Storie di moto: il conte Marc VDS

Storie di moto: il conte Marc VDS
Marc Van Der Straten, mecenate eccentrico, usa la sua ricchezza per valorizzare il talento altrui

Redazione

11.03.2015 ( Aggiornata il 11.03.2015 12:45 )

PROVATECI voi, a rifiutare una bevuta, se ve la offre il discendente della dinastia belga che ha fondato la Stella Artois e che poi ha contribuito a creare il più grande gruppo di produzione di birra del mondo. Il conte Marc Van Der Straten è di quelli che non si demoralizzano al primo rifiuto. «Marcvìdìes», come dice lui stesso, pronunciando il suo soprannome in un’impeccabile francese (la sua lingua madre) è un personaggio di un certo fascino. È un mecenate dei motori: le sue origini nobiliari, la sua ricchezza, il suo stile di vita eccentrico, la passione per le auto da corsa e i tanti milioni spesi per finanziare progetti di costruttori automobilistici oppure le carriere dei piloti, fanno di lui una sorta di Lord Hesketh delle moto. «Sono anni che mi sento definire “mecenate” però, mi creda, ormai il mecenatismo non esiste più» commenta. Eppure il conte Marc anche nel mondo delle moto appare proprio un mecenate: ha finanziato una squadra da zero, ha sempre pagato tutto di tasca sua, non ha mai cercato sponsor, quest’anno ha portato Tito Rabat al titolo della Moto2 e da anni finanzia la carriera di Scott Redding, «un ragazzo a cui voglio bene come ad uno della mia famiglia». Per Redding, il Conte Marc Van Der Straten ha deciso di fare il grande salto (e il grande investimento) in MotoGP. E ci tiene a ricordare l’importanza del pilota inglese nella storia del team: «Quando venne costituito questo team, fissammo come obiettivo il titolo entro cinque anni. Ce l’abbiamo fatta, perché questa è stata la nostra quinta stagione. Ma avremmo potuto farcela anche alla quarta, se nel 2013 Scott non si fosse infortunato». TST-2014-11-11-0177 Nel mondo delle auto, in particolare del “Turismo”, «Marcvìdìes» ha ereditato un piccolo impero: una squadra corse che venne costituita da suo padre nei primi Anni ‘60. «Mio padre era molto noto nel mondo dell’auto: si chiamava Rudolph, ma tutti lo conoscevano come Rudy. Fondò il team in Belgio, nel 1964. Quanto a me, ad un certo punto ho sostenuto un personaggio belga, Tony Gillet, e il suo progetto Vertigo. E lì, forse sì, mi sono sentito un po’ mecenate. Poi nel 1997 ho creato la mia squadra». Che è da sempre protagonista dei campionati GT. «Abbiamo collaborato anche con grandi Case: ora sto lavorando ad un progetto importante con la BMW. Potrebbe portarci nel DTM...» e ammicca, esibendo un sorriso furbo e un tono di voce malizioso. Fa capire, insomma, che l’affare è ambizioso. Ha un sorriso simpatico e rassicurante, il conte Marc Van Der Straten. A 66 anni suonati dà l’idea di divertirsi come un bambino, anche se i suoi sono giocattoli costosissimi. Ma lui usa i soldi suoi, e in più crea posti di lavoro, dando opportunità ai giovani piloti. E in ogni caso, la sua ricchezza non è mai ostentata. Marc Van Der Straten ha poco in comune con un paddock di motociclismo. È colto, ha una gestualità raffinata, parla a bassa voce, vanta una piacevole ironia. E sorride sempre, soprattutto per rimarcare un pensiero o dare risalto ad un’affermazione. Sa cavarsela con l’inglese, ma vuole parlare la sua lingua natìa: «Il francese lo trovo più elegante ». Esibisce una classe innata, che non viene scalfita neppure dal suo stile eccentrico: la barba, curatissima, non è sormontata dai baffi; ad entrambi i mignoli porta un anello d’oro con brillante; sul polso destro spiccano un bracciale d’oro e due d’argento. TST-2014-11-11-0171 NEI GRAN PREMI di motociclismo è capitato nel 2009. «Un giorno venne da me Michael Bartholemy. Ci trovammo nel paddock di Hockenheim. In quel periodo avevo una mezza idea di fare qualcosa anche in questo ambiente, lui mi ha convinto. Il Belgio ha una certa tradizioneanche nelle moto. Michael aveva concluso la sua avventura con la Kawasaki, in MotoGP. Cercava una nuova sfida, e stava pensando