        Ultima puntata della rassegna storica degli stilisti italiani che hanno dato il loro contributo al progresso tecnico ed estetico della motocicletta. Questa volta il primo ad apparire sulla nostra scena &egrave; Paolo Martin, figura meno nota al pubblico dei motociclisti rispetto ad altri suoi colleghi, ma di grande rilevanza per il lavoro svolto in tanti anni tra il 1960 e il 1990 in favore delle quattro e delle due ruote, motorizzate e non, e anche della nautica. Tra le numerose automobili speciali da lui firmate cito la Ferrari Dino 206 Competizione e la Rolls-Royce Camargue. L'estetica secondo Bimota | Polvere di Stelle Paolo Martin  Nato a Torino il 7 maggio 1943, cominci&ograve; nel 1960 a disegnare automobili e a produrre stampi presso la carrozzeria Michelotti, uno dei pi&ugrave; celebri atelier torinesi dove, in quel periodo, si disegnavano auto speciali per conto di altre famose firme come Bertone e Pininfarina. E proprio in queste due primarie aziende a livello mondiale Martin si trasfer&igrave; negli anni successivi, apprezzato per le due doti naturali di stilista e per l&rsquo;esperienza maturata, che lo port&ograve; dapprima a diventare responsabile del design Pininfarina, poi, nel 1973, a ricoprire lo stesso ruolo presso la Ghia, che faceva parte del Gruppo De Tomaso. Qui si avvicin&ograve; professionalmente anche al mondo della motocicletta e, a differenza di colleghi come Bertone e Giugiaro, ne fu massicciamente coinvolto, tanto che la sua attivit&agrave; per Benelli, Moto Guzzi e Piaggio-Gilera si tradusse in almeno una quarantina di modelli prodotti in serie. Non potendo citare l&rsquo;intera lista, mi limito a segnalare i pi&ugrave; noti. Per la Benelli disegn&ograve; la serie 125- 250 delle bicilindriche due tempi, e la gamma delle quattro cilindri quattro tempi (250-350-500), condivise con la Moto Guzzi, nonch&eacute; la 750 sei cilindri. Per la Moto Guzzi vest&igrave; moto di successo come la 850 Le Mans, le V35-50, la California, la 850 T3 e soprattutto 750 S e S3, la cui linea elegante e sportiva venne giustamente considerata un capolavoro. Alla Gilera dett&ograve; lo stile di numerosi ciclomotori, tra cui i 50 CBA, GSA ed Eco, di altrettanti 125, dal TG1, all&rsquo;RX e RV, allargandosi al Fuoristrada con l&rsquo;Elmeca 125 e con le 350-500 monocilindriche da Enduro, e alle sportive stradali. Molto pi&ugrave; ridotta fu la sua presenza sugli scooter Piaggio, anzi, disegnando la carrozzeria della catastrofica &ldquo;Cosa&rdquo; probabilmente incorse, assieme alla Casa di Pontedera, nel suo pi&ugrave; pesante insuccesso. Paolo Martin fu dunque l&rsquo;artefice dell&rsquo;estetica di moltissime motociclette di quel periodo, sia da dirigente della Ghia che, dopo il 1976, da libero professionista. &nbsp; Leopoldo Tartarini  Leopoldo Tartarini negli anni Cinquanta era stato famoso come corridore di grande talento e giramondo di successo. Divenne poi imprenditore, fondando la Casa motociclistica Italemmezeta&ndash;Italjet, e allo stesso tempo designer dotato di inventiva, senso artistico e &ldquo;matita eccellente&rdquo;. Dopo aver disegnato e prodotto i suoi primi modelli, fra cui l&rsquo;iconica Mustang 50, nel 1966-67 Tartarini, partendo dal motore della Triumph Bonneville, cre&ograve; la Grifon, una moto decisamente pi&ugrave; aggressiva di linea rispetto all&rsquo;originale inglese, e anche pi&ugrave; performante grazie a una ciclistica superiore, dai freni, al telaio, alla posizione di guida. Un grande successo limitato soltanto dal ridotto potenziale industriale della piccola fabbrica bolognese di San Lazzaro di Savena. Disegn&ograve; in seguito numerosi modelli per la Ducati e per altri costruttori anche stranieri, ma il suo capolavoro fu una moto pieghevole, la Pack 2 del 1979, un prodotto originalissimo che non era soltanto utile e perfettamente concepito per essere trasportato nel baule di un&rsquo;automobile, su una barca o in un camper, ma venne anche riconosciuto come prezioso oggetto di design, tanto da ottenere stabile esposizione al Museo d&rsquo;Arte Moderna di New York. La Pack 2 aveva un telaio in acciaio e le sovrastrutture in gomma e poliuretano, mentre il motore era lo stesso del Piaggio Ciao.  &nbsp; Alberto Strazzari  Alberto Strazzari &egrave; un &ldquo;tecnico a trecentosessanta gradi&rdquo;. Appassionato di moto, nel 1979 fond&ograve; a Castenaso, immediata periferia di Bologna, la Engines Engineering, inizialmente, forse, con il semplice obiettivo di creare un centro stile al servizio delle numerose industrie motociclistiche del territorio. Ma si accorse subito che in realt&agrave; gli piaceva, e gli riusciva, andare oltre il semplice disegno, e che le aziende del bolognese, ma non soltanto, avevano bisogno proprio di questo. Cos&igrave; la Engines Engineering cominci&ograve; ad allargarsi, anno dopo anno, riuscendo a proporre, in completa autonomia, o in collaborazione con il cliente, progetti completi, a realizzarne i prototipi e a predisporre infine l&rsquo;industrializzazione del modello di serie. L&rsquo;azienda fondata e ancora oggi diretta da Strazzari &egrave; un fenomeno pressoch&eacute; unico nel suo genere in campo motociclistico. Del suo talento e della sua esperienza si sono servite e si servono aziende di tutto il Mondo, Giappone compreso, per le quali ha creato modelli di ciclomotori, motociclette e scooter che si sono sempre distinti sul mercato. Collaborando in esclusiva per l&rsquo;Italia con la Malaguti, Alberto Strazzari ha prodotto il suo capolavoro, l&rsquo;F12 Phantom, primo scooter con ruote di 12&rdquo;, ma soprattutto un veicolo straordinario ed entusiasmante per grinta, eleganza, prestazioni e qualit&agrave;. Il Phantom &egrave; stato il best seller della Malaguti, che dal 1993 al momento della chiusura dell&rsquo;attivit&agrave; industriale ne ha prodotti circa 450.000.  &nbsp; Oberdan Bezzi  Oberdan Bezzi, a differenza di Strazzari, non va oltre il disegno delle moto e non si cura quindi anche della prototipizzazione, degli stampi. &Egrave; un autentico stilista che traduce in immagini la passione tipica dei romagnoli &ndash; &egrave; di Riccione &ndash; per la motocicletta reinterpretando le forme e lo stile di modelli gi&agrave; affermati, o proponendone di nuovi. Notissimo fra gli appassionati, ha una mano felicissima e una tendenza a riproporre, modernizzandole, sagome rese famose da moto, soprattutto italiane, che in passato hanno goduto di grande successo. Concludo questa rassegna con un &ldquo;fuori tema&rdquo;. Dopo aver dedicato per quattro settimane lo spazio di questa rubrica ai designer italiani pi&ugrave; noti dal secondo dopoguerra ai primi anni Novanta, non posso non citare due stilisti stranieri che hanno creato modelli innovativi per le Case motociclistiche italiane. La moto pi&ugrave; longeva prodotta da un&rsquo;industria italiana &egrave; probabilmente la Ducati Monster, concepita dall&rsquo;argentino Miguel Galluzzi nel 1992, e ancora oggi orgogliosamente nel ricco catalogo di Borgo Panigale. La naked con il celebre bicilindrico a &ldquo;L&rdquo; in bella vista fu vestita magistralmente da Galluzzi che con questo colpo di genio sal&igrave; nell&rsquo;Olimpo dei designer della moto, dando inizio a una carriera che ancora oggi lo vede protagonista nel suo campo.  &nbsp; Philippe Starck  Philippe Starck &egrave; un astro mondiale del design. Non &egrave; specialista in un campo, bens&igrave; non si pone limiti e affronta con successo sfide di ogni genere, operando in settori diversissimi, dall&rsquo;architettura di interni, alla nautica, agli utensili da cucina, alle lampade&hellip; alle motociclette. Accadde nel 1994, quando Ivano Beggio, titolare dell&rsquo;Aprilia, lo contatt&ograve; chiedendogli di disegnare una motocicletta speciale partendo dal motore monocilindrico della &ldquo;Pegaso&rdquo;. Starck accett&ograve; e si mise al lavoro con questo obiettivo: azzerare in partenza tutte le classificazioni tradizionali della motocicletta: Fuoristrada, caf&eacute; racer, custom, turismo, race-replica, che a suo giudizio rappresentavano un freno alla libert&agrave; d&rsquo;espressione del designer e costituivano un retaggio del passato. Nacque cos&igrave; la Mot&ograve; 6.5, modello decisamente anomalo nel panorama motociclistico, caratterizzato da linee tondeggianti sia per la carrozzeria, accuratamente studiata per integrare tutti i suoi componenti in un disegno complessivo, che per il telaio. Non era soltanto una moto: era un quadro d&rsquo;autore. Onestamente avrebbe meritato un po&rsquo; pi&ugrave; di cura costruttiva e un po&rsquo; meno economia negli accessori, ma non furono queste le ragioni del suo insuccesso commerciale: semplicemente i motociclisti &ndash; conservatori per natura &ndash; allora videro la Mot&ograve; 6.5 come un&rsquo;intrusa e le voltarono le spalle. Oggi la Mot&ograve; 6.5, esposta anche al Museo Guggenheim di New York, &egrave; diventata un oggetto carico di attrazione per i collezionisti e i cultori delle opere d&rsquo;arte.  Chi &egrave; nato prima tra auto, moto e triciclo? | Polvere di Stelle       

Parliamo di grandi stilisti, come Starck, autore dell&rsquo;Aprilia Mot&ograve; 6.5 esposta al Guggenheim. Anche la Pack 2 di Tartarini fu protagonista a New York

