A tu per tu con Dennis Foggia: corsia di sorpasso

A tu per tu con Dennis Foggia: corsia di sorpasso

‘Adoro le rimonte, la battaglia mi ha sempre esaltato sin dalla prima volta su una minimoto. Al debutto nel Mondiale ho capito di poter essere protagonista: voglio un titolo e poi... diventerò un tatuatore’

 

13.03.2018 15:48

“Predestinato è colui che è «Nato con un determinato destino“. Fabio Foggia, per essere certo della definizione e di quanto aveva appena visto, lo andò a controllare sul dizionario. Il suo primogenito Dennis aveva appena trascorso un pomeriggio a tirare staccate, effettuare sorpassi ed emulare le pieghe con ginocchio e gomito a terra dei fenomeni del Mondiale. Niente di speciale, non fosse che si trattava di un bambino di cinque anni che quel giorno era salito su un mezzo a due ruote a motore per la prima volta. «Da motociclista, e appassionato del Motomondiale – racconta Foggia senior – acquistai due minimoto per me e un amico, e il parcheggio di un supermercato qui vicino, a Pantano Borghese, in alcuni giorni era adibito a pista per mezzi del genere. Affascinati da queste minimoto, Dennis e il figlio del mio amico ci chiesero di fare una prova: potete immaginare la mia faccia vedendo Dennis che si lasciava sorpassare perché voleva prendere la scia all’altro bambino, per poi superarlo in frenata e cercare la piega in curva. Era impressionante per quanto, così piccolo, sfrecciava via: infatti lo soprannominai ‘missiletto’, che poi è diventato un più internazionale The Rocket».  


 
Non deve sorprendere se oggi, alla vigilia della prima stagione intera nel Motomondiale, inseguimenti, staccate da brivido e velocità in curva siano i punti di forza del talentuoso diciassettenne romano dello Sky VR46, giunto sul palcoscenico più importante grazie al trionfo nel mondiale Junior del CEV, frutto di tante implacabili rimonte. Un percorso arricchito da tre wild card iridate, nelle quali è sempre andato a punti, togliendosi lo sfizio di un ottavo posto ad Aragón (a sette decimi dal vincitore) e un settimo a Valencia.  
 
- Dennis, l’approdo al Motomondiale era il tuo destino.  
«Non voglio esagerare, di certo è sempre stato il mio sogno. La strada per raggiungerlo è stata lunga, lunghissima, anche perché io sono partito da Palestrina, provincia di Roma, un po’ lontano dalla terra dei motori, ma la passione è stata più forte di ogni ostacolo. La cosa strana è che da un lato io e la mia famiglia abbiamo già fatto tantissimo, ma per molti versi il percorso comincia soltanto ora».  

- Come trascorri il primo inverno da pilota del Mondiale? 
«Lavorando sodo, l’allenamento è diventato più intenso: tre sessioni in palestra alla settimana, e ogni sabato sono al Ranch di Tavullia. Vivo l’attesa in modo tranquillo, anche perché il mio team non si aspetta immediatamente risultati enormi, vogliono che cresca e che impari in fretta. Sono convinto di poterlo fare, sono in un team con tecnici molto esperti, e poi studierò i miei avversari».  

- Nelle prime uscite iridate, chi ti ha impressionato? 
«Joan Mir è stato strabiliante: viveva la situazione ideale, a livello tecnico e mentale, la sua marcia in più era evidente. Però, magari, con un po’ d’esperienza me la sarei potuta giocare anche con lui, o quantomeno sorpassarlo almeno una volta».  


 
- Il giorno del trionfo nel CEV, il debutto iridato, le due Top 10 in Moto3: qual è stato il momento da incorniciare del 2017? 
«Vi sorprenderò, ma non cito nessuno di quei giorni. Il mio weekend preferito è stato quello di inizio luglio a Valencia, dove mi sono sbloccato con una doppietta nel CEV. Non vincevo una corsa da quasi tre anni, dai tempi della Pre-Moto3, e nella tappa precedente a Barcellona mi era caduto il mondo addosso: ero stato primo in gara 1, ma mi avevano penalizzato di cinque secondi facendomi retrocedere al nono posto. A Valencia, allora, quei cinque secondi li ho restituiti a tutti, e la doppietta in solitario mi ha permesso credere in me stesso, ho compreso il mio potenziale. Anche se già a Le Mans avevo intuito qualcosa».  

- Cosa? 
«Ero risalito dal 18° posto in griglia fino alla seconda posizione in gara: quando effettui tanti sorpassi, oltretutto senza manovre azzardate né scorrettezze, capisci di valere. Le rimonte hanno caratterizzato tutto il mio percorso nelle gare».  

