Miller: Non voglio restare in Moto3

Miller: Non voglio restare in Moto3
In pochi mesi è diventato il leader della e un candidato alla MotoGP. Sta nascendo una stella

Redazione

25.08.2014 ( Aggiornata il 25.08.2014 11:07 )

Non gradisce i paragoni con Casey Stoner perché lui vuole essere se stesso, e anche da qui emerge la personalità di Jack Peter Miller. Il diciannovenne australiano del Queensland (la terra di Stoner) è la nuova speranza del motociclismo australiano e la sua storia attrae anche perché ha diversi punti in comune con quella di Casey: anche Jack ama la natura, la pesca, i grandi spazi, (uno dei suoi hobby è la movimentazione del bestiame) ed è cresciuto in una fattoria; anche lui ha iniziato a correre in moto a 5 anni, prima col cross poi col dirt track, e ha lasciato l’Australia tra i 14 e i 15 anni per inseguire il sogno nei Gran Premi di velocità. Ci sono analogie persino tra le famiglie: anche i Miller, come gli Stoner, hanno investito in prima persona per permettere ad uno dei loro figli di andare in Europa per inseguire il suo sogno. Infine anche Jack Miller, come Casey Stoner, ha ottenuto la sua prima vittoria nei Gran Premi in sella ad una KTM e nella classe più piccola: Casey in 125, Jack in Moto3. «Ma io sono molto diverso da Stoner», dice Miller, che in effetti è socievole, si diverte nel paddock e apprezza l’Europa. Di lui stupisce la velocità con la quale è diventato il pilota del momento. In primavera, in Qatar, quando ha vinto la prova di apertura del campionato 2014, non ha conquistato solo la sua prima vittoria iridata ma anche il suo primo podio... Poi ha fatto subito il bis in Texas. In soli 7 mesi è passato «dalla situazione in cui non mi considerava nessuno a quella in cui tutti i manager sembrano essersi accorti che esisto», come dice lui. In realtà si era fatto notare già nel 2013, perché era l’unico dei piloti Honda in grado di avvicinarsi agli spagnoli che dominavano con le KTM. Oggi, con la KTM, è il leader della Moto3 e si parla di lui come del pilota con cui la Honda intende fare un esperimento: il salto dalla più piccola alla più grande categoria dei GP, senza passare dalla classe intermedia (la Moto2). È un’idea che incuriosisce anche Marc Marquez, il nuovo simbolo della precocità. Segno che questo australiano simpatico, estroverso, intelligente, veloce, in più anche un funambolo, possiede qualcosa che non lascia indifferenti. «Sono un ragazzo normale, non ho doni divini. Mi comporto in modo normale: mi impegno in quello che faccio e spero di lasciare un buon ricordo tra la gente». Sarà, però bisogna tornare al giovane Valentino Rossi per ritrovare un pilota della entry class così seguito. E a proposito, indovinate chi è il modello a cui Miller si ispira? «Valentino!» afferma, senza esitazioni. E spiega il perché con una lucidità insolita per uno della sua età: «Valentino Rossi è il mio modello per quello che ha vinto ma anche per quello che ha fatto per aumentare la popolarità del suo sport. Il suo segreto non è solo nel polso destro, ma nel suo cervello. Lui è sempre stato più grande della sua età, ha sempre saputo guardare un po’ più avanti. Io lo studio da anni. E vorrei arrivare ad essere così, come lui». Per noi italiani tu sei anche l’avversario di Fenati. «È vero, e ne sono orgoglioso perché Fenati è un avversario e un amico: beviamo spesso una birra insieme, e scherziamo molto. Fenati mi piace perché ha talento, coraggio ed è un combattente. È il genere di pilota che piace a me. Ed è bello lottare con lui». Stai cercando di farti degli amici dalle nostre parti? «Se è per questo, io ho anche vissuto in Italia. È stato nella stagione in cui ho corso con il Team Caretta Technology: ho vissuto nella zona di Torino per stare vicino alla squadra. Non è