Quando le moto diventano pezzi da museo | Polvere di Stelle

        La nostra storia comincia dal 1973 e inizia con due nomi di massimo prestigio &ndash; Bimota e Massimo Tamburini &ndash; che meriterebbero mille volte lo spazio di questa rubrica. La Casa riminese debutt&ograve; quell&rsquo;anno con l&rsquo;ambizioso obiettivo di costruire moto sportive e da corsa di assoluta avanguardia non soltanto nella tecnica (motore escluso), ma anche nell&rsquo;estetica. E Tamburini, autodidatta animato da un incredibile talento naturale e da una passione infinita, con l&rsquo;importante contributo di Giuseppe Morri, socio fondatore e abile amministratore, fu l&rsquo;uomo capace di realizzare autentici capolavori e intuire soluzioni ardite e innovative che avrebbero destato meraviglia. Tra i modelli Bimota da lui disegnati e plasmati ne ho scelti due, uno stradale e uno da GP: KB1 e YB1, entrambi prodotti all&rsquo;inizio dell&rsquo;attivit&agrave; della Casa riminese e artefici di una fama propagatasi fulmineamente fra gli appassionati di moto di tutto il Mondo. Chi &egrave; nato prima tra auto, moto e triciclo? | Polvere di Stelle Bimota: KB1 e YB1  La KB1, ossia Kawasaki-Bimota 1, fu la trasformazione ideata da Tamburini per la Z1 900, potentissima quattro cilindri con cui la marca giapponese aveva fatto la sua comparsa fra le maxi-moto sportive con motore quattro tempi. Trattandosi di un modello esuberante di cavalli che la ciclistica di serie stentava a contenere, e con un&rsquo;impostazione estetica ed ergonomica da gran turismo certamente inadeguata alle prestazioni disponibili, il designer romagnolo decise di stravolgere la moto originale. Dotandola cos&igrave; di un nuovo telaio, di ruote e freni al top, e di un gruppo sella, serbatoio e carenatura da autentica &ldquo;racing&rdquo;. Il successo fu immediato, tanto che la KB1 fu la Bimota pi&ugrave; venduta dei suoi primi vent&rsquo;anni. La YB1 (Yamaha-Bimota 1) venne costruita con l&rsquo;intento di partecipare alle corse del campionato italiano nelle classi 250 e 350, dove il competitivo bicilindrico due tempi di Iwata era disponibile e garantiva prestazioni sufficienti per competere al pi&ugrave; alto livello. Tamburini disegn&ograve; per questa moto un telaio leggerissimo la cui caratteristica, unica nel suo genere, era il percorso diretto del tubo superiore dal cannotto di sterzo al fulcro del forcellone, una struttura che sarebbe stata in seguito universalmente adottata. Concep&igrave; poi una scocca in vetroresina incorporante la sella e il rivestimento del serbatoio del carburante, perfettamente accordata con la profilatissima carenatura. La YB1 si rivel&ograve; tanto competitiva da lottare subito per la vittoria con i piloti della Bimota, i riminesi Luigi Anelli e Giuseppe Elementi, e questo indusse molti loro avversari e parecchi team fra i pi&ugrave; quotati a livello internazionale ad acquistare le moto o i kit di trasformazione Bimota, introducendoli anche nel Mondiale. &Egrave; superfluo ricordare che Massimo Tamburini, una volta interrotto il rapporto con la Bimota, disegn&ograve; poi per la Ducati la splendida 916 e per la MV l&rsquo;altrettanto stupefacente F4. A proposito di quest&rsquo;ultima non posso esimermi dal proporre un aneddoto circa la presentazione della Superbike con cui il marchio MV torn&ograve; dopo anni di assenza dal mercato. Tamburini &ndash; che era un tipo abbastanza introverso &ndash; stancatosi in quell&rsquo;occasione di essere al centro dell&rsquo;attenzione, si rivolse a me, dicendomi in dialetto romagnolo &ldquo;Vieni con me, che non ne posso pi&ugrave;&rdquo;. Raggiungemmo una stanza vuota e l&igrave;, tra le altre cose, mi spieg&ograve; che la F4 aveva il telaio scomponibile perch&eacute; lui, amando anche lavorare sulla moto, teneva in considerazione pure i problemi che avrebbero affrontato i meccanici nei loro interventi di manutenzione e riparazione. Per lo stesso motivo aveva fatto in modo di ridurre al minimo le differenze fra le misure dei bulloni e dei dadi. E questo fu il suo esempio: &ldquo;Se una scimmia stupida scende da un albero e vede un bullone per terra vicino a una mia moto, deve capire immediatamente dove va avvitato&rdquo;. Gli feci notare che sulla cartella stampa della MV F4 si leggeva che le pinze dei freni erano &ldquo;autospurganti&rdquo;, una caratteristica unica. E Tamburini, che le aveva progettate, mi spieg&ograve;: &ldquo;Prima di pensare alle moto, facevo impianti di riscaldamento. L&igrave; ho imparato dove va l&rsquo;aria&hellip;&rdquo;. &nbsp; La rivoluzionaria Tesi  Al Salone di Milano del 1983 la Bimota present&ograve; un prototipo rivoluzionario che non era stato disegnato da Massimo Tamburini, uscito dall&rsquo;azienda nei primi mesi dell&rsquo;anno, bens&igrave; da due laureandi ingegneri riminesi con la passione della moto. Si chiamavano Pier Luigi Marconi e Roberto Ugolini e la loro proposta tecnico/stilistica del tutto innovativa era stata coerentemente battezzata &ldquo;Tesi&rdquo;. Da allora sono passati quarant&rsquo;anni e la Tesi &egrave; stata prodotta e anche portata in gara con diverse motorizzazioni e importanti modifiche, ma &egrave; il prototipo &ndash; rimasto tale &ndash; con motore Honda VF 400 a meritare di essere inserito in questa rassegna dei capolavori di design. Tecnicamente il punto focale del progetto Tesi risiedeva nella separazione del lavoro della sospensione anteriore da quello dello sterzo, in modo da ridurre gli effetti negativi della variazione d&rsquo;assetto della moto soprattutto frenando all&rsquo;ingresso di una curva. Per centrare questo obiettivo Marconi e Ugolini avevano disegnato una struttura composta dal forcellone posteriore unito a un inedito forcellone orizzontale anteriore tramite un telaietto in fibra di vetro, kevlar e alluminio sagomato in modo da sostenere anche il motore, alloggiare l&rsquo;ammortizzatore e costituire la parte inferiore della carenatura. Il sistema di sterzo era invece incentrato su un mozzo con movimento angolare a comando idraulico comandato dal manubrio classico, che per&ograve; godeva del vantaggio di potersi collocare non in un punto obbligato, bens&igrave; in quello pi&ugrave; favorevole in relazione alla posizione di guida del pilota. Lo sterzo idraulico, rivelatosi poi troppo poco sensibile, venne abbandonato in favore di un sistema meccanico. La carrozzeria della Tesi era un riuscitissimo compromesso fra esigenze ergonomiche, tecniche, estetiche e aerodinamiche. E non assolveva soltanto il tradizionale compito di integrare sella e serbatoio, ma nella parte superiore e anteriore reggeva anche il manubrio e il sistema di collegamento idraulico con lo sterzo. In ultimo, tra telaio inferiore e scocca superiore era lasciato un ampio obl&ograve; che lasciava intravedere il motore. La Tesi nacque come moto-laboratorio, ma una moto del genere non si era mai vista al Mondo e probabilmente con il tempo e gli indispensabili investimenti, non alla portata della Bimota, e in un ambiente meno conservatore avrebbe potuto cogliere il successo che meritava.  &nbsp; Ricciuti e la 500 Turbo  Giuseppe Ricciuti &egrave; uno stilista che inizi&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; a Roma collaborando con la Futura Motor di Franco Malenotti. Ha disegnato moto di successo per diverse Case italiane, in particolare l&rsquo;Aprilia, per la quale ha firmato, tra gli altri, due modelli importantissimi: lo scooter a ruote alte Scarabeo e la RSV 1000. Ma i due lavori che resero nota la sua straordinaria creativit&agrave; in campo motociclistico risalgono al 1981 e fecero la loro comparsa al Salone del Ciclo e Motociclo di Milano. Per la Laverda quell&rsquo;anno cre&ograve; la RGS 1000, una moto elegantemente sportiva, raffinata, che per&ograve; non ebbe il giusto successo sia per le difficolt&agrave; finanziarie che di l&igrave; a poco iniziarono a manifestarsi a Breganze, che per l&rsquo;intensificarsi della concorrenza giapponese che proponeva modelli supersportivi dal richiamo irresistibile. Per la Moto Morini, Ricciuti disegn&ograve; invece la 500 Turbo, che al Motosalone accese un grandissimo entusiasmo fra gli appassionati, non soltanto per la &ldquo;conturbante&rdquo; presenza della sovralimentazione, che prometteva prestazioni straordinarie, ma anche e soprattutto per l&rsquo;indovinatissima linea sportiva. A dimostrazione di questo, i concessionari in visita a Milano furano concordi nel sollecitare la Casa bolognese a produrla anche senza il &ldquo;turbo&rdquo;, certi del gradimento dei clienti. Non se ne fece nulla, e fu un errore grave. Mettere in produzione la versione sovralimentata avrebbe richiesto un investimento che venne giudicato eccessivo, ma &ldquo;vestire&rdquo; con l&rsquo;abito di Ricciuti la 500, gi&agrave; in catalogo fin dal 1977, non sarebbe stato difficile. Guai, comunque, a citare Ricciuti come disegnatore della &ldquo;Turbo&rdquo;: il ragionier Marchetti, factotum della Casa bolognese, non lo tollerava: "&Egrave; bella?" diceva. &ldquo;&Egrave; una Morini e basta!&rdquo;.  Dal sottomarino all'Europeo | Polvere di Stelle       

Dai capolavori di Tamburini alla Tesi di Marconi e Ugolini: la Casa riminese &egrave; protagonista della nostra rubrica

L'estetica secondo Bimota | Polvere di Stelle

        Fu inventata prima la motocicletta o l&rsquo;automobile? Per dare una risposta a questa domanda, assai pi&ugrave; complicata di quanto possa sembrare, innanzitutto bisogna accordarsi su cosa si intende per auto o moto, visto che per indagare sulla priorit&agrave; bisogna andare a rispolverare un periodo in cui questi due veicoli non avevano ancora una denominazione precisa. Subito scopriamo che ad avviare quello che sarebbe diventato un capitolo fra i pi&ugrave; importanti della storia della tecnica (dopo l&rsquo;invenzione della ruota) non furono n&eacute; le auto, n&eacute; le moto, bens&igrave; i tricicli. Dal sottomarino all'Europeo | Polvere di Stelle Il triciclo  Una breve premessa: che si potesse far muovere un veicolo grazie al vapore lo sostenne per primo il gesuita olandese Ferdinand Verbiest. Questi nel 1671 don&ograve; al giovane imperatore della Cina, dove era in missione, un carretto a tre ruote (in basso) dotato di bruciatore a legna e di caldaia per produrre vapore che, fuoriuscendo da un tubo posto alla sommit&agrave; della caldaia stessa, si scaricava contro le palette di una piccola turbina collegata, attraverso una serie di ingranaggi, all&rsquo;asse delle due ruote posteriori. Non esistono documenti che provino il successo dell&rsquo;esperimento bens&igrave; alcune immagini del &ldquo;giocattolo&rdquo;, da una delle quali &egrave; nata una riproduzione realizzata dal Museo del Sidecar di Cingoli. &Egrave; invece documentato il successo dell&rsquo;esperimento di Denis Papin che, nel 1707, dopo aver messo a punto una pompa a vapore, la mont&ograve; su un battello e la utilizz&ograve; per far cadere da una certa altezza acqua sulle pale di una ruota semiimmersa nel fiume Fulda a Kassel, in Germania, ottenendo in questo modo una propulsione. I barcaioli del Fulda, visti i risultati positivi delle prove e temendo di perdere il lavoro, un giorno salirono a bordo del battello semovente dello scienziato francese, lo malmenarono e distrussero la barca! Il primo veicolo a muoversi spinto da un motore fu dunque un &ldquo;motoscafo&rdquo;. Ma questo non risponde alla nostra domanda iniziale, che riguarda veicoli terrestri. Joseph Nicolas Cugnot (1725 - 1804) era un ingegnere militare francese di grande inventiva. Nel 1765 aveva cominciato a studiare un pesante carro a tre ruote con propulsione a vapore per il trasporto dei cannoni. Sistem&ograve; una grande caldaia nel punto pi&ugrave; avanzato, davanti al motore, che colleg&ograve; alla ruota anteriore motrice e sterzante. La capacit&agrave; totale dei due cilindri era di 62.000 cm&sup3;. Lo speriment&ograve; per la prima volta nel 1769 all&rsquo;interno di una caserma; il carro, pesante circa cinque tonnellate, si avvi&ograve;, ma essendo privo di freni and&ograve; a sbattere contro un muro. Cugnot ne costru&igrave; un secondo esemplare nel 1771, oggi visibile al Conservatorio d&rsquo;Arti e Mestieri di Parigi. William Murdoch (1754-1839) era un ingegnere scozzese dipendente di James Watt e Matthew Boulton, i quali avevano fondato la prima societ&agrave; per lo sfruttamento del motore a vapore come pompa per l&rsquo;estrazione dell&rsquo;acqua dalle profondit&agrave; delle miniere di carbone della Cornovaglia. Murdoch era un tecnico addetto alla manutenzione e al perfezionamento di questi motori e nel 1784 costru&igrave; un modellino di carretto a tre ruote spinto da un piccolo motore a vapore surriscaldato da una lampada a spirito. Si racconta che nel corso di un esperimento il veicolo, che avanzava emettendo nell&rsquo;aria ampie colonne di fumo, fu visto da un prelato il quale si spavent&ograve; moltissimo avendolo scambiato per il diavolo! Il 13 febbraio 1804, Richard Trevithick (1771-1833) ingegnere minerario della Cornovaglia, conquist&ograve; il suo posto nella storia riuscendo a far percorrere una strada ferrata nel sud del Galles a una sua locomotiva a vapore, che 15 giorni dopo train&ograve;, a 8 km/h un convoglio di cinque vagoni con un carico di 10 tonnellate e 70 uomini. Nacque cos&igrave; la ferrovia, che subito, nella prima met&agrave; del 1800, conobbe uno sviluppo formidabile in tutto il Mondo e apr&igrave; nuovi orizzonti ai viaggiatori e inaugur&ograve; nuovi rapporti fra gli Stati.  &nbsp; Daimler, l'inventore della moto endotermica  Se i veicoli motorizzati, le locomotive, potevano dunque coprire velocemente lunghi tratti su binari di ferro, perch&eacute; lo stesso non si sarebbe potuto fare anche su strade comuni, dove le biciclette gi&agrave; stavano sostituendo &ndash; per quanto possibile &ndash; i cavalli? Il ragionamento non assillava soltanto i cultori del gi&agrave; affermato motore a vapore. In Francia, il belga Etienne Lenoir (1822- 1900), da tempo impegnato nello studio di un motore a combustione interna, nel 1860 ne brevett&ograve; uno di sua concezione a cilindro orizzontale con alimentazione a miscela di aria e gas illuminante. Il rendimento del 4%, pressoch&eacute; irrisorio, non ne imped&igrave; un buon successo commerciale, anche in virt&ugrave; di una sorprendente affidabilit&agrave;. Due anni dopo lo applic&ograve; a un veicolo a tre ruote, che chiam&ograve; &ldquo;Hippomobile&rdquo;, con cui copr&igrave; gli 11 km da Parigi a Joinville Le Pont in 90 minuti. Lenoir dimostr&ograve; dunque l&rsquo;esistenza e l&rsquo;applicabilit&agrave; di un motore alternativo a quello a vapore, ma altri nel frattempo si dedicavano ancora al miglioramento del &ldquo;vapore&rdquo; e in particolare alla miniaturizzazione dei componenti. Fra questi, chi ottenne il miglior risultato fu Sylvester Roper (1823-1896) di Roxbury, nel Massachusetts, il quale tra il 1867 e il 1869 realizz&ograve; una motocicletta a vapore di ottima fattura con cui si esibiva nelle fiere paesane sfidando i cavalieri. Negli anni successivi introdusse numerosi perfezionamenti che collaud&ograve; personalmente finch&eacute;, nel 1896, mentre la guidava su una pista, fu colto da infarto, cadde e cos&igrave;, dopo essere stato il primo motociclista, fu anche la prima vittima di un incidente in moto. La moto di Roper &egrave; custodita nel National Museum of American History di Washington. Nel 1869 anche l&rsquo;ingegnere francese Luis Guillaume Perreaux (1816-1889) brevett&ograve; un velocipede a vapore e molti studiosi segnalano lui come inventore della moto, ma in realt&agrave; il suo veicolo fu sempre sperimentato girando in circolo attaccato &ndash; al posto di un cavallo &ndash; alla ruota di un mulino. Arriviamo cos&igrave; al 1885, quando Gottlieb Daimler (1834-1900) &ndash; ingegnere tedesco gi&agrave; direttore di produzione della Gazmotorenfabrik di Colonia, l&rsquo;industria produttrice di motori endotermici fondata da Nikolaus August Otto, inventore del motore quattro tempi &ndash; costru&igrave;, con l&rsquo;aiuto dell&rsquo;inseparabile amico e collega Wilhelm Maybach, il prototipo di un veicolo-laboratorio a due ruote (pi&ugrave; due piccolissime laterali di sostegno) su cui mont&ograve; un motore quattro tempi monocilindrico da 0,25 CV. Con questo mezzo, battezzato &ldquo;Einspur&rdquo; (monotraccia) il figlio di Daimler, Paul, da Bad-Cannstatt, la localit&agrave; presso Stoccarda dove l&rsquo;inventore si era trasferito dopo un burrascoso addio a Otto, raggiunse senza problemi Untert&uuml;rkheim, distante cinque chilometri. Avendo realizzato il primo veicolo a due ruote con motore endotermico, Daimler viene universalmente ritenuto l&rsquo;inventore della motocicletta. Una perfetta riproduzione della &ldquo;Einspur&rdquo; &egrave; stata riprodotta a grandezza naturale dalla Honda e si pu&ograve; ammirare al museo di Motegi. &nbsp; Dalla moto alle auto  Dopo la motocicletta, &egrave; il momento dell&rsquo;automobile. E qui entrano in scena due donne: Bertha Ringer, moglie di Karl Benz, e Louise Sarazin, moglie di Emile Levassor. Karl Benz (1844-1929) nel 1886 brevett&ograve; la sua &ldquo;Motorwagen&rdquo;, un veicolo con motore quattro tempi da 0,8 CV, e tre ruote di cui una anteriore sterzante e due posteriori motrici. Bertha gli diede fama mondiale, il 5 agosto 1888, quando intraprese con i figli Eugen e Richard un viaggio da Mannheim a Pforzheim per andare a trovare sua madre: 100 km (pi&ugrave; altri 100 per il ritorno) che il triciclo percorse senza problemi e che consacrarono alla storia il coraggio di Bertha e la genialit&agrave; di Karl. Le quattro ruote arrivarono poco dopo per merito di Louise Sarazin, moglie di Edouard Sarazin, lungimirante imprenditore francese di origine belga che si era assicurato la licenza di costruzione dei motori quattro tempi di Otto e Daimler. Edouard mor&igrave; nel 1887 e lasci&ograve; scritto a Louise: "Nel tuo interesse e per il bene dei nostri figli, ti consiglio di mantenere il rapporto d&rsquo;affari con Daimler. La sua invenzione avr&agrave; un futuro, la cui grandezza non possiamo nemmeno immaginare oggi&rdquo;. Louise prese la guida dell&rsquo;azienda e nel 1890 spos&ograve; Emile Levassor che, con Ren&eacute; Panhard, era gi&agrave; stato in affari con Sarazin. Convinto il nuovo marito della bont&agrave; dell&rsquo;investimento, Louise condusse le trattative con Daimler e svolse un ruolo fondamentale nella nascita della prima fabbrica automobilistica del Mondo, la Panhard&amp;Levassor, che nel 1895 vinse anche la prima grande corsa di Velocit&agrave;, la Parigi-Bordeaux-Parigi.  Vincent, rivale della Rolls-Royce | Polvere di Stelle       