- Da dove nasce la tendenza a essere “animale da gara”? 
«Sono un agonista, mi sono sempre trovato meglio nella bagarre in corsa, rispetto alle prove e alle qualifiche. Sin dalle prime gare qui a Torricola, dove aveva iniziato anche Simone Corsi. Forse è tutto merito della primissima gara, un trofeo di Natale: arrivai ultimo, compresi che bisognava fare qualcosa».  

- Quanti anni avevi? 
«Quasi sette: poche settimane dopo la prova nel parcheggio del supermercato, infatti, ci rubarono le due minimoto, ma dopo un anno mio padre me ne ricomprò una. Andai sul podio già alla terza gara, a nemmeno nove anni ero pilota ufficiale con il Team Polini».
  
- A quale età le moto hanno smesso di essere puro divertimento per diventare qualcosa di più serio? 

«Le moto sono ancora un divertimento, ma sono diventate anche una cosa molto seria ai tempi della MiniGP. E il mio approccio è sempre stato serio, anche quando mi alleno sono molto esigente con me stesso. Poi una svolta è arrivata con la Pre-Moto3 nel CIV, nel 2014: quel campionato mi consentì di farmi conoscere e grazie anche al canale tra RMU e VR46, venni reclutato dalla Academy».  

- Hai iniziato a correre in Spagna a 12 anni, come hai vissuto l’adolescenza molto differente rispetto ai tuoi coetanei? 
«Iniziare con una pole e una vittoria, ad Alcarras nella classe 80 due tempi, mi aiutò anche nell’ambientamento a quelle gare. Certo, lo stile di vita è stato differente rispetto ai compagni di scuola, però mi sono sempre sentito un privilegiato, tutti vorrebbero essere al mio posto, anche se per arrivare fin qui sono serviti, e servono tanti sacrifici».  

- Quali sono state le principali rinunce? 
«Ci sono anni che non mi sono goduto appieno, la scuola era diventata una sfida tra me e i professori: non andavo male, però le assenze erano troppe per evitare le bocciature, e ho dovuto mollare, ora frequento lezioni private di inglese. Per fortuna ho mantenuto certe amicizie, ma ho trovato anche qualche invidioso. E purtroppo un mio difetto è che ci rimango male quando qualcuno mi fa un torto oppure non si comporta bene, peso un po’ troppo le cose. Ma ripeto, sono felice per quanto ho fatto, ho raggiunto grandi obiettivi». 

- Hai citato un difetto, quale pregio ti assegni?  
«Non mi sono mai montato la testa. Merito anche della mia famiglia, non credo esista un aggettivo per definire il sostegno dei miei genitori, ma al tempo stesso mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra. Nasce tutto da loro, da mio fratello Christian che adora studiare e dalla mia sorellina Sofia, che ha cinque anni e dice che ama la velocità (e che anima l’intervista correndo su e giù per casa, ndr)».  

- Quando hai avuto chiaro, in mente, che saresti diventato un pilota professionista? 
«A fine 2016, nelle ultime gare del mio primo anno nel CEV, quando in mezzo ai Ramirez, Arenas e Dalla Porta, che ha vinto il titolo, non ho sfigurato, anzi, ho effettuato rimonte dal 20° posto fino ad andare al comando».  

- L’inizio nel Mondiale è subito con un team di nome come Sky VR46, del quale tu simboleggi la volontà di promuovere il talento. 
«Penso sia il miglior team della categoria, so di essere fortunato. La cosa che mi piace di più è la fiducia che sento attorno a me, poi so bene che ci saranno attese e attenzioni particolari, in più sostituisco l’unico pilota – Andrea Migno – che l’anno scorso ha vinto con la KTM. Voglio rimanere tranquillo, è il modo migliore per mostrare il mio valore». 

- Qual è la differenza tra CEV e Moto3? 
«La differenza di maggiore impatto, secondo me, è a livello di seguito: c’è molta più gente a vederti, ci sono i maxi-schermi a bordo pista, è tutto impressionante». 

- E a livello tecnico e di guida, qual è il principale adeguamento? 
«Non è nel metodo o nelle incombenze del weekend, perché già nel CEV vieni abituato a lavorare in ‘modalità Motomondiale’, sotto questi aspetti il salto vero era stato tra il CIV e il campionato spagnolo. La differenza tra CEV e Mondiale è che ci sono piloti fortissimi che se devono passare non chiedono il permesso. Nel CEV riuscivo a difendermi meglio, e invece nel Mondiale le cose sono differenti, me l’aveva anticipato il nostro team manager Pablo Nieto». 

