luogo del suo doppio destino: nel 2008 gli regala il titolo della 250 con il terzo posto in gara, nel 2011 gli toglie la vita con il tragico incidente del secondo giro mentre era in lotta con Bautista.  La prima di Dovi in Ducati, Bagnaia campione Moto2     Sepang negli anni successivi ha comunque continuato a sorridere agli italiani. Nel 2016 Andrea Dovizioso coglie il suo primo successo in Ducati davanti a Valentino Rossi mentre nel 2018 Pecco Bagnaia, terzo al traguardo alle spalle di Marini ed Oliveira, vince il suo primo e per ora unico titolo nel Motomondiale bissando per l&rsquo;Italia il titolo di Morbidelli dell&rsquo;anno precedente. 

Dopo due anni di assenza causa pandemia, ritorna il secondo Gran Premio pi&ugrave; giovane tra quelli iconici del calendario del Motomondiale

MotoGP Malesia: storia, curiosit&agrave; ma anche gioie e dolori

        &Egrave; una pagina di motociclismo d&rsquo;altri tempi quella di Giuseppe Fiorillo: il salernitano, oggi 52 anni, riusc&igrave; ad affacciarsi sul palcoscenico del Motomondiale agli inizi degli anni &rsquo;90 e pu&ograve; vantare il titolo nell&rsquo;Europeo 250 del 1993. Storie Italiane: Marco D'Aglio, l'Highlander delle moto Dalla Sport Production al Mondiale   Un percorso nato da lontano, fatto di tanti sacrifici e altrettanta voglia di emergere, come racconta lo stesso Fiorillo: &ldquo;Come molti piloti all&rsquo;epoca, iniziai a correre quasi per scherzo. Devo tutto al Moto Club Costa dei Saraceni che, dopo avermi notato, mi diede la possibilit&agrave; di scendere in pista, permettendomi di dare il via alla mia carriera&rdquo;. Fiorillo inizi&ograve; con due stagioni in Sport Production, 1988 e 1989, prima di essere notato dalla Federazione Motociclistica Italiana, che lo volle nel Team Italia per l&rsquo;Europeo classe 125. Nel 1992 Fiorillo partecip&ograve; al Mondiale 125, sempre con il supporto del Moto Club Costa dei Saraceni, ma l&rsquo;apice della sua carriera arriv&ograve; proprio nel 1993 con la vittoria nell&rsquo;Europeo 250. &ldquo;Dopo quel successo, nel 1994 riuscii a entrare nel Mondiale 250 con il Team Pileri, per poi&hellip; non rimanerci, perch&eacute; servivano sponsor e il merito sportivo non bastava&rdquo; &egrave; il ricordo del campano. &ldquo;Vincere una gara nella quarto di litro era quasi impossibile, erano gli anni d Max Biaggi, Loris Capirossi, Ralf Waldmann&hellip; Arrivare ventesimo non ti dava la visibilit&agrave; necessaria per rimanere, era necessario trovare sponsor che ti aiutassero&rdquo;. Quell&rsquo;anno fu 12&deg; in Olanda, al termine di una battaglia con un futuro campione del Mondo della Superbike come Carlos Checa. Al termine di quella stagione, Fiorillo decise di fare un passo indietro: &ldquo;Tornai nell&rsquo;Europeo 250, che disputai nel 1995 con Mauro Noccioli capotecnico, e nel 1996 con un team di Fano, fino a riprovare l&rsquo;esperienza iridata con una squadra privata l&rsquo;anno successivo, il Team Radiant Racing&rdquo;. Quella stagione 1997, Giuseppe la ricorda per l&rsquo;ottavo posto colto nel GP Repubblica Ceca, nel giorno in cui Valentino Rossi conquist&ograve; il primo dei suoi nove titoli iridati, in 125. Il campano piazz&ograve; la sua Aprilia 250 a 58 secondi dal vincitore Biaggi: &ldquo;Un piazzamento che non fu frutto del caso: io ero pi&ugrave; maturo ed esperto, la moto era competitiva e riuscii a guadagnarmi quella posizione lottando, e non grazie alle cadute altrui&rdquo;. &nbsp; Motociclismo d'altri tempi   A fine stagione l&rsquo;esperienza iridata termin&ograve; definitivamente, cos&igrave; per Fiorillo arriv&ograve; il momento di passare alle derivate di serie: &ldquo;Accettai di partecipare al mondiale Supersport. Fu un trauma per me, perch&eacute; mi ritrovai a passare da una moto di 100 kg e 95 cavalli a un&rsquo;altra che pesava almeno il doppio e con 120 cavalli. Mi tolsi qualche soddisfazione, racimolai dei punti ma non era la mia categoria&rdquo; &egrave; il racconto del salernitano, capace di chiudere settimo ad Albacete