Per arrivare alle due e alle quattro ruote &egrave; stato necessario passare per le tre

Chi è nato prima tra auto, moto e triciclo? | Polvere di Stelle

        Questa puntata &egrave; dedicata a una disamina di ci&ograve; che di rilevante &egrave; accaduto nel passato, anche remoto, limitatamente agli anni &lsquo;24. Naturalmente non citer&ograve; gli eventi pi&ugrave; eclatanti e frequenti, soprattutto le guerre, succedutesi ovunque con assurda continuit&agrave;, ma concentrer&ograve; l&rsquo;attenzione sui passi avanti compiuti dalla scienza e in particolare su quelli che hanno portato all&rsquo;esplosione della rivoluzione industriale e, successivamente, all&rsquo;origine della motorizzazione e dei mezzi di trasporto pubblici e privati fino ad arrivare al 1924, un secolo fa. Vincent, rivale della Rolls-Royce | Polvere di Stelle Il primo sottomarino  Quando moto, auto, aerei, piroscafi e grandi industrie erano gi&agrave; in piena espansione. Gli studiosi del progresso umano sono concordi nell&rsquo;affermare che il 1600 fu il secolo in cui si affermarono la mentalit&agrave; scientifica e il metodo sperimentale. Grandissimi &ldquo;cervelli&rdquo;, tra cui Huygens, Cartesio, Galilei, Pascal, Leibniz, Papin e Torricelli in quei cento anni gettarono le basi delle scoperte rivoluzionarie che caratterizzarono i due secoli successivi. Nel 1624 l&rsquo;olandese Cornelius Jacobszoon Drebbel costru&igrave; e collaud&ograve; il primo sottomarino della storia, un battello subacqueo con il quale navig&ograve; in immersione nel Tamigi, a una profondit&agrave; di 3-4 metri, alla presenza del re Giacomo I d&rsquo;Inghilterra. Il motore a vapore, fatto funzionare per la prima volta da Thomas Newcomen come pompa per l&rsquo;estrazione di acqua dalle miniere di carbone nei primissimi anni del 1700, indusse numerosi meccanici e scienziati del tempo a cercare soluzioni che ne migliorassero il funzionamento e il rendimento. Uno di questi, John Smeaton, ingegnere inglese nato nel 1724, non si limit&ograve; a perfezionare la macchina a vapore di Newcomen, ma invent&ograve; numerosi strumenti scientifici e pubblic&ograve; un&rsquo;opera fondamentale sulla forza motrice dell&rsquo;acqua e del vento per far funzionare i mulini. Uno dei primi ad aver pensato al motore a scoppio fu l&rsquo;abate francese Jean de Hautefeuille che, dopo lunghi studi sugli effetti della combustione della polvere da sparo, present&ograve; una sua memoria sul &ldquo;Pendule perp&eacute;tuelle avec la maniere d&rsquo;elever l&rsquo;eau par le moyen de la poudre a cannon&rdquo; in cui elencava le particolari caratteristiche di una pompa da lui ideata che, utilizzando la depressione conseguente allo scoppio di polvere da sparo e il suo repentino raffreddamento, sarebbe riuscita a innalzare l&rsquo;acqua a notevole altezza. Hautefeuille mor&igrave; a Orleans il 18 ottobre 1724. Un mese esatto dopo la dipartita dello scienziato francese concluse la sua esistenza in vita anche Bartolomeu Louren&ccedil;o de Gusm&atilde;o, Gesuita portoghese nato in Brasile, naturalista e inventore ritenuto uno dei pionieri dell&rsquo;aeronautica. L&rsquo;8 agosto 1709 a Lisbona, alla presenza di un importante pubblico comprendente il Re, la Regina, il Nunzio Apostolico e altri membri del Corpo diplomatico e della Corte portoghese, fece volare un pallone riscaldato ad aria, che sal&igrave; fino al tetto della sala e fu distrutto a bastonate per evitare incendi. Il personaggio pi&ugrave; rilevante del 1824 fu Nicolas L&eacute;onard Sadi Carnot, un genio parigino che, appena ventottenne, pubblic&ograve; l&rsquo;opera &ldquo;R&eacute;flexions sur la puissance motrice du feu&rdquo; (Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco). Ucciso dal colera a soltanto 36 anni, lasci&ograve; una traccia indelebile nel mondo scientifico: le sue conclusioni portarono alla definizione del secondo principio della termodinamica, che nega la possibilit&agrave; di costruire una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%. In quello stesso 1824, il colonnello americano John Stevens, dopo alcuni tentativi falliti, riusc&igrave; in ottobre a costruire nella sua fattoria a Hoboken, nel New Jersey, una strada ferrata percorribile da una locomotiva a vapore a caldaia verticale da lui stesso progettata e realizzata. Pur se mai utilizzata in luoghi pubblici, questa locomotiva dest&ograve; enorme interesse e diede fama a Stevens, oggi ritenuto il padre della ferrovia in America. Passa alla prossima pagina &nbsp; La nascita dell'Europeo  Un nuovo salto di 100 anni ci porta al 1924, anno di fondazione di alcune industrie motociclistiche. A Bologna inizi&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; la MM, a Gerace Marina, in Calabria, un ardito imprenditore del Sud cominci&ograve; a produrre motociclette con il marchio OMC (Officine Meccaniche Calabresi). In Francia, a Pantin, a nord-est della periferia di Parigi, nacque la Motob&eacute;cane, a opera di Abel Bardin, Charles Beno&icirc;t e Jules Benezech. In Spagna, a Barcellona, Manuel Giro, ex ufficiale di Marina, fond&ograve; la Ossa (Orpheo Sincronics Sociedad Anonima), che inizialmente guadagn&ograve; fama soprattutto grazie a un suo brevetto che accoppiava l&rsquo;audio ai film muti, nonch&eacute; a macchine da cucire e giradischi. Alle moto la Ossa arriv&ograve; nel 1942, ma prima svolse anche un&rsquo;intensa attivit&agrave; come produttrice di motori marini. A Wittenbach, in Svizzera, nel 1924 nacque Florian Camathias, quattro volte secondo nel mondiale Sidecar tra il 1958 e il 1963. Ancona fu la citt&agrave; natale di Giuseppe Lattanzi, pilota ufficiale Mondial che fu il miglior rappresentante della Casa milanese nel Mondiale classe 125 del 1955 dominato dalle MV e perse la vita nella Milano-Taranto dello stesso anno. A Torino nacque Ada Pace, dapprima pilota ufficiale della Piaggio in dure competizioni scooteristiche nazionali e internazionali, poi fu campionessa di automobilismo, con un impressionante palmares di vittorie. Il 21 settembre 1924 a Lainate venne inaugurato il primo tratto &ndash; da Milano a Varese &ndash; della prima autostrada italiana, quella che oggi &egrave; l&rsquo;Autostrada dei Laghi. Passando agli avvenimenti sportivi, quell&rsquo;anno nella corsa motociclistica pi&ugrave; importante del Mondo, il Tourist Trophy dell&rsquo;Isola di Man, venne introdotta la classe &ldquo;Ultra-lightweight&rdquo; per moto fino a 175 cm&sup3;, vinta da Jock Porter su New Gerrard davanti alle Cotton di Fred Morgan e Chris Stead. Questa classe &ldquo;minima&rdquo; venne mantenuta soltanto nel 1925, poi venne ripresa dal 1951 con il nome di &ldquo;Lightweight 125&rdquo;. Nella storia del motociclismo agonistico il 1924 &egrave; un anno di particolare importanza perch&eacute; vide la nascita del campionato europeo di Velocit&agrave;, la cui prima corsa venne effettuata il 7 settembre sul nuovissimo autodromo di Monza. Non essendo ancora in grado di indire e organizzare un campionato in prove multiple, la Federazione Internazionale dei Club Motociclistici (FICM) decise di attribuire i titoli ai vincitori delle classi 250, 350 e 500 in gara in quell&rsquo;unico evento. Vi si iscrissero 91 piloti in sella a moto di 33 marche diverse in rappresentanza di otto Paesi; le 250 e 350 presero il via insieme al mattino, mentre la 500 si disput&ograve; nel pomeriggio. La 350 fu vinta dal noto campione britannico Jimmy Simpson, in testa dal primo all&rsquo;ultimo giro con la AJS, ma applauditissimo fu Isacco Mariani che, coinvolto in una caduta nelle fasi iniziali, rimont&ograve; furiosamente con la sua prodigiosa Garelli fino a classificarsi secondo. Nella 250 il belga Maurice van Geert port&ograve; alla vittoria la Rush da lui stesso progettata e costruita. La rivincita per i colori italiani arriv&ograve; nella classe 500. Fra i 24 partenti i favoriti erano Tazio Nuvolari su Norton, Richard e Gillard su Peugeot bicilindrica monoalbero, e i piloti della squadra ufficiale Moto Guzzi, Guido Mentasti, Pietro Ghersi ed Erminio Visioli alla guida delle monocilindriche a quattro valvole. I primi tredici giri videro Mentasti comandare con autorit&agrave; finch&eacute;, fermatosi per il rifornimento, fu superato da Nuvolari che riusc&igrave; a resistere alla furibonda rimonta di Mentasti fino al 20&deg; passaggio. Nei dieci giri successivi Mentasti guadagn&ograve; due minuti su Nuvolari, che due tornate dopo fu costretto al ritiro per la rottura del serbatoio del carburante. Il trionfo finale di Mentasti, alla media di 130,647 km/h valse all&rsquo;asso genovese il titolo di campione d&rsquo;Europa e fu per la Moto Guzzi il primo importante passo verso la conquista dei massimi allori sportivi internazionali.  L'infinita storia della Demm | Polvere di Stelle       

Tra gli &ldquo;antenati&rdquo; del 2024 ci sono anni ricchi di invenzioni ed esperimenti come quelli di Drebbel e de Gusm&atilde;o. E cent&rsquo;anni fa a Monza nasceva il campionato continentale