ad una squadra di endurance. Venne fuori l’idea della Moto2. Sono passati pochissimi mesi, da quando ne abbiamo parlato al momento in cui il team è stato creato. Bartholemy è belga, come me. Ci siamo intesi subito. All’inizio la Dorna ci garantì un posto solo, e scegliemmo Scott Redding. Ma in questi anni Bartholemy ha fatto un grande lavoro». Michael Bartholemy è un manager esperto e smaliziato. Uno che conosce le corse. Uno che fa comodo ad un uomo come Marc Van Der Straten. Della cui generosità, Bartholemy ha parlato anche recentemente, riferendosi a Rabat: «Tito voleva una moto per allenarsi ad Almeria. E Marc gli ha comprato una Kalex da lasciare in circuito, in modo che Tito potesse andare ad allenarsi anche tra una gara e l’altra». Interpellato sull’argomento, il neocampione del mondo ha confermato: «Con quel gesto ho capito che mi volevano veramente bene. Prima di allora, non avevo mai avvertito un simile sentimento da parte di una squadra. Questo mi ha dato ancora più forza e motivazione per cercare di ottenere grandi risultati». Marc Van Der Straten non ha un ruolo operativo nel team: «In un’organizzazione che funziona ognuno deve avere un ruolo e deve essere lasciato libero di svolgere il suo lavoro con serenità. Io mi occupo delle finanze, e credo che sia già abbastanza». Il conte Marc non ama nemmeno guidare le moto. È un retaggio di un episodio vissuto in gioventù. «Tanti anni fa mi avvicinai alle moto, ma ebbi una brutta esperienza e così per molto tempo me ne sono disinteressato. Venni caricato a bordo di una Honda 750 CB. Eravamo in Costa Azzurra, la strada era tortuosa e c’erano muri tutti intorno. Chi guidava andava forte, io chiesi di rallentare ma non mi ascoltò. Ad un certo punto sbandammo, rischiammo di farci molto male. Appena mi ritrovai fermo sulle gambe, gli tirai un pugno fortissimo! Per me quella fu una esperienza negativa, tanto che mi chiesi dove fosse il divertimento in quell’attività. Continuai a dedicarmi alle auto. Negli ultimi tempi mi sono avvicinato allo scooter, ma lo uso solo nel paddock oppure a bordo pista». TST-2014-11-11-0162 Già, cosa ci troverà di particolarmente bello nelle corse di moto? «Mi piacciono le cose belle ed esclusive. Quelle che vengono fatte con la passione e il talento dell’uomo. Dell’artista. E quelle sono cose che non dipendono solo dal denaro». Ma il conte Marc di denaro ne spende parecchio: «Sì, è vero, ma questa storia del mecenatismo va superata. È un concetto che ormai non esiste più. Mi spiego meglio: forse il mecenatismo esiste ancora in certi campi, come la musica, la pittura o l’arte in generale; ma nel mondo dei motori, pur essendoci tanto talento, ad ogni livello, conta ormai solo il denaro. Ed è vero, ne spendo tanto, ma mi creda: io i soldi li spendo, non li butto». Ed è qui che il conte Marc dà l’idea di voler togliersi di dosso l’etichetta del mecenate. Insomma, certe frasi sono un modo per farsi prendere sul serio, oppure servono ad evitare di ritrovarsi una fila di questuanti fuori dalla porta. Oggi il pilota che gode del suo sostegno è, Rabat a parte, un giovane inglese che fatica a concretizzare il suo talento: «Ho voluto nuovamente Scott Redding nel nostro team. Ho approfittato del nuovo progetto in MotoGP per riportarlo nella nostra famiglia. Non mi è piaciuto vederlo andare via alla fine del 2013 (l’inglese passò in MotoGP con il Team Gresini ndr). Riportarlo da noi era uno degli obiettivi che avevo chiesto fossero fissati per questa stagione». A volte mecenatismo fa rima con paternalismo. La pensa così anche il conte: «Lo sa qual è il mio concetto di squadra? La famiglia. Per me tutto deve avere il sapore del nucleo famigliare». E va detto che Bartholemy lo ha ripetuto anche durante la stagione: «Marc ci tiene moltissimo al clima famigliare nel team. In effetti credo che questo tipo di legame sia uno dei motivi del nostro successo». Enrico Borghi Questo articolo è stato pubblicato sul numero 49/2014 di Motosprint.

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