Melandri: Chiesi di non correre in Qatar

Melandri: Chiesi di non correre in Qatar
“Dovevo aiutare Guintoli, ma ero più forte. Non ha senso gareggiare per andare piano”. Marco svela alcuni retroscena a Motosprint

Redazione

07.12.2014 ( Aggiornata il 07.12.2014 16:08 )

OZZANO EMILIA - Lo sceglie lui, il luogo per raccontare e raccontarsi: Marco Melandri ti porta dove l’erba è perfettamente tagliata, dove ci sono hangar e aeroplani. E sopra, l’immensità del cielo. È così che si rilassa il ravennate, che ha trascorso almeno la metà dei suoi trentadue anni spostandosi da un team all’altro, salendo e scendendo da moto spesso diverse tra loro, cercando fortuna da una categoria all’altra. Ci dà appuntamento all’Aviosuperficie di Ozzano Emilia e propone il suo programma – «Mangiamo, lavoriamo e ci facciamo un volo!» – così  capisci subito che è di buon umore. Arriva in aereo, naturalmente: «Da Faenza a qui è solo una ventina di minuti».Siamo a due passi da Bologna, a una manciata di chilometri dalla nostra redazione. A tavola ordina carne con verdure – sta lontano dalla pasta e ancora di più dai dolci! – dunque si sente già in “allenamento”. Parla di motocross, una delle sue grandi passioni. E di aerei, un’altra grande passione. «L’ho personalizzato, il mio aereo: hanno sempre quei colori poco vivaci, allora ho preso spunto da un cartone che piace a mia figlia e ho fatto una grafica più vivace». Ha dipinto anche il suo numero di gara, sull’ala, per mantenere un legame tra le sue passioni. «Il volo mi appassiona, ed è anche un ottimo modo per rilassarmi. Quando sono arrabbiato, o agitato, prendo il mio aereo e faccio un volo. Anche se breve, è sufficiente per calmarmi». Fa rotta, a piedi, verso una piccola casa rurale utilizzata dal club per le lezioni della scuola di volo. È praticamente sulla pista, così le grandi vetrate regalano una vista spettacolare. Marco si lascia cadere su un divano di pelle rovinato dal tempo, e per questo in sintonia con il luogo in cui l’hanno sistemato. Sa di aviatore anche il divano. Visto così, Marco Melandri appare molto più sereno di quello che si potrebbe pensare valutando le sue ultime vicende. In particolare quelle degli ultimi mesi. Ha appena chiuso, suo malgrado, l’esperienza in Superbike e il primo test sulla MotoGP, a Valencia, si è risolto in una brusca presa di contatto della nuova realtà (mentre leggete queste righe Marco è in pista a Jerez, per l’ultimo test del 2014 ndr). Che è dura. Eppure Marco fa di se stesso una descrizione inedita. «Nella vita normale non sono come nel paddock. Tanti pensano che io sia sempre arrabbiato o triste. Non è mica vero. Mi vedono nell’ambito delle corse, e lì sono concentrato oppure incazzato. Non riesco a fare un sorriso finto, come fanno in tanti: se sono deluso o arrabbiato, io non lo nascondo. Ma nella vita normale mi diverto: secondo me, molto più di tanti altri piloti. Infatti va detto che tutti i piloti hanno due personalità. In pista e davanti agli obiettivi sono piloti, nella vita comune sono persone. Sono due cose diverse». Si capisce che questa potrebbe essere una giornata di ricordi, riflessioni, confidenze, rivelazioni. E lo sarà. Marco Melandri lasciò i Gran Premi alla fine del 2010: era un pilota Honda nel Team Gresini, il suo compagno di squadra era Marco Simoncelli. C’era la 800. Lui si era da poco fidanzato con Manuela. Si è ripresentato a Valencia come padre di famiglia, elemento di spicco della nuova sfida Aprilia. E ha trovato un equilibrio. «In questi ultimi quattro anni ho fatto molte esperienze, soprattutto di vita. Ho una età (32 anni ndr) in cui si capiscono tante cose. Sono diventato più maturo, e per questo ho cambiato modo di pensare: ad esempio, ho smesso di provare rabbia. Rabbia? «Sì, non provo più rabbia contro le persone. Anche se mi hanno fatto dei torti, cerco di capire i motivi che li hanno spinti a farlo. E me la prendo meno di prima, preferisco andare avanti per la mia strada. E poi apprezzo quello che ho, più che cercare di avere quello che non ho». Sì, sono segnali di crescita. Ma un pilota deve essere pretenzioso. «Infatti io mi impegno molto nel mio lavoro. Quelli che lavorano con me lo sanno. Però adesso è diventato fondamentale staccare la spina appena torno a casa, magari dopo una gara deludente. A casa posso godermi le cose belle della vita, perché là, comunque vadano le corse, ho un sacco di cose belle. La mia famiglia, gli amici. Le mie passioni». Come ti trovi nel ruolo di papà? «Mi piace tanto. Bisogna viverla, questa condizione, per rendersi conto. Sono un neo papà felice, e lo sono anche per la compagna che ho. Quando la mattina mi sveglio e vedo mia figlia, mi metto di buon umore e così vedo in modo positivo tutto quello che mi capita. Se sei da solo e ti svegli girato male, anche il resto della giornata lo vedi in modo negativo. Sento la responsabilità del ruolo di padre, ma la mia fortuna è che Manuela ha una pazienza incredibile: fa tanto per la bambina, e quindi agevola me. Soprattutto quando di notte resta sveglia lei...».   PARLIAMO di gare. Quindi, del finale di stagione. Che rapporto c’è stato con Sylvain Guintoli? «Non c’è stato nessun rapporto». In che senso? «Lui non mi ha mai chiesto scusa per avermi buttato giù a Portimao. Anzi, ha cercato scuse per incolpare me, quando invece è stato lui a cadere e a venirmi addosso. E a Magny Cours non mi ha ringraziato per quello che ho fatto per lui (Marco lo ha lasciato vincere gara 1 ndr) e ha addirittura fatto pesare il fatto che secondo lui non serviva il gioco di squadra. E non è vero, gli è servito: se non avessi poi deciso di fare la mia strada in gara 2, a Magny Cours, in Qatar Baz non avrebbe fatto lo stesso in gara 1 (Baz ha deciso di non aiutare Sykes, in lotta con Guintoli per il titolo ndr); e Baz lo ha anche detto in TV». Come l’hai vissuta questa storia del gioco di squadra di cui si è parlato tanto? «Malissimo». E non l’hai nascosto. «Come ho detto, non so fingere. Quando sei più veloce del tuo compagno di squadra, però lo devi aiutare, ti assicuro che è difficile. Soprattutto quando sai che avresti dovuto essere tu a giocarti il titolo, ma per vari motivi hai buttato via metà della stagione. Sono cose che fanno male». Facciamo ordine. E partiamo dalla fine, cioè dalle ultime gare. «Per me gli ultimi tre mesi sono stati veramente difficili. Ero più forte di Guintoli, ma l’Aprilia mi chiedeva di aiutarlo. E lui non ha avuto... (fa una pausa), va bé, mettiamola così: io credo ancora in certi valori, così avrei preferito un “grazie”, oppure una pacca sulla spalla, piuttosto che sentirmi dire: “devi aiutarlo (Guintoli ndr), ti offriamo un incentivo economico”...». Per le aziende è normale. «Però mi hanno fatto male. Sono arrivato in Qatar distrutto: da mesi non dormivo più bene, per quanto ero teso». L’hai presa proprio male. «Così male, che non volevo correre». In che senso? «Ho chiesto all’Aprilia di poter stare a casa dall’ultima gara, in Qatar. In base al mio modo di interpretare le corse, andare a correre con la consapevolezza che sarei dovuto andare piano non aveva senso». PERCHÈ non sei riuscito a fare in modo di esserci tu al posto di Guintoli? «Si