Dal sottomarino all'Europeo | Polvere di Stelle

        Chi avesse la fortuna di ritrovarsi nel garage una Vincent avrebbe tutti i motivi per ritenersi in possesso contemporaneamente di una rarit&agrave; e di una fortuna. I modelli bicilindrici costruiti da Philip Vincent dal 1936 al 1955 a Stevenage, citt&agrave; a una cinquantina di chilometri a nord di Londra (nota per aver dato i natali a Lewis Hamilton), contendono ai Brough Superior &ndash; noti come &ldquo;Rolls-Royce delle moto&rdquo; &ndash; la fama di pi&ugrave; illustri esponenti della produzione inglese nel periodo di massimo fulgore e oggi sono entrambi ricercatissimi, tanto che nelle principali aste vengono aggiudicati a somme stratosferiche. L'infinita storia della Demm | Polvere di Stelle La storia della Vincent  Nel 2018 una Vincent Black Lightning del 1949 &egrave; stata venduta a Las Vegas a un milione di dollari. Philip Conrad Vincent nacque a Fulham, un piacevole quartiere centrale di Londra in cui vivono anche moltissimi italiani, il 14 marzo 1908. La sua famiglia era emigrata in Argentina e possedeva un ranch in cui allevava bestiame nella provincia di Cordoba, ma era tradizione della comunit&agrave; inglese in Sud America che le madri in dolce attesa tornassero nel Paese d&rsquo;origine a partorire per garantire ai figli la cittadinanza britannica. Cos&igrave; fece, appunto, anche Ada Vincent, che poi con Philip torn&ograve; in Argentina, dove gli diede le prime nozioni educative, per poi avviarlo a una scuola privata inglese a Quilmes, un sobborgo di Buenos Aires. Ma evidentemente il legame con la Madre Patria era talmente stretto che, dopo questa prima parentesi scolastica, lui e le sue sorelle Marjorie e Gwendoline furono rimandati in Inghilterra a vivere presso lo zio John Vincent, un chirurgo veterinario, a Horndon on the Hill, a est di Londra, e a studiare con la cugina dapprima in casa con istitutori privati, poi nel prestigioso istituto della Harrow School. Philip Vincent fino a quel momento non aveva avuto alcun motivo per appassionarsi al motociclismo, ma ci si imbatt&eacute; per caso quando, durante una permanenza di alcune settimane nell&rsquo;ospedale della Harrow School, si trov&ograve; come compagno di stanza un giovane che invece stravedeva per le moto e per le corse. Ne fu coinvolto. Cominci&ograve; a far pressione su sua madre, restia ad accettare di aiutarlo a comprare una motocicletta, ma alla Vigilia di Natale del 1924 Ada cedette e Philip pot&eacute; acquistare una BSA a valvole laterali di seconda mano che per&ograve;, a causa delle eccessive vibrazioni del motore, fu sostituita poco dopo da una ABC, la bicilindrica boxer costruita dalla Sopwith, la Casa che durante la Grande Guerra aveva prodotto i famosi aerei da caccia Camel. Queste prime esperienze furono la chiave che apr&igrave;, nel cervello di Philip, la finestra su un panorama di idee, curiosit&agrave; e passione. Gi&agrave; nel 1925 il diciassettenne Vincent progett&ograve; la sua prima moto. Si era convinto che molto si potesse fare per migliorare soprattutto telai e sospensioni e in questa direzione, dopo essersi iscritto a un corso di ingegneria meccanica all&rsquo;universit&agrave; di Cambridge, orient&ograve; i suoi sforzi che culminarono, nel 1928, nel brevetto di una sospensione posteriore di tipo cantilever. Ventenne, alla soglia della laurea lasci&ograve; l&rsquo;universit&agrave; per realizzare il sogno di diventare costruttore di motociclette. In questo fu aiutato dal padre, che non si oppose all&rsquo;interruzione degli studi e che finanzi&ograve; il primo progetto del figlio, una vicenda che richiama alla mente la nascita della Moto Guzzi, con il finanziamento concesso dal padre di Giorgio Parodi per la nascita del prototipo &ldquo;GP&rdquo; del 1920. Si chiam&ograve; &ldquo;Vincent Special&rdquo; la moto d&rsquo;esordio di Philip Vincent come progettista e imprenditore. Era una 350 con motore prodotto dalla svizzera MAG e presentava tutte le caratteristiche di ciclistica da lui ideate. Costruita in un&rsquo;officina vicino a casa, fu accolta con successo dagli appassionati della zona e dalla stampa specializzata a cui fu presentata. &nbsp; L'evoluzione della Vincent  A questo punto si fece avanti un amico di famiglia, Frank Walker, ingegnere appassionato di moto, che propose a Philip di entrare in societ&agrave; con lui per fondare insieme l&rsquo;embrione di un&rsquo;industria motociclistica. I due si accordarono e per non partire da zero in quello stesso 1928 rilevarono per 450 sterline la HRD Motors fondata da Howard Raymond Davies, oberata dai problemi economici. Fu cos&igrave; che sul serbatoio delle prime moto, costruite in un capannone di Stevenage, comparve il marchio Vincent-HRD. I primi modelli prodotti dalla nuova marca erano motorizzati Jap o Rudge-Phyton e, naturalmente, su ciclistica originale Vincent. Nel 1931 in azienda entr&ograve; un tecnico australiano di grande talento, Phil Irving, che aveva lavorato alla Velocette. Tre anni dopo, la Casa di Stevenage partecip&ograve; al Tourist Trophy con un esito disastroso: tutte e tre le moto ufficialmente iscritte dovettero ritirarsi per la rottura del propulsore. Per Vincent e per Irving questo insuccesso fu la spinta decisiva ad abbandonare i motori altrui per ricorrere a propri progetti. Il 1934 fu dunque l&rsquo;anno del grande passo in avanti: il primo modello a compiersi fu il Meteor, un monocilindrico di 500 cm&sup3; a valvole in testa da 25 CV a 5300 giri con una versione pi&ugrave; spinta, denominata Comet, da 28 CV, la cui velocit&agrave; massima era di 145 km/h. Philip Vincent e Phil Irving, visto il successo nel particolare mercato delle moto sportive, decisero di andare oltre e nel 1936 fecero debuttare il modello &ldquo;Rapide&rdquo;, bicilindrico di 998 cm&sup3; da 45 CV e 175 km/h di velocit&agrave;. Una leggenda racconta che Irving avesse sul suo tavolo due disegni tecnici del monocilindrico, che per caso si sovrapposero e fecero scattare nella testa dell&rsquo;ingegnere la molla del progetto&hellip; Certamente il Vincent-HRD bicilindrico era l&rsquo;esatto raddoppio del &ldquo;mono&rdquo;, non soltanto per la cilindrata, ma anche per l&rsquo;angolo incluso di 47,5&deg; fra i cilindri, visto che il single era inclinato in avanti di 23,75&deg;. Allo scoppio della guerra, la Vincent-HRD sospese la produzione motociclistica per fornire all&rsquo;esercito munizioni, all&rsquo;aeronautica componenti per il caccia multiruolo De Havilland Mosquito, e alla marina motori per barche e pompe portatili. A pace conclusa ritorn&ograve; immediatamente alle moto, anche perch&eacute; Phil Irving, che nel 1937 aveva lasciato la Vincent per la Velocette, nel 1943 riprese il ruolo di responsabile tecnico a Stevenage. Tuttavia vennero tentate anche strade diverse, mettendo in produzione motozappe e falciatrici, motori stazionari industriali, scooter acquatici, motori ausiliari per biciclette e motocicli leggeri per assemblatori. Per le moto gli Stati Uniti divennero per la Vincent il mercato pi&ugrave; ricettivo e la Casa inglese, per evitare che le tre lettere &ldquo;HRD&rdquo; in aggiunta al suo marchio creassero confusione con le &ldquo;HD&rdquo; della Harley-Davidson, nel 1949 le elimin&ograve;. Gi&agrave; prima della fine della guerra venne ridisegnata la Rapide sia nel motore che nella ciclistica: in particolare ebbe un telaio a diamante con motore come elemento stressato, nuove sospensioni, e freni a quattro ganasce su entrambe le ruote, inoltre cambi&ograve; l&rsquo;angolo incluso fra i cilindri, passando a 50&deg; e vennero adottati per la prima volta due carburatori. Venne poi presentata la Black Shadow, bicilindrica da 55 CV capace di raggiungere la fenomenale velocit&agrave; di 200 km/h: ci&ograve; le permise di aggiudicarsi il titolo di moto stradale pi&ugrave; veloce del Mondo. Come se non bastasse, alla Black Shadow fu affiancata una versione da corsa chiamata Black Lightning potenziata a 70 CV e alleggerita da 207 a 172 kg: divenne il sogno di tutti i motociclisti europei, ma il costo di 1500 sterline ne limit&ograve; drasticamente la diffusione, e tra 1949 e 1952 ne furono costruite appena una trentina. In catalogo rientrarono sia la Meteor che la Comet 500 con il motore monocilindrico che ebbe anche un modello &ldquo;racing&rdquo; battezzato Grey Flash.  &nbsp; Vincent, il declino  Nei primissimi anni Cinquanta le vendite di moto conobbero in Inghilterra &ndash; ma anche in tutt&rsquo;Europa e in America &ndash; un progressivo e inarrestabile calo. La Vincent entr&ograve; in crisi, cerc&ograve; di porre rimedio presentando altri modelli derivati da quelli gi&agrave; in catalogo, tra cui la Black Prince, una Gran Turismo completamente carenata, ma non ottenne il risultato sperato. Nel 1954 addirittura produsse su licenza le motoleggere NSU ma quando, un anno dopo, la Casa tedesca intervenne direttamente sul mercato britannico, la fabbrica di Stevenage chiuse i battenti. Philip Vincent negli anni seguenti forn&igrave; consulenze e collabor&ograve; come giornalista freelance con le principali riviste specializzate scrivendo articoli a carattere tecnico. La sua vita si concluse all&rsquo;et&agrave; di 71 anni il 27 marzo 1979. Spiccando il volo, su due ruote | Polvere di Stelle       

La storia del costruttore britannico, che realizz&ograve; moto sportive di grande pregio&nbsp;

Vincent, rivale della Rolls-Royce | Polvere di Stelle

        Le lettere dedicate alla Demm Sono un collezionista Demm e possiedo la 50 bialbero a 12 marce (in foto di apertura, ndr).&nbsp;Non so se possiede foto e documentazione delle 50 bialbero competizione a 5, 6 e 12 marce. Le invio alcune foto della versione 12 marce (e del motore della sei marce per confronto). Dino Tessitore &ndash; Asti Risposta: La ringrazio vivamente ma, come vede, ho concluso in tre puntate la storia della Demm. Concediamo comunque spazio alle sue belle foto e mi riservo di contattarla nel caso la 50 bialbero diventi protagonista di un nuovo articolo. A proposito di questo pregiatissimo pezzo di meccanica, riporto una curiosit&agrave; letta sul libro scritto da Giuliano Mazzini, l&rsquo;uomo che della Demm conosceva ogni segreto e che ha fondato il Museo della marca di Porretta Terme. Il primo progetto del motore quattro tempi bialbero da competizione di 50 cm&sup3; fu opera dell&rsquo;ingegner Mattioli e venne disegnato da Mazzini. Poi Mattioli si licenzi&ograve;, il motore deluse le aspettative e la direzione nel 1957 diede carta bianca a Mazzini per rimediare alle mancanze evidenziate: &ldquo;Iniziai il progetto nel 1958 e lo terminai nel 1960 a causa della parentesi militare. La prima prova al banco fu: 6,8 CV a 13.800 giri. Il commento del signor Casiraghi (tecnico milanese responsabile dei motori alla Demm in quel periodo) fu: ora ci pensiamo noi! Con mio grande stupore e rassegnazione per quanto vidi fare, non riuscii tuttavia a fermare questi ignoranti. Modificarono la valvola di scarico fino a renderla quasi simile a quella di aspirazione. Il motore peggior&ograve; drasticamente, ma ormai le teste erano rovinate. Una si salv&ograve; e quel povero motore si destreggi&ograve; per tre anni fra tre corridori. Con la collaborazione dovuta si sarebbero potuti raggiungere 14 CV&rdquo;. Quest&rsquo;ultima affermazione di Mazzini &egrave; clamorosa e ovviamente non verificabile. Tuttavia &egrave; interessante notare che quei 6,8 CV al primo approccio con il banco-prova vennero ottenuti nel 1960, cio&egrave; due anni prima dell&rsquo;inizio del Mondiale della classe 50, e non erano molto distanti dagli 8 CV a 10.500 giri della Suzuki RM62 che nel 1962 vinse il primo titolo iridato, dai 9 CV a 11.000 giri della Kreidler che fu la sua antagonista e dagli 8,5 CV a 13.500 giri della Honda CR110, l&rsquo;unica quattro tempi in gara.  Spiccando il volo, su due ruote | Polvere di Stelle &nbsp; Lettera dalla Demm di Faenza  Le scrivo dalla Demm di Faenza dopo aver letto il suo articolo su Motosprint. Per conto di tutta l&rsquo;azienda vorremmo complimentarci e ringraziarla per quanto scritto e per aver riportato una bellissima storia legata al marchio Demm. Come gi&agrave; sa, stiamo portando avanti (da oltre 35 anni) la costruzione di calibri e strumenti di misura cercando ogni giorno la qualit&agrave; nel nostro prodotto. Cogliamo l&rsquo;occasione per invitarla presso la nostra sede di Via Malpighi 87 a Faenza cos&igrave; da poterci conoscere e farle vedere la nostra azienda. Filippo Coralli, DEMM-ITALY &ndash; Faenza Risposta: Pubblico questa lettera perch&eacute; &egrave; stato proprio l&rsquo;imbattermi nella mia citt&agrave; in quel marchio da me ben conosciuto e ritenuto ormai smarrito a spingermi a scoprire le ragioni di quella presenza e a raccontare l&rsquo;intera storia della Demm. Spero che quanto ho scritto sia stato utile anche all&rsquo;azienda che oggi ne prosegue l&rsquo;attivit&agrave;.  &nbsp; Un particolare modello Demm  Sono un grande appassionato di moto e la seguo costantemente in &ldquo;Polvere di Stelle&rdquo;. Nelle ultime settimane ha affrontato la storia della Demm, pertanto gradirei esporre i miei trascorsi su una motoleggera di quei tempi. Nel 1956/57 (avevo 10 anni), passavo ripetutamente davanti una vetrinetta del meccanico di zona per ammirare la moto dei miei sogni: una Demm quattro tempi con cambio a bilanciere e serbatoio rosso&hellip; Fantastica. Riuscirebbe a reperire una foto o a definire di quale modello si trattava? Non vorrei che la fantasia di un bambino avesse creato o elaborato un sogno estrapolandolo dalla realt&agrave;. Tolmino Cavicchini Risposta: Sono ovviamente molto soddisfatto e anche un po&rsquo; stupito dall&rsquo;interesse suscitato dalla storia della Demm. D&rsquo;altra parte il settore motociclistico della Casa di Porretta Terme nel periodo del suo massimo fulgore si era collocato al quarto posto sul mercato nazionale, preceduto soltanto da grandi industrie affermatesi da anni e consolidatesi grazie non soltanto alla decennale esperienza tecnica e produttiva, ma anche a una rete distributiva capillare e ben superiore a quella della Demm. Rispondo ricordando anche che un &ldquo;Tolmino&rdquo; &ndash; nome ormai raro &ndash; era il miglior saldatore d&rsquo;alluminio e leghe &ldquo;difficili&rdquo; di Faenza e a lui feci ricorso pi&ugrave; volte in situazioni quasi disperate, come quando la rottura della catena di trasmissione primaria del motore Triumph Bonneville della mia Grifon sfond&ograve; il relativo coperchio. Ma dopo questa digressione, eccomi alla ricerca della motoleggera sognata in giovent&ugrave; dal lettore. Le indicazioni fornitemi (anno 1956/57, quattro tempi, cambio a bilanciere, serbatoio rosso) non sono sufficienti a identificare con precisione il modello, per&ograve; dovrebbe trattarsi della 175 &ldquo;Turismo Lusso&rdquo;. Le sue caratteristiche tecniche erano: motore monocilindrico con alesaggio e corsa di mm 60x61, raffreddamento ad aria, distribuzione monoalbero in testa a due valvole, alimentazione con carburatore Dellorto 22 UB, frizione a dischi multipli in bagno d&rsquo;olio, cambio a quattro rapporti. Il telaio era a culla semplice in tubi, con sospensione anteriore a forcella teleidraulica, posteriore a forcellone oscillante con due ammortizzatori laterali simmetrici. Potenza 10,5 CV a 7000 giri, velocit&agrave; massima 110 km/h. Entra in vigore il Decreto Ministeriale 468 del 21/11/2023 che disciplina le modalit&agrave; operative per il rilascio della targa storica per autoveicoli, motoveicoli e macchine agricole di interesse storico e collezionistico di cui all&rsquo;articolo 60 del Codice della Strada. I dettagli di questo provvedimento vengono spiegati in questo comunicato dell&rsquo;ASI (Automotoclub Storico Italiano) che riportiamo qui sotto. &ldquo;Dall&rsquo;8 gennaio 2024, le procedure per il rilascio saranno utilizzate da tutti gli Sportelli Telematici dell&rsquo;Automobilista privati e dagli uffici della Motorizzazione Civile per l&rsquo;immatricolazione e la reimmatricolazione dei veicoli di interesse storico e collezionistico non assoggettati all&rsquo;obbligo di iscrizione al PRA. La targa storica pu&ograve; essere rilasciata ai veicoli gi&agrave; immatricolati in Italia e radiati d&rsquo;ufficio ai sensi dell&rsquo;articolo 96 c.d.s.; a quelli radiati per esportazione ai sensi dell&rsquo;articolo 103 c.d.s.; agli esemplari radiati per ritiro su area privata, ai sensi della previgente legislazione, su richiesta presentata per la prima volta entro il 26 aprile 2006; ai veicoli radiati per demolizione, ai sensi della previgente legislazione, prima del 30 giugno 1998, a esclusione di quelli per i quali siano stati erogati contributi statali alla rottamazione; ai veicoli immatricolati in Italia e mai dismessi dalla circolazione, per i quali venga richiesta una reimmatricolazione con targa storica; ai veicoli privi di targhe e di documenti di circolazione, quando non risultino radiati n&eacute; successivamente reimmatricolati in Italia. Per queste categorie la targa storica &egrave; associata al veicolo in sede di immatricolazione o di reimmatricolazione dello stesso. La targa storica pu&ograve; essere rilasciata anche agli autoveicoli, ai motoveicoli e alle macchine agricole mai cessati dalla circolazione e ancora muniti di targa storica originale rilasciata in Italia, in caso di furto, smarrimento, distruzione o deterioramento della targa stessa. Il rilascio della targa storica pu&ograve; avvenire a condizione che la stessa risulti essere gi&agrave; stata precedentemente associata al veicolo di interesse storico e collezionistico per il quale viene richiesta l&rsquo;immatricolazione o la reimmatricolazione&rdquo;.  Dal Tourist Trophy alle nuvole | Polvere di Stelle       