stata una grande stagione, per me, però per quello che ho visto l’Italia mi piace tanto». Adesso dove vivi? «A 15.000 km da casa, cioè a Tarragona, in Catalunya. La Spagna è perfetta per me: ha il clima, i circuiti, i posti per allenarsi; e anche la spiaggia e i divertimenti». In Australia hai una casa tua? «Vivo nella fattoria di famiglia, visto che è gigantesca e posso fare quello che voglio. Amo la vita all’aria aperta, mi piace anche allevare le mucche e i cavalli». Ecco, questo è il mito che abbiamo noi pensando a voi australiani... «Dico sul serio: la proprietà è così grande che mi posso allenare anche per il mio sport. Ho costruito una pista di motocross, così quando sono a casa giro in moto tutti i giorni». Vivi nella stessa zona di alcuni grandi “ex”, come Stoner e Bayliss? «Diciamo che siamo tutti del Queensland, ma io vivo a nord, cioè a 1600 km da dove stanno loro. Però è vero che abbiamo la stessa cultura della moto». In che senso? «In genere, veniamo dal fuoristrada, dal dirt track. In Australia questo è un percorso obbligato, perché non c’è un vero “movimento” di velocisti. Da piccolo pensavo che avrei fatto il pilota di motocross, e facevo anche il dirt track. Andavo forte, vincevo le gare e i campionati, poi c’è stato un problema». Quale? «Mi facevo troppo male. Andavo forte e cadevo, aspettavo di guarire e poi tornavo in moto, andavo ancora più forte e cadevo di nuovo... Dovevo sempre ripartire da capo. A 14 anni avevo già 23 fratture! Mi sono reso conto che stavo distruggendo il mio corpo e ho capito che avrei dovuto provare qualcosa d’altro. Sono passato alla velocità. Ed è stata la scelta giusta». Ma hai dovuto lasciare il tuo Paese. «In Europa, in particolare in Italia e in Spagna, i bambini e i ragazzini hanno i piloti della velocità come idoli; iniziano con le minimoto, poi fanno un percorso in crescendo. In Australia questo è impossibile: non esistono le minimoto, non c’è questa cultura. Ecco perché mi sono avvicinato alla velocità a 14 anni». Come hai cominciato? «Venni invitato in Tasmania, per una gara del campionato australiano Superbike, e finii settimo. Mi sono divertito, ho deciso di continuare. Ho chiuso la stagione in quarta posizione, anche se ho dovuto rinunciare a 4 gare perché in certi Stati a 14 anni non si può gareggiare. E ho vinto il campionato junior 125. Ho capito subito che restando in Australia non sarei andato da nessuna parte, così ho sfruttato un contatto con un meccanico per organizzare un viaggio in Europa». E sei approdato in Spagna. «Quando ho fatto la mia prima gara nel CEV avevo percorso un migliaio di chilometri su una GP, ma presi un punto. Ho corso in Germania, poi sono approdato al Mondiale. E questa è la mia prima stagione in un team di così alto livello». Provieni da una stirpe di piloti che ha fatto cose importanti in questo sport. Hai tratto ispirazione da qualcuno? «All’inizio i miei riferimenti erano ben altri: ho cominciato con il motocross, quindi da piccolo mi ispiravo a McGrath e a Carmichael. Quanto ai piloti australiani di velocità, li rispetto tutti: ad esempio Doohan, Beattie, Corser; e Bayliss, che apprezzo molto per il suo approccio alle corse e alla vita. Ma se devo indicare un nome, dico Wayne Gardner». Perché proprio lui? «È andato in Europa quando per un ragazzo australiano non era facile fare questa scelta. Non esistevano dei grandi collegamenti con il paddock, non c’erano le possibilità di oggi. Lui è partito solo con una valigia, e ha aperto la strada a tutti noi. Se oggi un australiano arriva ai GP facilmente, è anche grazie a lui». C’è qualche ex star che ti ha aiutato? «Nessuna! Abbiamo fatto da soli, in famiglia. A volte sbagliando, ma sempre imparando qualcosa. Devo tutto ai miei genitori: loro hanno preso il rischio, anche