capisce meglio se parto da lontano. Sono arrivato in Aprilia con un bagaglio di esperienza enorme, perché avevo guidato tantissime moto e anche due Superbike molto diverse dall’Aprilia: ero passato dalla Yamaha a scoppi irregolari alla BMW che era screamer. Durante le mie varie esperienze, ho raggiunto un punto in cui devo trovare alcune costanti, fondamentali per la mia guida. Ecco, queste costanti, cioè caratteristiche della moto, all’inizio non le ritrovavo nell’Aprilia». Quali elementi sono? «Io chiedevo di poter fare delle regolazioni diverse, ad esempio riguardo all’assetto, per trovare quegli elementi costanti di cui ho bisogno. Mi rispondevano che la moto non aveva mai funzionato con quei tipi di assetto, quindi era difficile seguire le mie richieste. Infatti erano loro, nel team, che mi chiedevano di adattarmi alla moto. Ma per me, pensare di cambiare stile di guida quando non riesco ad avere confidenza con la moto, è impensabile. Così la prima metà della stagione è andata avanti con queste difficoltà. E poi siamo arrivati in Malesia. Era giugno». E cosa è accaduto? «Sono riuscito a fare cambiare un po’ di cose sulla mia moto e, come per magia, ho vinto le due gare». Quel “come per magia” è significativo. «Ero riuscito a fare in modo che la moto iniziasse a cambiare: avevo chiesto tante modifiche per migliorare il motore, dalla gestione elettronica alla meccanica. Quanto alla ciclistica, prediligo il forcellone lungo ma la RSV4 lo predilige corto; ma per me la moto con il forcellone corto è inguidabile. Sarà per le mie caratteristiche fisiche, sono basso e leggero, in ogni caso ho bisogno di una moto più stabile. In Malesia ho avuto la moto come chiedevo io, e ho dimostrato coi fatti che le mie esigenze erano quelle. Così nel team hanno capito: abbiamo iniziato a lavorare in modo diverso, e abbiamo cambiato passo. E, guarda caso, da lì in poi Guintoli ha iniziato a fare una sorta di copia-incolla con le mie regolazioni...». È bella, questa del copia-incolla. «In quel modo abbiamo iniziato a dominare, a mani basse, anche come team. Le Aprilia hanno vinto le ultime 10 gare... Ma avere dimostrato che avevo ragione io, non è che mi ha fatto esaltare: per me era solo la conferma che avevamo gettato via metà della mia stagione... Infatti ad ogni vittoria esultavo di rabbia, non di gioia, perché sapevo che stavo buttando via l’ennesimo campionato. Forse era inevitabile, ma non mi ha reso felice». Perché era inevitabile? «Quando arrivi in un team nuovo, i tecnici e la squadra devono conoscerti e tu devi conoscere loro. Questo prende tempo. È difficile riuscire a velocizzare quei tempi, che sono naturali, infatti è stato impossibile arrivare a quel famoso punto d’incontro prima della Malesia». Come se non bastasse, ti hanno portato via alla SBK sul più bello. «Il mio piano con l’Aprilia prevedeva due anni di Superbike. Avevo messo in preventivo il fatto che il primo anno sarebbe stato difficile. Tutti i piloti, in Aprilia, hanno faticato il primo anno. Quindi, nel mio piano, nel secondo anno avrei voluto puntare a vincere il titolo. Ma le cose sono cambiate rapidamente e, credo, un po’ tutti in quel gruppo sono rimasti sorpresi. Anche gli ingegneri si sono trovati spiazzati». È accaduto tutto dall’oggi al domani, oppure avevate avuto delle avvisaglie? «È stato tutto molto rapido, molto brusco. Ed è stato strano». Cosa vuoi dire? «Nel momento in cui la possibilità che Aprilia facesse la MotoGP, e non più la Superbike, iniziava ad essere concreta, hanno esercitato l’opzione per farmi restare per il 2015. Io ero un