Tante lettere dedicate alla Casa emiliana: dagli interessati alle vicende del bialbero 50 da competizione a chi ricordava un particolare modello

L'infinita favola della Demm | Polvere di Stelle

        Chi segue regolarmente questa rubrica &egrave; consapevole di una mia pi&ugrave; volte manifestata passione per il parallelo fra l&rsquo;ambiente motociclistico e quello aeronautico. I due mondi fin dall&rsquo;origine hanno sempre presentato affinit&agrave; tecniche, industriali e anche sportive che non si riscontrano per esempio analizzando la storia dell&rsquo;automobile. &ldquo;La motocicletta &egrave; un aeroplano senza le ali&rdquo; &egrave; una mia convinta affermazione, visto che la stretta somiglianza fra i due mezzi si estende addirittura ai fondamentali del pilotaggio: accelerando la moto si impenna e l&rsquo;aeroplano cabra; decelerando la moto carica l&rsquo;avantreno e non pu&ograve; &ldquo;picchiare&rdquo; come l&rsquo;aereo soltanto perch&eacute; &egrave; trattenuta dal poggiare gi&agrave; a terra; per cambiare direzione in entrambi i casi bisogna &ldquo;piegare&rdquo;.&nbsp; Dal Tourist Trophy alle nuvole | Polvere di Stelle Moto e aviazione  Sportivamente parlando, molti piloti italiani, inglesi e tedeschi, che durante Prima e Seconda Guerra mondiale avevano militato nelle file dell&rsquo;aviazione, si erano poi dati con successo alle corse in moto, tanto che il primo campione del Mondo della classe 500 fu Leslie Graham, gi&agrave; decorato come pilota di bombardieri. Ma la vicinanza pi&ugrave; costante nel tempo e pi&ugrave; produttiva di risultati si &egrave; manifestata quando, al termine delle due guerre, le industrie che fino a quel momento avevano prodotto soltanto aeroplani e che avevano la necessit&agrave; impellente di affrontare un mercato &ldquo;civile&rdquo; che richiedeva altro, in maggioranza si convertirono alla fabbricazione di motociclette e scooter. Tutti conoscono i veicoli motorizzati a due ruote presentati da grandi Case costruttrici di aerei e motori d&rsquo;aviazione come BMW, Piaggio, Caproni, Kawasaki, Aermacchi; le loro storie sono state protagoniste di numerose puntate di Polvere di Stelle. Ma pochi, forse pochissimi, sono a conoscenza delle tante altre industrie aeronautiche minori che nei due dopoguerra, ma anche prima, fecero la stessa scelta. &Egrave; ora di svelarle, e non baster&agrave; una puntata. Non mi dilungher&ograve; nel racconto della storia delle singole Case, alcune delle quali sono gi&agrave; state protagoniste di racconti su Polvere di Stelle; mi limiter&ograve; a citarle con uno stringato riassunto della loro attivit&agrave; perch&eacute; il mio scopo in questo caso &egrave; soltanto quello di offrire una panoramica che chiarisca la vasta estensione di questo abbinamento moto-volo. Partiamo dall&rsquo;America. Glenn Hammond Curtiss  Nel primo decennio del 1900 gli Stati Uniti, che avevano conquistato l&rsquo;ambitissimo traguardo del primo volo con il &ldquo;pi&ugrave; pesante dell&rsquo;aria&rdquo; non si resero conto della portata dell&rsquo;impresa dei fratelli Wright, che per trovare investitori e riconoscimenti nel 1905 dovettero recarsi in Europa e prestarsi a esperimenti di volo in varie citt&agrave; del Vecchio Continente. In America, soltanto Glenn Hammond Curtiss, un giovane tecnico e pilota che nel 1902 aveva fondato un&rsquo;industria motociclistica divenuta subito famosa per le eccellenti prestazioni delle sue mono e bicilindriche, credette nel futuro dell&rsquo;aviazione a motore e dal 1905 al 1912 progett&ograve;, costru&igrave; e pilot&ograve; personalmente sia moto che aeroplani, ottenendo sulle piste e negli aeroporti eclatanti successi, non soltanto negli USA ma anche in Europa. Nel 1907, con una moto su cui aveva installato un suo motore aeronautico V8 da 40 CV, Curtiss sfrecci&ograve; su un tratto di quattro chilometri di spiaggia battuta a Ormond Beach, in Florida, a 219 km/h, un record cronometrato ma non ufficialmente, che quindi non gli venne riconosciuto, ma che ancora oggi &egrave; testimoniato dal &ldquo;bolide&rdquo; conservato allo Smithsonian Institution di Washington. Dopo il 1912 si dedic&ograve; soltanto alla produzione aeronautica.  Peugeot, Indian (e non solo)  La Indian di Springfield &ndash; Massachusetts &ndash; negli Anni &lsquo;10 era la fabbrica di motociclette pi&ugrave; grande del Mondo. In quello stesso periodo avvi&ograve; anche la produzione di motori per applicazioni aeronautiche, tra cui un rotativo stellare a sette cilindri da 50 cavalli e un otto cilindri a V da 60 cavalli. L&rsquo;impegno in questo settore cess&ograve; alla fine della Prima Guerra mondiale e la Casa americana si dedic&ograve; da quel momento soltanto alle moto a 1-2-4 cilindri di media e grossa cilindrata che fecero epoca. La Peugeot non si accontent&ograve; di aver costruito le prime automobili moderne francesi. Nel 1901 inizi&ograve; a produrre anche motociclette e nel 1909 entr&ograve; nel settore aeronautico con un motore stellare rotativo a sette cilindri da 50 cavalli. Questa esperienza dur&ograve; fino al 1939 e si estese anche al progetto di un elicottero. Adolphe Clement fu uno dei pi&ugrave; prolifici costruttori francesi dei primordi della motorizzazione. Dalle biciclette pass&ograve; nei primi anni del &lsquo;900 alle moto realizzando modelli di ogni schema e cilindrata, compreso un V4 da corsa passato alla storia. Contemporaneamente avvi&ograve; una fabbrica di automobili a benzina e cominci&ograve; a occuparsi di aeronautica, dapprima costruendo grandi e assai efficienti dirigibili che guadagnarono fama internazionale, quindi passando al &ldquo;Pi&ugrave; pesante dell&rsquo;aria&rdquo;. Il danese Jacob Christian Ellehammer costruttore di motociclette fra il 1904 e il 1909, sostenne di essere riuscito a volare il 12 settembre 1906 per 42 metri con un aereo di sua costruzione. Teatro dell&rsquo;esperimento fu l&rsquo;isola di Lindholm, da lui acquistata per i suoi tentativi di volo. A lui va dunque anche il primato di aver costruito il primo aeroporto. Hans Grade nel 1908 fu il primo a sollevarsi in volo in Germania e fu anche il primo costruttore tedesco di aeroplani. Oltre che pilota, era un ingegnere di grande valore, con una propensione particolare per il motore a due tempi, del quale fu pioniere in campo aviatorio con il suo V4 2T del 1909. Grade costru&igrave;, tra il 1903 e il 1925, anche moto con propulsore a due tempi di piccola cilindrata. Alessandro Anzani realizz&ograve; il motore a tre cilindri &ldquo;a ventaglio&rdquo; con cui Bleriot attravers&ograve; per primo la Manica nel 1909. Per collaudarlo lo mont&ograve; su una moto con cui corse nei velodromi di Parigi. In seguito divenne uno dei pi&ugrave; noti fabbricanti di motori aeronautici, con stabilimenti in Francia, Italia e Inghilterra. Costru&igrave; anche motociclette con il marchio &ldquo;British Anzani&rdquo;: una di queste, nel 1923, conquist&ograve; il record mondiale assoluto di velocit&agrave; per veicoli a due ruote. Bleriot, dopo essersi lanciato come costruttore dei primi monoplani, fond&ograve; un marchio motociclistico che oper&ograve; dal 1920 al 1923. Durante la Grande Guerra, l&rsquo;aereo da caccia inglese Sopwith Camel divenne leggendario cos&igrave; come accadde nel secondo conflitto mondiale per lo Spitfire. Terminate le ostilit&agrave;, nonostante la vittoria, per la riconversione industriale la Sopwith opt&ograve; per la costruzione di motociclette e a tal fine acquist&ograve; verso la fine del 1918 la fabbrica di motori ABC che, come lei, aveva sede nelle vicinanze dell&rsquo;autodromo di Brooklands. Nacque cos&igrave; una moto con i due marchi abbinati, una 400, progettata da Granville Bradshaw, dal design molto originale a due cilindri contrapposti trasversalmente al telaio. Lo schema era dunque quello che alcuni anni dopo sarebbe stato adottato dalla BMW nonostante le rivendicazioni di Bradshaw che l&rsquo;aveva brevettato. La moto ABC si rivel&ograve; troppo costosa e la sua produzione cess&ograve; nel 1923. Continu&ograve; invece in Francia dove venne costruita su licenza fino al 1925 dalla Gnome &amp; Rh&ocirc;ne, una delle pi&ugrave; note fabbriche di motori aeronautici... Anche la Gloucestershire Aircraft, un&rsquo;altra industria aeronautica inglese che produceva aerei con il marchio Gloster, nel 1920 affianc&ograve; agli aeroplani un veicolo a due ruote: lo scooter Unibus, che dal punto di vista soprattutto estetico fu il vero progenitore della Vespa. La Beardmore fu una delle fabbriche pi&ugrave; eclettiche della Gran Bretagna. Entrata nel mondo aeronautico nel 1913 producendo su licenza, dopo la guerra inizi&ograve; a costruire moto pregevoli con il marchio &ldquo;Precision&rdquo; e aeroplani di progettazione propria e motori d&rsquo;aereo. Nel 1928 realizz&ograve; il prototipo del trimotore &ldquo;Inflexible&rdquo; completamente in metallo che, con un&rsquo;apertura alare di 48 metri, era allora il monoplano pi&ugrave; grande del Mondo. Non ebbe seguito. Continua Guenda Glubb, la Regina di Brooklands | Polvere di Stelle       

I costruttori impegnati sia nel motociclismo che nell&rsquo;aviazione, due settori che da sempre sono parenti stretti