finanziario». Vivono con te, in Europa? «Mia madre sin dal 2010 è stata sempre con me; mio padre restava solo per metà stagione, perché doveva stare in Australia per seguire la sua attività. Mia madre è stata con me fino alla fine del 2013, adesso sto da solo». Gli australiani di solito hanno nostalgia di casa. Tu ne hai? «Certo, però me la faccio passare perché ho degli obiettivi da raggiungere: voglio vincere il più possibile». Sei giovane, ma sembra che tu abbia già tutto chiaro in testa. «Ho nostalgia della mia terra e della mia vita laggiù, ma la vita è fatta di compromessi e io ho accettato il compromesso che consiste nel vivere a 15.000 km da casa pur di fare ciò che amo di più al mondo: correre in moto. C’è gente che si alza all’alba per andare a lavorare, altri passano la loro giornata in un ufficio. Dai, siamo onesti, uno come me resta un privilegiato». Giusto! «Quanto alla nostalgia, non voglio fare come quelli che si chiudono in se stessi e non si godono ciò che di bello offre questa vita. Io mi godo la libertà, voglio vedere e capire il mondo: voglio allargare i miei orizzonti, aprire la mia mente. È importante, per un giovane. Quindi mi sto creando un giro di amicizie in Spagna e in Europa, e cerco di divertirmi più che posso». Hai ragione, quando sottolinei che non sei come Stoner. «Lo dico non perché non stimo Casey – che reputo un pilota eccezionale – ma perché io sono diverso. Casey, come dire, è una persona particolare... È un tipo un po’ speciale». Lui non visse bene come te, in Europa. «Casey non l’ha apprezzata perché non ha mai voluto staccarsi veramente dall’Australia. Invece io dico a me stesso che questa è la mia seconda vita, che l’Europa è la mia seconda casa, e che quando avrò terminato la carriera sarò ancora un uomo giovane che si godrà la sua vita in Australia. È inutile guardare solo gli aspetti negativi: per me correre in moto è il sogno della vita, è il lavoro che volevo fare, quindi viaggiare tanto e stare poco in Australia fa parte del gioco. E poi io considero questa fase della mia vita molto eccitante: ho appena raggiunto l’età per guidare da solo, in tutti i Paesi, quindi sono libero di andare in giro. Cerco di imparare a cavarmela da solo. Faccio degli errori, ma la vita è fatta di esperienze e servono tutte». Puoi tornare a casa quando vuoi... «Ma io non voglio vivere in aereo. Non mi va di stare seduto per 28 ore, senza sapere cosa fare, solo per stare a casa qualche giorno. È una sciocchezza. C’è chi lo fa, ma io non lo voglio fare. Ecco perché mi sto organizzando la vita in Europa: voglio stare bene qui». La tua cultura della moto ha influenzato anche la tua guida? «Assolutamente. Noi, come gli americani, tendiamo ad avvicinarci subito alle moto potenti perché da noi non esistono le moto piccole. E poi la mia guida è molto “fisica”, perché deriva dai miei trascorsi nel cross e nel dirt track: uso il freno posteriore per indirizzare la moto. In questo sono agevolato dalla KTM, che è perfetta per il mio stile: durante l’inverno abbiamo fatto tanti test e abbiamo trovato delle regolazioni perfette». In moto sei istintivo o riflessivo? «Per ora tendo a fidarmi più del mio feeling, ma forse è perché guido moto piccole e sono agli inizi. Diciamo che faccio quello che mi sento, anche se questa mentalità mi ha fatto commettere degli errori anche quest’anno». Dovrai tenerlo a mente per la prossima parte del campionato. «È vero, visto che voglio vincere il titolo. Devo sforzarmi di pensare che in certi casi va bene anche gestire la situazione, o il vantaggio, stando calmi». Però hai già dimostrato di saper gestire la gara, tenendoti per il finale. «Questo deriva dalle esperienze che ho fatto lo scorso anno, quando avevo una moto non molto potente e quindi dovevo usare