- Cosa ti aveva detto? 
«Prima di Aragòn e Valencia era stato chiaro: “Quando sei in gruppo, non ti distrarre e soprattutto non smontarti se vieni superato, perché risalirai il gruppo”. Parole sante. Io, poi, mi sono affidato anche alle mie orecchie». 

- In che modo? 
«Ho imparato che, in battaglia, si deve ascoltare il rumore delle moto che ti seguono, così capisci cosa fanno i tuoi avversari. E un ulteriore punto di riferimento, in certe giornate di sole, è l’ombra delle altre modo».  

- Cosa ti dice Valentino Rossi? 
«Mi ha fatto i complimenti perché sono progredito nella posizione di guida al Ranch: nel Flat Track si guida a gomiti più larghi, mentre io avevo l’abitudine di mantenere una postura da velocista, sempre molto chiuso. Ogni volta che ho a che fare con lui mi chiedo se sia vero oppure no: per chi, come me, è cresciuto guardandolo in TV, Valentino appartiene quasi alla realtà virtuale, a un’altra dimensione. Ha due gambe e due braccia come tutti noi, ma quando ce l’ho di fronte mi chiedo sempre se sia appena spuntato fuori dal televisore».  
 
Il primo confronto con i piloti del Mondiale è stato positivo: te l’aspettavi proprio così? 
«No, sono stato sorpreso: mi sarebbe piaciuto ottenere risultati del genere, ci speravo, ma in fondo non ci credevo. Ho capito che se ti prepari bene e non lasci nulla al caso i risultati arrivano».  

- In quali dettagli ti sei visto già al livello degli avversari della Moto3? 
«In gara ho visto che, dando il 100%, sono stato in grado di rimanere con i big, ma ci sono cose che devo imparare anche nell’ambito della battaglia. Ho acquisito più fluidità nella guida e questo ha aiutato il mio comportamento in qualifica, dove però devo ancora lavorare, perché in gara riesco sempre a dare qualcosa in più. Ad Aragón il rimpianto è stato per la nostra velocità in rettilineo, a Valencia è andata meglio, anche grazie ad alcuni pezzi già in ottica 2018». 

- Qual è l’obiettivo per il 2018? 
«La Top 10 a fine campionato sarebbe un successo, ci proveremo». 

- Chi vedi in corsa per il mondiale? 
«La lista è lunga: in ordine sparso direi Martin, Ramirez, Bulega, Rodrigo, Bastianini, Canet, Di Giannantonio, Dalla Porta, Arbolino, sono tutti piloti veramente forti. Ne ho detti nove, non sarebbe male arrivare subito dopo».  

- Enea Bastianini ha parlato di 15 piloti in grado di vincere una gara: essere nella Top 10 può essere sinonimo di lotta per la vittoria? 
«Magari, ma adesso non voglio cavalcare troppo con le aspettative». 

- In caso di vittoria riproporrai la “dab dance” come nel CEV? 
«Non ci penso, in quel caso era una promessa fatta a mio fratello». 

- È un’esultanza da calciatore. 
«Ma io non amo troppo il calcio, simpatizzo per la Lazio ma nulla di più».  
 
- A lunga gittata, invece, qual è il tuo obiettivo? 
«Sono salito di una categoria dopo ogni stagione: scherzando, dico che nel CEV mi sono ‘fermato’ un anno, quindi per recuperare nel 2019 sarò in MotoGP! In realtà, ho già coronato due sogni, arrivando nel Mondiale ed entrando nella VR46 Academy, una soddisfazione e un’esperienza di vita che nessuno mi potrà mai togliere». 

- C’è un terzo sogno? 
«Vincere un titolo e arrivare in MotoGP, ma immagino sia comune a tanti colleghi... Non mi sono dato scadenze, ma immagino che per la MotoGP se ne riparlerà fra 5-6-7 anni. Però se continuo a fantasticare non ci arriverò mai, meglio concentrarsi sul presente». 

- Aspetti la prima vittoria iridata per il prossimo tatuaggio? 
«Non lo so, adesso siamo a nove, il primo lo feci al debutto nel CEV, la scritta “The Rocket” ispirata al mio soprannome. Ora mi fermo un po’ con i tatuaggi, mia mamma non è entusiasta... Però i tatuaggi mi hanno spinto a tornare a studiare e a leggere, mi sono documentato sull’origine di questa pratica, mi sono appassionato. E leggendo Motosprint ho avuto un’altra idea...». 

- Quale? 
«Franco Morbidelli vi aveva detto che avrebbe aperto un bar sulla spiaggia, doveva soltanto scegliere il luogo. Ecco, a fine carriera magari diventerò un tatuatore, girando il Mondo troverò il posto giusto, anche se prima vorrei vincere qualcosa in pista».

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