Spiccando il volo, su due ruote | Polvere di Stelle

        Nei primissimi anni Venti, i circuiti motociclistici pi&ugrave; famosi in Italia erano quelli di Orbassano, Brescia e Cremona, del Tevere (a Roma) e dell&rsquo;Adriatico (a Rimini). A questi si aggiunse il Circuito del Savio, disputatosi a Ravenna dal 1923 al 1927, primo evento motoristico romagnolo riservato sia alle moto che alle auto. Dal TT alle nuvole | Polvere di Stelle Il Savio e il trionfo di Ferrari  In questa rubrica i riferimenti al Circuito del Savio non sono mancati, visto che vi parteciparono grandi campioni, ma in questa puntata di Polvere di Stelle potr&ograve; sviluppare l&rsquo;argomento grazie alla recentissima pubblicazione del libro che Rossano Novelli e Alberto Galassi, autori ravennati Doc, gli hanno dedicato. Il volume di 192 pagine di grande formato, e ricchissimo di rare illustrazioni, &egrave; stato realizzato in esclusiva per l&rsquo;Automobile Club Ravenna con il contributo dell&rsquo;ACI Storico, ed &egrave; stato presentato gioved&igrave; 28 settembre presso la sala multimediale dei Chiostri della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna. Per l&rsquo;Automobile Club della citt&agrave; romagnola, presieduto da Giancarlo Minardi, fondatore e animatore dell&rsquo;omonima scuderia di Formula 1, la storia del Circuito del Savio &egrave; tanto importante da averne ottenuto i diritti sul marchio, e questa importanza deriva soprattutto dalla vittoria conseguita da Enzo Ferrari, su Alfa Romeo RL 3000, nella prima edizione disputata nel pomeriggio del 17 giugno 1923. In quell&rsquo;occasione Ferrari sal&igrave; per la prima volta, da quando aveva iniziato a correre, sul gradino pi&ugrave; alto del podio e all&rsquo;arrivo ebbe modo di conoscere i genitori di Francesco Baracca, che gli affidarono il &ldquo;Cavallino rampante nero&rdquo;, simbolo dell&rsquo;asso lughese dell&rsquo;aviazione caduto nel corso della Grande Guerra dopo aver vinto 34 duelli aerei. Il titolo del libro &egrave; infatti &ldquo;1923-1927 Il Circuito del Savio &ndash; tra storia e leggenda la prima vittoria di Enzo Ferrari pilota&rdquo;. Ma anche se l&rsquo;immagine di copertina &egrave; dedicata a questa storica vicenda, i contenuti del libro illustrano con la stessa impostazione, gli stessi spazi per documentazione e cronache sia le corse automobilistiche che quelle motociclistiche. Cosa spinse un gruppo di appassionati ravennati a impegnarsi per organizzare il Circuito del Savio? La risposta la diede gi&agrave; allora il comitato promotore commentando la riuscita della prima edizione. Ne riporto alcuni brani: &ldquo;Ultima fra tutte le regioni, quasi che si trovasse a far parte del settentrione d&rsquo;Italia per un errore topografico, perch&eacute; mai delle regioni limitrofe e vicine aveva subito l&rsquo;influsso del progresso, la Romagna ha finalmente udita e sentita la eco delle affermazioni della nostra industria automobilistica e motoristica&hellip; Il rombo dei motori, la vertiginosa e vittoriosa corsa delle nostre rosse macchine, che segnava la marcia decisa di un&rsquo;era nuova e portava nel suo ansito tutta la febbre di un intenso lavoro di braccia e la supremazia del nostro genio ha scosso anche Ravenna&hellip;&rdquo;. L&rsquo;edizione di esordio del Circuito del Savio si svolse su un tracciato lunghissimo: ben 44 chilometri. La partenza e il traguardo erano di fronte alla storica basilica di Sant&rsquo;Apollinare in Classe, da cui i piloti, seguendo il percorso in senso orario, imboccavano la strada Romea, praticamente priva di curve per oltre 15 km, fino a Cervia. Qui svoltavano a destra, attraversavano le antiche saline su un tratto di circa 10 km ricco di curve fino a Castiglione di Ravenna, dopodich&eacute; un altro rettilineo di quattro chilometri li portava a San Zaccaria congiungendosi con la strada Dismano. Svoltando ancora a destra, si immettevano quindi verso Ravenna sulla dirittura che si prolungava per altri tredici chilometri fino a Ponte Nuovo. Infine, invertita nuovamente la direzione con una curva strettissima, tornavano sulla Romea e dopo due chilometri si ritrovavano al traguardo. Il circuito era da percorrere sei volte per un totale di 267,600 km; nel suo sviluppo attraversava due volte il fiume Savio, da qui il titolo della manifestazione.  La storia, la vicenda di Nuvolari  Vincitore assoluto del primo Circuito del Savio fu l&rsquo;asso bolognese Amedeo Ruggeri (nella foto di apertura) in sella a una Indian 1000, alla media di 85,850 km/h; da notare che il suo giro pi&ugrave; veloce batt&eacute; di quasi due secondi lo stesso primato ottenuto da Enzo Ferrari con l&rsquo;Alfa Romeo 3000 nella gara automobilistica. Ruggeri precedette in classifica generale Primo Moretti, trionfatore nella 500, battendolo di appena 51&rdquo; con una moto di cilindrata doppia. L&rsquo;anno dopo l&rsquo;Unione Sportiva Ravennate e il Moto Club Ravenna, facendo tesoro della prima esperienza, decisero di ridurre la lunghezza del percorso a soli 14,385 km in modo da diminuire drasticamente i costi organizzativi e permettere al pubblico di assistere con maggior frequenza ai passaggi dei piloti in gara. Il circuito divenne un triangolo con il rettilineo pi&ugrave; lungo, di poco pi&ugrave; di cinque chilometri, non pi&ugrave; sul lato Romea, ma su quello opposto. La partenza e l&rsquo;arrivo furono mantenuti davanti a Sant&rsquo;Apollinare in Classe e il vertice del triangolo fu ancora al Ponte Nuovo. Ruggeri con la Indian concesse il bis piazzandosi nuovamente primo assoluto con la Indian 1000 ma questa volta il duello per il giro pi&ugrave; veloce fu vinto da Ferrari, primo nella classe Oltre 2000 e nella classifica generale della corsa automobilistica. Tuttavia il recordman sul giro fra i motociclisti, Terzo Bandini (HarleyDavidson 1000), ebbe la soddisfazione di battere il giro pi&ugrave; veloce ottenuto nella corsa automobilisti - ca da Tazio Nuvolari, vincitore della classe 1500 su vettura Chiribiri. Nel 1925 alle classi 350 e 500 fu aggiunta la 250, mentre venne eliminata la 1000, che nelle due precedenti edizioni aveva dominato. Primo assoluto e della classe 500 fu Moretti (su Moto Guzzi) che l&rsquo;anno dopo si aggiudic&ograve; per la terza volta la vittoria nella 500, mentre l&rsquo;assoluta and&ograve; a Mario Ghersi alla guida di una Sunbeam 350. L&rsquo;edizione motociclistica del 1926 entr&ograve; nella storia per una vicenda legata a Tazio Nuvolari. Subito dopo il via, Terzo Bandini, partito in testa con Nuvolari a ruota, sbagli&ograve; la prima curva. Per evitarlo, Nuvolari and&ograve; a sfregare con la mano sinistra contro un muretto riportando la frattura dell&rsquo;anulare, una frattura dolorosissima e grave, che il pilota ignor&ograve; per alcuni giri, durante i quali continu&ograve; a condurre la corsa realizzando anche tornate velocissime. All&rsquo;ottavo giro, per&ograve;, la volont&agrave; non bast&ograve; pi&ugrave; e il ritmo cal&ograve; bruscamente; al decimo giro Nuvolari si ferm&ograve; al box, stravolto, per il rifornimento. Voleva continuare, ma fu portato all&rsquo;ospedale dove si oppose all&rsquo;amputazione del dito, che i medici dicevano inevitabile. Fu accontentato, ma l&rsquo;incidente di Ravenna gli cost&ograve; la rinuncia al Tourist Trophy, la corsa motociclistica allora pi&ugrave; celebre al Mondo. L&rsquo;ultima edizione del Circuito del Savio si svolse nel 1927 e vide il trionfo di Luigi Arcangeli sulla Sunbeam 500. Peraltro, Nuvolari con la Bianchi 350 aveva guidato la corsa con un ritmo sostenutissimo per i primi tre giri, poi si era dovuto fermare per la rottura della catena. L&rsquo;aveva riparata, era ripartito, ma al settimo giro il motore della Bianchi aveva ceduto definitivamente. I costi, divenuti ormai insostenibili per gli organizzatori, portarono alla conclusione di questa grandiosa manifestazione auto-motociclistica.  Circuito del Savio: il libro  L&rsquo;intera storia, che qui ho soltanto riassunto, &egrave; raccontata con rigore storico e dovizia di particolari nel libro di Rossano Novelli e Alberto Galassi, volume che oltre alle corse del Circuito del Savio dedica alcune pagine anche ad altre gare che si svolsero sullo stesso tracciato: il Gran Premio di Pasqua per biciclette a motore, disputatosi dal 1924 al 1926, il concorso di consumo, che fece da gara introduttiva (con una settimana di anticipo) alla quarta edizione del Circuito del Savio, e la Coppa Primavera, corsa per automobili da turismo riservata ai piloti dell&rsquo;Emilia-Romagna, disputata il 3 giugno 1926. In chiusura, il volume offre anche accurate biografie dei principali protagonisti della competizione ravennate. Il libro si pu&ograve; ordinare alla Libreria Feltrinelli di Ravenna, oppure acquistare sul sito della Libreria dell&rsquo;Automobile https:// www.libreriadellautomobile.it/ prodotto/il-circuito-del-savio1923-1927/?lang=it. Il prezzo &egrave; di 35 &euro; Iva compresa. Guenda Glubb, la Regina di Brooklands | Polvere di Stelle       

Il circuito romagnolo fu il luogo del primo successo del Drake da pilota, ma fu teatro di momenti storici anche per le moto

Da Ferrari a Nuvolari: la parabola del Savio | Polvere di Stelle

        Ecco una panoramica su alcuni marchi motociclistici che hanno avuto una storia in comune fra il volo e le due ruote a motore. Sono davvero tantissimi ed eviter&ograve; di includere in questa rassegna i pi&ugrave; noti: Piaggio, Aermacchi, Caproni, BMW, Kawasaki e Honda. Guenda Glubb, la Regina di Brooklands | Polvere di Stelle Martinsyde  Il nome che inaugura questa puntata &egrave; Martinsyde, industria aeronautica fondata a Woking, alla periferia sud-ovest di Londra, nel 1908. Il suo primo aereo, un monoplano, quell&rsquo;anno riusc&igrave; a decollare, ma poco dopo fu distrutto da una tempesta. In seguito pass&ograve; ai biplani e con questi raggiunse una buona fama, in particolare con i modelli militari &ldquo;Elephant&rdquo; G100 e G102, pesanti e poco manovrabili, ma rivelatisi molto efficienti come bombardieri e ricognitori. Durante la Prima Guerra mondiale, la Martinsyde divenne il terzo produttore di aeroplani del Regno Unito, ma non sfugg&igrave;, al termine del conflitto, alla necessit&agrave; di riconvertirsi in industria &ldquo;civile&rdquo;. Aveva capannoni a Brooklands, ossia in quella pista che dal 1907 era il tempio della Velocit&agrave; per automobili e motociclette, e questo influenz&ograve; la sua decisione di rivolgersi al mercato motociclistico. Per iniziare al pi&ugrave; presto l&rsquo;attivit&agrave; in questo nuovo campo, la Martinsyde acquist&ograve; i diritti di alcuni progetti del tecnico Howard Newman, in particolare un motore monocilindrico di 350 cm&sup3; e un bicilindrico a V longitudinale di 680 cm&sup3;. Quest&rsquo;ultimo aveva la caratteristica unica del condotto di scarico collocato sopra quello di aspirazione allo scopo di agevolare il funzionamento del propulsore nelle stagioni fredde. La 680, cui fece seguito una 500 di analoghe caratteristiche, era una delle moto pi&ugrave; belle del panorama britannico: la dotazione ciclistica era di alto livello e le prestazioni pi&ugrave; che soddisfacenti, tuttavia non riusc&igrave; mai a sfondare sul mercato. Nel 1922 un violento incendio distrusse la fabbrica di Woking e la Martinsyde cess&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; vendendo le licenze di produzione dei suoi motori alla marca inglese BAT. La Douglas  Fondata come industria motociclistica nel 1907, la Douglas di Bristol esord&igrave; con una 350 il cui motore si distingueva da ogni altro per la disposizione dei due cilindri, contrapposti lungo l&rsquo;asse longitudinale della moto. Quel boxer con un cilindro steso in avanti e l&rsquo;altro rovesciato all&rsquo;indietro a guardare la ruota posteriore era decisamente originale e funzionava molto bene, tanto che i motociclisti inglesi, dopo un&rsquo;iniziale diffidenza, gli tributarono un generoso successo commerciale. A favorirlo furono anche gli ottimi risultati in campo agonistico, come l&rsquo;affermazione al Tourist Trophy classe 350 nel 1912, quando le Douglas conquistarono il primo, il secondo, il quarto e l&rsquo;ottavo posto in classifica, stabilendo anche il giro pi&ugrave; veloce. Le bicilindriche di Kingswood furono inoltre protagoniste della Sei Giorni Internazionale nel 1911 e nel 1914, aggiudicandosi l&rsquo;ambito premio a squadre. Nel 1913 fecero la loro comparsa sul mercato anche le automobili Douglas, spinte da un 1100 bicilindrico raffreddato ad aria da 8 HP. Ne furono prodotti due modelli che incontrarono un buon gradimento da parte del pubblico, ma la loro costruzione fu presto interrotta a causa dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Durante il periodo bellico, dalle linee di montaggio uscirono circa 70.000 motociclette, inizialmente del classico modello di 350 cm&sup3; da 2,75 HP, presto affiancato da una versione maggiorata a 600 cm&sup3;. Al termine del conflitto, la Casa inglese, ormai una grande industria motociclistica, oper&ograve; senza traumi la sua riconversione &ldquo;civile&rdquo; e present&ograve; sul mercato nuovi modelli che confermarono ed esaltarono le qualit&agrave; del bicilindrico sia come moto stradale che da competizione. Nel 1922 la Douglas si impegn&ograve; in una nuova &ldquo;avventura&rdquo;, la costruzione di motori aeronautici derivati strettamente da quelli motociclistici. Anche questa iniziativa ebbe successo: gi&agrave; l&rsquo;anno seguente ben sei costruttori di aeroplani utilizzarono i suoi propulsori. Tra questi, nomi che sarebbero diventati famosi come De Havilland, Hurricane e Handley-Page. I bicilindrici boxer con cilindrate da 500 a 750 cm&sup3; si rivelarono adattissimi alla propulsione aerea limitatamente a velivoli leggeri, ma di l&igrave; a poco il progresso pretese potenze pi&ugrave; elevate e anche il settore aeronautico della Douglas, dopo un&rsquo;iniziale crisi, dovette adeguarsi. Nel 1935 la Douglas venne rilevata dalla BAC (British Aircraft Company). Il piano industriale della nuova propriet&agrave; prevedeva un accordo di costruzione su licenza dei potenti motori aeronautici Hispano Suiza, ma la mancata autorizzazione governativa lo fece fallire. Cos&igrave;, alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, la Douglas si trov&ograve; non soltanto in grave crisi gestionale, ma anche impedita a riprendere una normale produzione motociclistica, visto che la BAC nel frattempo aveva venduto parte delle attrezzature della fabbrica. Esclusa dunque dalle forniture di moto militari, si dedic&ograve; allora alla produzione di componenti per l&rsquo;aviazione e soprattutto di motori stazionari per varie applicazioni, soprattutto generatori elettrici, che naturalmente riproponevano il boxer in varie configurazioni e cilindrata fino a 1000 cm&sup3;. Dal motore fisso nacque poi la prima nuova (cio&egrave; non derivata da modelli militari) moto inglese del dopoguerra, una 350 che entr&ograve; in produzione nel 1947 con la sigla T35 Mark-1, un modello che segn&ograve; l&rsquo;abbandono del bicilindrico contrapposto longitudinale in favore del boxer trasversale con cui furono equipaggiati i modelli successivi fino alla Dragonfly, ultima moto prodotta dalla Douglas tra 1955 e 1957. Harry Hawker, australiano, si trasfer&igrave; in Inghilterra dove venne assunto dall&rsquo;industria aeronautica Sopwith con il ruolo di tecnico e di pilota-collaudatore. Prima della Grande Guerra stabil&igrave; numerosi record, di velocit&agrave;, di altezza e di durata. Nel 1919 tent&ograve; di trasvolare l&rsquo;Atlantico, ma la rottura del radiatore lo costrinse ad ammarare. Dal 1920 all&rsquo;attivit&agrave; aviatoria affianc&ograve; quella motociclistica. Divenne costruttore di moto di media e grossa cilindrata e prese parte anche a gare. Eccentrico, arrivava in RollsRoyce e saliva in sella soltanto all&rsquo;ultimo, prima del via. Per&igrave; nel 1921 in un incidente di volo.  &nbsp; Henderson  La prima Henderson prodotta nel 1911 dallo stabilimento di Detroit, nello stato americano del Michigan, era una 934 cm&sup3; a quattro cilindri in linea longitudinale della potenza di 7 CV. Sapientemente progettata e realizzata da William Henderson, la moto ottenne subito un buon successo, che fu ampliato negli anni successivi non soltanto da un&rsquo;evoluzione costante del modello, ma anche da numerose ed eclatanti imprese sportive. Come il primo giro del Mondo in moto, compiuto da Carl Stevens Clancy con una &ldquo;four&rdquo; del 1912, il nuovo record coast-to-coast a opera di Allan Bedell nel 1917 e tante altre affermazioni in prove di velocit&agrave; e resistenza. Acquistata dalla forte concorrente americana Excelsior di Ignaz Schwinn nel 1917, la Henderson nei primi anni Venti entr&ograve; anche nel settore aeronautico fornendo i suoi motori motociclistici a diversi costruttori di aeroplani leggeri che avevano avuto modo di constatarne la superiorit&agrave; rispetto ad altre applicazioni basate su propulsori bicilindrici da moto Indian e Harley-Davidson. Gli ultraleggeri motorizzati Henderson diventarono i pi&ugrave; ambiti dopo essersi imposti in importanti competizioni del settore e &ldquo;laurearono&rdquo; migliaia di giovani piloti americani. Nel 1930 il motore a quattro cilindri Henderson pi&ugrave; evoluto in versione aeronautica aveva una potenza di 27 CV a 3000 giri, consentiva una velocit&agrave; massima di 97 miglia orarie (circa 160 km/h) e consumava un gallone e mezzo (circa sei litri) di benzina all&rsquo;ora. Ma il 1930 port&ograve; anche il crollo della Borsa di Wall Street e la &ldquo;grande depressione&rdquo;. A differenza della maggior parte delle marche concorrenti, la ExcelsiorHenderson non ne soffr&igrave;, ma Ignaz Schwinn non volle correre rischi e, resosi conto che l&rsquo;automobile stava conquistando il mercato della motorizzazione privata, nel 1931 decret&ograve; la fine della produzione motociclistica, mantenendo in vita soltanto il reparto ciclistico.  Continua Moto Guzzi V35, la progenitrice | Polvere di Stelle       