nel 1998 e al N&uuml;rburgring nel 1999, sempre con la Suzuki. Arrivarono cos&igrave; i primi anni Duemila, periodo in cui Fiorillo si divise tra le apparizioni nel Trofeo Inverno di Binetto e altre competizioni nazionali, prima di decidere di appendere il casco al chiodo. Almeno per le corse. Il salernitano divenne collaudatore di Bimota e MV Agusta, decidendo poi di abbandonare definitivamente la moto e dedicarsi al lavoro per l&rsquo;Andreani Group. &ldquo;Lavoro qui dal 2003, mi occupo di sospensioni e ammortizzatori, non soltanto in azienda ma anche nei paddock. Come azienda seguiamo i team che partecipano al CIV, offriamo loro materiale e assistenza&rdquo;. Le moto fanno ancora parte della vita di Fiorillo, dunque, anche se in forma diversa rispetto a quando era lui a guidarle. Ma riavvolgendo il nastro dei ricordi, Giuseppe non nasconde un pizzico di amarezza per com&rsquo;&egrave; andata la sua carriera, pur con la consapevolezza di aver fatto il massimo con i mezzi a disposizione: "Se ripenso a tanti piloti dell&rsquo;epoca, qualcuno ce l&rsquo;ha fatta, qualcuno no. Ma ricordando i miei inizi, mi sento orgoglioso di quanto realizzato. Ho fatto anche tanto. Ora che vivo nei pressi di Tavullia, vedo i ragazzi della VR46 allenarsi tutti i giorni, qualcosa di inimmaginabile ai miei tempi. Non esisteva la possibilit&agrave; di andare in moto se non per le gare. Allora come oggi, chi proveniva dalla Romagna era avvantaggiato, per me anche soltanto andare a girare a Vallelunga era un viaggio della speranza&rdquo;. Altri tempi, altro motociclismo: &ldquo;Ricordo ancora le prime trasferte per l&rsquo;Europeo con furgoni e roulotte: era una sorta di pellegrinaggio (ride), erano necessari tre giorni per arrivare a Jerez. Arrivavi, vedevi la pista e non sapevi nemmeno il senso in cui girare!&rdquo; racconta divertito Fiorillo. &ldquo;Ma non finisce qui: potevo allenarmi cos&igrave; poco che, una volta in gara, non riuscivo mai a partire decentemente. Ma cogliere buoni risultati in quel modo fu ancora pi&ugrave; soddisfacente&rdquo;. L&rsquo;ex pilota ricorda molto bene gli avversari di quel periodo: &ldquo;Ho potuto condividere la pista con gente come Biaggi e Rossi. Nel suo libro Max ha raccontato i suoi inizi ricordando quella volta in cui mi vide in pista a Magione, sottolineando che stavo andando forte, &egrave; stato bello per me leggere questo suo ricordo. Invece con Valentino ci frequentavamo ai tempi dell&rsquo;Europeo, dormivamo insieme, poi ognuno ha preso la propria strada. Tempo fa mi invit&ograve; a una gara di Motocross a Cavallara, un pensiero che mi fece molto piacere&rdquo;. &nbsp; Il ricordo del pap&agrave;  Di quegli anni in pista, a Fiorillo rimane l&rsquo;amore per la &ldquo;dueemmezzo&rdquo;, una cilindrata che scaldava il cuore di piloti e appassionati: &ldquo;Quando passai dalla 125 alla 250 fu amore a prima vista, era la cilindrata giusta. Ricordo ancora l&rsquo;avantreno roccioso di quelle moto, erano bellissime&rdquo;. Di ricordi Giuseppe ne conserva tanti. Quello pi&ugrave; toccante &egrave; legato al 1993, anno dell&rsquo;affermazione nell&rsquo;Europeo: &ldquo;Una stagione che rievoca bei ricordi ma anche brutti perch&eacute; persi mio padre, aveva soltanto 50 anni&rdquo;. Il racconto si fa triste: &ldquo;La gara pi&ugrave; bella della stagione fu a Most: su quella pista andavo sempre forte. Lui mi segu&igrave; in trasferta, vinsi la corsa e poi trascorremmo qualche giorno di vacanza insieme. Mio padre ripart&igrave; il mercoled&igrave; seguente e, da quella volta, non l&rsquo;ho pi&ugrave; visto perch&eacute; mor&igrave; pochi giorni dopo. Quella fu la gara pi&ugrave; bella perch&eacute; rimane per me il suo ultimo ricordo&rdquo; conclude Fiorillo con la voce rotta dall&rsquo;emozione. Storie Italiane: Sebastiano Zerbo, l'Agostini dei trofei       

"Non sono nato nella terra dei motori, non avevo sponsor pesanti, eppure mi sono tolto delle soddisfazioni, come l'Europeo 1993"

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