po’ perplesso, lì per lì non capivo. Ma allo stesso tempo ero contento perché ero ancora convinto che, alla fine, il progetto SBK sarebbe andato avanti. Invece dopo poco (cioè dopo che il vertice della squadra ha fatto valere l’opzione) mi è stato chiesto di accordarmi di nuovo... per la MotoGP». E tu come hai reagito? «È stato difficile scegliere. Ecco perché ho preso tempo. Volevo capire bene il livello tecnico della nostra Superbike, considerando i regolamenti nuovi. Volevo capire quanto l’Aprilia si sarebbe realmente impegnata in Superbike. Perché io volevo veramente portare a casa un titolo mondiale di Superbike. Perché ho vinto tante gare, ma di fatto non ho vinto niente». E questa, in effetti, viene considerata una mancanza nella tua carriera. «Da fuori è facile giudicare». E da dentro? «Bisogna conoscere, per capire. È durissima, ripartire ogni anno da zero. Vieni sbattuto da un posto all’altro, devi sempre ripartire da capo. Ed è difficile anche mentalmente. Ogni anno devi ricostruire un rapporto con una squadra, devi imparare a conoscere i segreti di una moto. Da fuori sembra facile, ma non lo è. Io lo so, cosa serve per velocizzare i tempi». Cosa serve? «Un ingegnere che ti conosce e che ti segue, quindi che ti aiuta ad inserirti. Se non lo puoi avere, ti devi arrangiare: ogni volta devi sprecare tante energie per fare capire, il più in fretta possibile, ai nuovi ingegneri e ai meccanici cosa ti serve per andare forte. E visto che lo devi fare nei confronti di persone che non ti conoscono, anche loro hanno bisogno di tempo per inquadrare te». In effetti, così è difficile. «Magari anche i miei modi di esprimere i commenti sono percepiti in maniera diversa a seconda dell’ingegnere. Ho sempre cercato di essere chiaro, ad un certo punto mi sono messo a scrivere dei report a casa mia, cercando di essere più preciso possibile. Ma è stata sempre difficile, per me. Solo che non c’è soluzione: è lo scotto da pagare se si cambia spesso squadra. E io ho cambiato spesso moto e team in MotoGP, poi in SBK ho fatto quattro anni con tre moto diverse!». Solo con la BMW sei rimasto almeno due stagioni. «Ma il primo anno era la BMW Germania, poi ci hanno appoggiato alla BMW Italia ed è cambiato tutto: sia nello sviluppo della moto che nell’organizzazione. Avevo mantenuto la stessa gente, ma il padrone era diverso. E ancora una volta, per fare capire la mia mentalità ho sprecato tanto tempo. E anche lì, ho perso la possibilità di essere vincente». C’è rammarico, quindi, nel tuo bilancio dei tuoi 4 anni in SBK.  «Mi è mancato il titolo, e questo sì che mi fa rabbia». È comprensibile. «Solo chi ha lavorato con me sa quanto mi impegno. E del resto, credo che questo sia uno dei motivi per cui l’Aprilia mi ha voluto portare in MotoGP». Hai cercato di organizzarti da solo, con un’altra moto, per restare in SBK? «No, perché nella mia testa sono uomo Aprilia. E volevo restare con l’Aprilia. Ho cercato solo di capire se era possibile fare un altro anno per vincere in SBK, e intanto iniziare a lavorare per la MotoGP. Cioè, per il 2016. Ma non è stato possibile». Ti sei chiesto il perché dell’improvviso cambio di rotta? «No, perché ho già mille domande a cui dare risposta. E poi, anche se avessi la risposta, non cambierebbe la situazione: stiamo rincorrendo, e non so quanti progressi riusciremo a fare nell’immediato. Bisogna viverla come esperienza per il 2016, che è l’anno importante». Enrico Borghi Questa intervista è stata pubblicata sul numero 47 di Motosprint. Presto la seconda parte

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