Alcune aziende protagoniste tra le moto e nell&rsquo;aviazione: come Martinsyde, Henderson e l&rsquo;eclettica Douglas

Dal Tourist Trophy alle nuvole | Polvere di Stelle

        In questa puntata si parla di guerre, ma anche di matrimoni, motociclette e automobili. Tante storie assieme? No, una sola: quella di Gwenda, un&rsquo;inglese che, spinta da un carattere indomabile, un istinto competitivo e un talento capace di esprimersi in numerosi campi, fu protagonista ovunque la passione la indirizzasse. Moto Guzzi V35, la progenitrice | Polvere di Stelle La storia di Gwenda  Alla nascita, registrata l&rsquo;1 giugno 1894 a Fulwood, cittadina 60 km a nord-ovest di Manchester, il cognome di Gwenda era Glubb. Suo padre, Sir Frederick Manley Glubb, era un ufficiale dell&rsquo;esercito britannico distintosi nella guerra anglo-boera in Sudafrica (1899-1902) e nella Prima Guerra mondiale, dove era stato nominato ingegnere capo del secondo corpo d&rsquo;armata. La madre si chiamava Frances Letitia Bagot e senz&rsquo;altro quando la partor&igrave; non immaginava per la neonata un destino molto diverso da quello riservato alle donne inglesi di fine &lsquo;800. Cos&igrave; come, tre anni dopo, quando diede alla luce il fratello di Gwenda, con il normalissimo nome di John, non avrebbe pensato che il suo figlio maschio sarebbe diventato un famoso generale della Legione Araba, noto come &ldquo;Glubb Pasci&agrave;&rdquo; ed erede del grande Lawrence d&rsquo;Arabia. Probabilmente fu il padre a indirizzare non soltanto John, ma anche Gwenda, alla carriera militare. Avendo preso parte alla guerra anglo-boera, egli aveva potuto vedere in azione il nuovo servizio infermieristico imperiale voluto dalla regina Alessandra e affidato con successo alle donne. Scoppi&ograve; la Prima Guerra mondiale e Gwenda vest&igrave; la divisa arruolandosi come autista di ambulanze. Venne inviata al fronte, dapprima in Russia, poi in Romania, e si distinse per valore, coraggio e abilit&agrave;. Al termine del conflitto non le furono lesinati i riconoscimenti: dai russi fu insignita della Croce di San Giorgio e della Croce di San Stanislao. Durante la guerra, Gwenda aveva dunque dimostrato di possedere coraggio e determinazione, ma non soltanto: condurre le ambulanze su terreni difficili e pericolosi, con la velocit&agrave; indispensabile per salvare vite, aveva arricchito di esperienza il suo innato talento per la guida. Fu cos&igrave; che, al rientro dai campi di battaglia, da soldatessa si trasform&ograve; in pilota infrangendo un altro tab&ugrave; che comunque in Inghilterra le suffragette stavano mettendo pesantemente sotto attacco. L&rsquo;anticonformismo le cost&ograve; il coinvolgimento in un&rsquo;inchiesta istituita da Winston Churchill dopo il licenziamento di Violet Douglas-Pennant, capo dei reparti femminili presso la Royal Air Force, la cui eccessiva durezza aveva causato episodi di insubordinazione. La Douglas-Pennant aveva mosso pesanti accuse, tra cui alcune a sfondo sessuale, all&rsquo;Hurst Park Camp coinvolgendo il comandante del campo, il colonnello Sam Janson, e la stessa Gwenda Glubb. L&rsquo;indagine si chiuse con un nulla di fatto, ma nel 1920 Gwenda spos&ograve; proprio il colonnello Janson, che nel frattempo era diventato importatore inglese della marca automobilistica olandese Spyker e in questo modo, indirettamente, comp&igrave; un altro passo verso il mondo ribollente dei motori. Il Regno della Velocit&agrave; in Inghilterra allora era Weybridge, la localit&agrave; a sud-ovest di Londra in cui dal 1907 era attivo l&rsquo;autodromo di Brooklands. E su quella pista Gwenda Glubb, ora Janson, debutt&ograve; nel 1921 con l&rsquo;intento di stabilire un record sulla distanza dei 1000 chilometri. Il mezzo scelto fu stupefacente: non un bolide, non una moto classica, bens&igrave; una specie di scooter americano, il &ldquo;Neracar&rdquo;, che anche nel nome tradiva la sua ispirazione automobilistica: &ldquo;Near a car&rdquo;, ossia, &ldquo;Quasi un&rsquo;automobile&rdquo;.  I record, le imprese  Eppure, considerando che i record di Brooklands del 1921 erano ancora quelli degli anni Dieci, l&rsquo;impresa riusc&igrave; perfettamente. Questo primo successo ovviamente non plac&ograve; la sete di adrenalina di Gwenda, che a distanza di un anno torn&ograve; in pista a Brooklands per cimentarsi in una ben pi&ugrave; dura &ldquo;12 ore x 2&rdquo;, cio&egrave; in una 24 ore di durata, ma frazionata in due 12 ore. Questo, perch&eacute; i cittadini di Weybridge avevano ottenuto &ndash; per eliminare i rumori notturni certamente molto fastidiosi &ndash; che le gare non si protraessero oltre le 12 ore e in ogni caso che non si svolgessero di notte. Gwenda scelse una motocicletta Trump, marca fondata nel 1907 che aveva gi&agrave; colto numerosi successi e record a Brooklands. Il modello 250, con motore JAP, era particolarmente affidabile e il colonnello Neil Stewart, amministratore delegato della Casa inglese, lo aveva preparato accuratamente perch&eacute; riuscisse nell&rsquo;impresa, alla quale partecip&ograve; lui stesso come co-pilota. Gwenda guid&ograve; instancabilmente e perfettamente assecondata dalla sua moto che richiedette soltanto il rabbocco dell&rsquo;olio e la sostituzione di una coppia di puntine del magnete. Al termine delle 24 ore il nuovo primato fu stabilito alla media di 44,65 miglia all&rsquo;ora (71,85 km/h) con grande soddisfazione della conduttrice e anche del colonnello. Conseguenza? Gwenda divorzi&ograve; da Sam Janson e nel 1923 si rispos&ograve; con Neil Stewart. La coppia si ritrov&ograve; ad avere una particolare predilezione per la Francia, dove decise di trasferirsi per continuare a sfogare la passione per i motori e i primati di velocit&agrave;. Nel 1925 Gwenda, ora Stewart, si ciment&ograve; per l&rsquo;ultima volta in un tentativo di record in sella a una moto, una potente Rudge 350 monocilindrica con distribuzione a quattro valvole. L&rsquo;obiettivo era nuovamente il primato su 24 ore e, come a Brooklands tre anni prima, lei e Neil lo colsero alternandosi alla guida. Fu un grande successo, considerando che non soltanto ottennero i nuovi limiti sui chilometri percorsi in 24 ore, ma batterono complessivamente 21 record sulle distanze intermedie. Da due a tre ruote, nel 1929 Gwenda conobbe Douglas Hawkes, ottimo tecnico e pilota che per lei prepar&ograve; un cyclecar Morgan, molto diffuso in quel periodo in Inghilterra, con tre ruote (due anteriori) e motore motociclistico. Gwenda non ebbe difficolt&agrave; ad adattarsi alla guida di quello strano veicolo, anzi, all&rsquo;esordio stabil&igrave; il nuovo record di categoria sul miglio lanciato sfrecciando sul rettilineo di Arpajon alla media di 113 mph (182 km/h). Successivamente, sempre alla guida della Morgan, a Montlh&eacute;ry si appropri&ograve; di una cinquantina di nuovi primati. Ma poi, spinta da Hawkes, che era direttore della fabbrica automobilistica Derby di Parigi e che aveva corso in auto anche due 500 Miglia di Indianapolis, aggiunse al suo curriculum la quarta ruota, diventando pilota di automobili. In un ambiente pi&ugrave; seguito, splendido e ricco di opportunit&agrave; come quello delle corse in auto, Gwenda per quasi un decennio negli anni Trenta fu sulla bocca di tutti e collezion&ograve; importanti vittorie e primati sia in Francia che in Inghilterra. Stabil&igrave; numerosi record a Montlh&eacute;ry con una Austin Seven speciale, poi tent&ograve; anche la strada dei Rally, gareggiando nel 1934 al Montecarlo. Particolarmente esaltato dalla stampa britannica fu, nel 1935, il suo duello a Brooklands con la campionessa americana Kay Petre, al volante di una Delage con motore V12, mentre Gwenda era alla guida di una Derby-Miller a trazione anteriore costruita ed elaborata da Hawkes. In palio non c&rsquo;erano soltanto coppe e soldi, ma anche il titolo virtuale di &ldquo;Regina di Brooklands&rdquo; che Gwenda conquist&ograve; stabilendo il giro pi&ugrave; veloce a 135,95 miglia orarie (218,78 km/h). Lo stesso primato sul giro le arrise a Montlh&eacute;ry a una media ancora pi&ugrave; elevata: 234,68 km/h. Nel suo curriculum figurano anche due partecipazioni (1924 e 1935) senza fortuna alla 24 Ore di Le Mans. Corse ancora con buoni risultati nel 1936 e 1937, sempre con la stretta collaborazione di Douglas Hawkes, tanto stretta che nel 1937 i due convolarono a nozze e poco dopo decisero di lasciare la Francia per tornare in Inghilterra.  Passa alla prossima pagina &nbsp; L'ultimo capitolo  Allo scoppio della guerra i coniugi prestarono la loro opera in fabbriche coinvolte nella produzione militare e Gwenda torn&ograve; anche al volante delle ambulanze, ma in patria. Conclusosi anche quel nefasto capitolo, scoprirono insieme che per la prima volta nella loro esistenza desideravano la pace, il silenzio e, potendoselo permettere, acquistarono uno yacht a vela a cui diedero il nome del Dio greco della speranza: &ldquo;Elpis&rdquo;. Con quello raggiunsero le isole greche dell&rsquo;Egeo, navigarono in lungo e in largo finch&eacute; un giorno non gettarono l&rsquo;ancora in un porticciolo isolano che fissarono come loro residenza per una serena vecchiaia. Douglas Hawkes si spense su quest&rsquo;isola nel 1974, Gwenda visse invece ancora fino al 27 maggio 1990. Le vicende di Ahearn, Brown e Phillis | Polvere di Stelle       