altre strategie». Nel 2013 ti sei fatto notare perché eri l’unico che andava forte con la Honda. «La moto non era poi quel disastro che tutti dicevano. Cioè, non era la migliore, però aveva anche dei pregi e ho cercato di sfruttarli. Non aveva “motore”, ma aveva un ottimo telaio che permetteva di essere veloci nei cambi di direzione e anche nella percorrenza della curva: mi sono concentrato su quella tecnica di guida. Per compensare la scarsa potenza del motore». Furbo, oltre che talentuoso. «Un buon telaio ti permette di consumare meno le gomme e così puoi essere efficace nel finale. Se non distruggi le gomme, nel finale te la puoi giocare. Infatti lo scorso anno nel finale di stagione, cioè in Malesia e in Australia, mi sono avvicinato al podio, e ho visto che la vittoria non era poi così lontana, perché ho cambiato la mia guida in base all’esigenza di consumare meno le gomme. Di fatto ho iniziato un lavoro che mi servirà, perché con qualsiasi moto tu abbia a che fare è fondamentale saper gestire le gomme». Quest’anno sei salito sulla KTM e hai iniziato a vincere. Te lo aspettavi? «Aspettarmelo no, ma era il mio obiettivo. Pensavo che avrei vinto qualche gara, non che avrei vinto la prima gara e la seconda...». Ora sei il leader del mondiale e tutti i top team ti vorrebbero. «Ma io tengo i piedi per terra, anche perché è fondamentale. Quando sento le belle cose che dicono su di me, ovviamente mi fa piacere però non mi esalto. Io voglio vincere in tutte le categorie in cui corro, ma sono nella fase in cui sto costruendo la mia carriera. E devo stare calmo. Per fare le scelte giuste ci vuole umiltà e ragionamento». A proposito, te la sentiresti di guidare una MotoGP già il prossimo anno? «Se ne parla tanto, ma bisogna riflettere bene. Si sta dicendo di tutto, e so bene che un mio connazionale lo ha già fatto: Garry McCoy passò dalla 125 alla 500. Ma prima di fare certi discorsi, bisogna che arrivino un accordo e un progetto vero. E ancora non ci sono». Cosa hai in mente? «L’obiettivo finale è certamente la MotoGP. Lo è per le mie aspirazioni, per la mia cultura, perché l’Australia ha bisogno di un protagonista della MotoGP e io penso di poter essere quel pilota. Ma vediamo quando si concretizzerà». Il manager del Team Marc VDS dice che hai un contratto di due anni con loro per correre in Moto2. «Io mi sento libero di fare quello che voglio della mia vita e della mia carriera». Dici così perché nell’accordo c’è la clausola liberatoria nel caso di un’offerta da parte di un team della MotoGP? «Lo dico perché non saranno loro a decidere cosa devo fare della mia carriera. Ho diverse possibilità e le decisioni che mi riguardano le prendo io». Quindi hai un piano. «Di sicuro non voglio restare in Moto3. Primo perché voglio fare un altro passo avanti guidando moto più grosse. Poi perché peso 63 kg ed è troppo per la Moto3: mi tocca patire la fame, per guidare questa moto!». Dovrai evolvere rapidamente la tua tecnica di guida. «Studio in continuazione: per me imparare è un piacere e un dovere». Qual è la tua caratteristica tecnica principale? «La frenata. Mi vedo bene anche nella velocità di percorrenza della curva, che è molto importante, ma sto lavorando molto sulla tecnica della staccata perché può risolvere il duello nell’ultimo giro. Adesso e soprattutto nei miei duelli futuri nelle classi maggiori». E la guida in derapata? «È importante, ma non posso svilupparla più di tanto perché la Moto3 non ha la potenza necessaria. Puoi derapare un po’ in frenata, ma non in uscita di curva. Lo vedi, questo è un altro motivo per cui voglio andare via. Voglio evolvere e imparare altre cose. Quindi mi serve una moto più potente». Enrico Borghi 181_Test_Jerez_Miller_2014

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