La britannica fece la storia a suon di vittorie, record, imprese e... matrimoni

Gwenda Glubb, la Regina di Brooklands | Polvere di Stelle

        Si conclude con questa puntata la carrellata sulle 350 che nei primi anni Settanta dominarono il mercato nazionale della motocicletta. Dopo la Honda CB 400 Four Super Sport, la Moto Morini &ldquo;Tre e mezzo&rdquo;, la Yamaha RD 350, la Suzuki GT 380 e la Kawasaki 400 Mach II, questa volta ci occupiamo dell&rsquo;ultima arrivata, la Moto Guzzi V35, progenitrice di un&rsquo;intera gamma di nuovi motori della Casa lombarda. Le vicende di Ahearn, Brown e Phillis | Polvere di Stelle La Moto Guzzi V35, origine e moderna  Maggio 1976: partii per uno dei miei soliti viaggi in cerca di novit&agrave;, storie interessanti, personaggi del nostro mondo. Dopo una tappa a Breganze, alla Laverda, un&rsquo;altra a Verona, alla BMW, arrivai a Mandello del Lario in tempo per cenare e trovare una stanza al Grigna, l&rsquo;albergo frequentato da collaudatori, tecnici e operai della Moto Guzzi. Mi unii ad alcuni di loro che avevo conosciuto sui campi di gara e, cenando, cercai di farmi confidare qualche segreto, o almeno di capire quali domande avrei potuto porre ai manager aziendali. Non ottenni molto, se non la certezza che la versione ridotta dell&rsquo;ormai classico motore bicilindrico a &ldquo;V&rdquo; trasversale di 90&deg; era in via di completamento. Il giorno dopo fui ricevuto dal direttore commerciale e non resistetti a lungo prima di centrare il discorso sul &ldquo;V7 piccolo&rdquo;. Mi aspettavo un &ldquo;no comment&rdquo;, o &ldquo;&egrave; ancora presto per parlarne&rdquo;, invece non soltanto ricevetti soddisfacenti risposte alle domande, ma fui anche invitato a dare un&rsquo;occhiata al prototipo, naturalmente senza fotografare nulla. Cos&igrave; avvenne il mio primo ed esclusivo contatto con la Moto Guzzi V35: dopo averla impressa nella mente nei minimi particolari, la disegnai per il mensile motociclistico per il quale stavo lavorando in quel momento. Come disegnatore facevo letteralmente schifo, ma nella mia memoria l&rsquo;immagine si era impressa talmente bene che ne usc&igrave; qualcosa di pubblicabile&hellip; Dopo questo viaggio nel mio passato, &egrave; ora di far entrare in scena proprio la Moto Guzzi V35, la motocicletta che, come la Moto Morini &ldquo;Tre e mezzo&rdquo;, mantenne a galla la nostra industria nella cilindrata in quel momento pi&ugrave; redditizia sul mercato nazionale. Entrambe seppero distinguersi per originalit&agrave; tecnica, modernit&agrave; e affidabilit&agrave; in un panorama gi&agrave; dominato dai formidabili modelli pluricilindrici giapponesi a due e quattro tempi. La V35 non era semplicemente una versione ridotta della V7, era un progetto completamente nuovo alla luce della diversa destinazione d&rsquo;origine dei due motori e dei notevoli progressi tecnici maturati &ndash; grazie soprattutto alle innovazioni introdotte dalle Case giapponesi nel settore motociclistico &ndash; nei precedenti dieci anni. Il V7 era nato per equipaggiare un&rsquo;utilitaria Fiat e, dopo la rottura del contratto con la Marca torinese, era finito sul mulo meccanico &ldquo;tre per tre&rdquo; prima di essere montato &ndash; quasi controvoglia &ndash; su un telaio motociclistico. Il motore V35- V50 (probabilmente nacque prima nella versione di mezzo litro poi, per accedere ai vantaggi fiscali, fu allestito anche il modello 350) era destinato invece esclusivamente a equipaggiare una motocicletta dalle caratteristiche ben definite. Il progresso tecnico nella V35-V50 era evidente sia nel propulsore che nella ciclistica. Come per la Morini &ldquo;Tre e mezzo&rdquo;, anche la Moto Guzzi aveva dato la preferenza alle teste tipo Heron, cio&egrave; piatte e con la camera di combustione ricavata nel cielo del pistone. La distribuzione era ad aste e bilancieri, ma con albero a camme posto alla sommit&agrave; del carter, al centro del &ldquo;V&rdquo; dei cilindri e con aste quindi molto corte. Una particolare cura era stata dedicata alla massima riduzione degli ingombri, sia in altezza che trasversalmente (40 cm appena la larghezza totale del motore). I cilindri avevano soltanto cinque alette e quelle delle teste (ma anche i coperchi delle valvole) erano tagliate in modo da non sporgere dal piano verticale. Il motore, inoltre, era parte integrante del telaio e la scatola del cambio faceva da supporto al forcellone a due bracci fuso in lega leggera. Il braccio di destra ospitava l&rsquo;albero di trasmissione. L&rsquo;impianto frenante era il fiore all&rsquo;occhiello: tre dischi Brembo con funzionamento integrato e compensatore. L&rsquo;avviamento era elettrico. Della V7, la nuova moto aveva mantenuto una caratteristica pressoch&eacute; unica e apprezzabilissima: la possibilit&agrave; di essere scomposta nelle due parti fondamentali. Si poteva staccare l&rsquo;insieme ruota anteriore, forcella, telaio, sella e ammortizzatori posteriori lasciando sul posto &ndash; sul cavalletto &ndash; il motore con tubi di scarico, marmitte, sistema di alimentazione, trasmissione completa e ruota posteriore. La differenza di potenza fra le due cilindrate era sensibile: 33 CV per la V35 e 45 CV per la V50. La conseguenza, per la 350 era una velocit&agrave; massima poco superiore ai 140 km/h, valore che la poneva su uno dei gradini pi&ugrave; bassi nel confronto con le pluricilindriche di pari cubatura, ma l&rsquo;impostazione del modello, indiscutibilmente votata a motociclisti &ldquo;tranquilli&rdquo;, fece s&igrave; che il mercato non la condannasse per le scarse prestazioni, sebbene il prezzo con cui fu posta in vendita, 1.849.000 Lire, fosse uno dei pi&ugrave; alti, superando di ben 400.000 Lire la Morini 350 GT, sua concorrente diretta. Nel 1979 la Moto Guzzi fece debuttare la V35 Imola (nella foto in basso), una sportiva decisamente appetibile per la riuscitissima linea e un po&rsquo; meno per le prestazioni, di poco superiori a quelle della versione turistica. Vennero poi la V35-V50 Custom, con modifiche puramente estetiche, infine, la V35 NTX e la V35 TT (non &ldquo;Tourist Trophy&rdquo;, ma &ldquo;Tutto Terreno&rdquo;), Enduro stradali. La modifica pi&ugrave; importante al motore apparve sulla Imola II del 1985 e fu la testa a quattro valvole, che si rivel&ograve; fragile e controproducente in termini prestazionali. Un fiasco, insomma. Grazie anche a un forte ridimensionamento del prezzo rispetto a quello d&rsquo;origine, la V35 rimase comunque un modello competitivo sul mercato nazionale fin quando vennero mantenute le discriminanti di ordine fiscale e normativo a vantaggio della cilindrata 350. Una volta che queste vennero eliminate, inizi&ograve; l&rsquo;inarrestabile ascesa delle &ldquo;maxi&rdquo; fino ai livelli odierni.  La Ducati 350 Mark III D  Per concludere la carrellata sulle 350 degli anni Settanta &egrave; impossibile non citare due monocilindriche italiane della stessa cubatura che godettero di un certo favore. La Ducati 350 Mark III D, esord&igrave; nel 1971 e fu la prima moto con testata desmodromica di serie. Era una monocilindrica di impronta nettamente sportiva con un equipaggiamento ciclistico di prim&rsquo;ordine e un motore da 28 CV, sufficienti, unitamente alle doti di tenuta di strada e maneggevolezza, per confrontarsi sui percorsi misti anche con concorrenti di maggiore cilindrata. La distribuzione desmodromica, una rarit&agrave; figlia delle corse di Velocit&agrave;, fu un richiamo irresistibile per molti smanettoni e lo fu ancor di pi&ugrave; dopo la vittoria a Imola della Ducati 750 bicilindrica Desmo alla 200 Miglia del 1972 con Paul Smart. La Mark III D rest&ograve; in produzione fino al 1975 con diverse modifiche estetiche: l&rsquo;ultimo modello fu equipaggiato con freno anteriore a disco.  Passa alla prossima pagina Le creature Aermacchi  Merita un cenno anche la Aermacchi-Harley Davidson 350 che debutt&ograve; al Salone di Milano del 1969 con il modello GTS. Il motore era il celebre &ldquo;mono&rdquo; a cilindro orizzontale e distribuzione ad aste e bilancieri con cui la versione Ala d&rsquo;Oro si copriva di gloria nelle corse internazionali. Naturalmente, rispetto a questo era &ldquo;spompato&rdquo; a 25 CV e con cambio a soli quattro rapporti, ma soprattutto la voglia di piacere ai motociclisti americani aveva indotto lo stilista a disegnare una moto simil-HD Sportster, difficilmente digeribile per il pubblico italiano. Nel 1971 alle versioni GTS si affianc&ograve; la 350 TV di antiquato disegno sportivo, (nella foto in basso) ma con motore da 29 CV, cambio a cinque rapporti e velocit&agrave; massima di circa 150 km/h. Nel 1973 dai serbatoi delle moto spar&igrave; la marca Aermacchi, sostituita da &ldquo;AMF-Harley Davidson&rdquo; e le 350 monocilindriche quattro tempi rimasero in catalogo fino a fine 1974 con i modelli SS e SX, invariati nella meccanica ma rinnovati nel disegno. La SS torn&ograve; a ispirarsi malamente alla HD Sportster, mentre la SX era decisamente pi&ugrave; elegante, sebbene volesse apparire una moto da Enduro. La Aermacchi 350 &ndash; perch&eacute; di Aermacchi si trattava a tutti gli effetti nonostante la propriet&agrave; americana &ndash; fu probabilmente la migliore monocilindrica di media cilindrata del suo periodo, ma non pot&eacute; competere con le pluricilindriche italiane e giapponesi, condannata soprattutto dalla moda del momento e dalle eccessive vibrazioni dei &ldquo;mono&rdquo; ancora privi di alberi di bilanciamento. &nbsp; Italia-Giappone, duello a tre ruote | Polvere di Stelle       

Con questa creatura della Casa di Mandello del Lario, e non solo, si conclude la nostra carrellata sulle 350 degli anni Settanta

Moto Guzzi V35, la progenitrice di una gamma | Polvere di Stelle

        Attraverso le pagine del nostro giornale, Polvere di Stelle si &egrave; occupata del mercato motociclistico italiano all&rsquo;inizio degli anni Settanta, quando leggi dello Stato varate con l&rsquo;intento di ostacolare la diffusione delle maxi-moto giapponesi favorirono la popolarit&agrave;, mai in precedenza goduta nel nostro Paese, delle motociclette di 350 cm&sup3;. Fiorirono nuove proposte, molto appetibili per modernit&agrave;, stile e affidabilit&agrave;, e fra queste si distinsero soprattutto la Honda CB 400 Four Super Sport e anche un&rsquo;italiana, la Moto Morini &ldquo;Tre e mezzo&rdquo; nelle versioni GT e Sport. Sia la Honda che la Morini erano a quattro tempi, ma in quel momento cruciale per il progresso tecnico della motocicletta il confronto fra il ciclo Otto e il ciclo Clerk era particolarmente acceso, sia sul mercato delle moto stradali che in quello delle competizioni (limitatamente alla classe 500): soltanto nel Motocross il due tempi aveva ormai guadagnato la supremazia in maniera assoluta. Le vicende di Ahearn, Brown e Phillis | Polvere di Stelle L'invasione jap: Yamaha  Fra le moto stradali, rappresentante pi&ugrave; qualificata del due tempi era la Yamaha bicilindrica, che stava gi&agrave; dominando la 250 del Motomondiale e stava insidiando lo strapotere della MV Agusta quattro tempi nella 350. La GP della Casa di Iwata derivava strettamente da un modello di serie, la Yamaha 250-350 bicilindrica a due tempi. Con una 250 derivata di serie, non disponibile sul mercato italiano ma ottenuta da un concittadino titolare di una concessionaria in Svizzera, nel 1971 Mario Lega si impose nel campionato italiano Juniores di Velocit&agrave; sbaragliando l&rsquo;imbelle concorrenza delle monocilindriche a quattro tempi italiane derivate di serie. Insomma, quella bicilindrica Yamaha era davvero un portento e la RD 350, offerta tra l&rsquo;altro a un prezzo molto concorrenziale, divenne un best seller del mercato pur avendo soltanto due cilindri in un momento in cui sembrava che almeno tre fosse il minimo. Importata dall&rsquo;Italjet di Leopoldo Tartarini in numeri contingentati, inizialmente la Yamaha 350 stent&ograve; per questo motivo a diffondersi in Italia. Dal Giappone arrivavano continuamente versioni aggiornate, ma l&rsquo;importatore non sempre ne sottoponeva a omologazione le modifiche. Ricordo che in occasione di una 500 Chilometri per moto di serie a Vallelunga, l&rsquo;equipaggio Papa-Borghese, che si presentava in sella a una Yamaha RD 350, fu contestato alle verifiche perch&eacute; la moto aveva il freno a disco &ndash; che era esattamente quello montato sulle RD di serie di ultima generazione &ndash; anzich&eacute; quello a tamburo dei modelli precedenti, che invece era riportato nella fiche di omologazione in mano ai commissari FMI. La RD 350 era leggera, snella ed elegantemente sportiva, stranamente esente dai difetti delle due tempi &ldquo;spinte&rdquo; di quel periodo, ossia frequenti, disastrosi e pericolosi grippaggi. L&rsquo;esperienza acquisita vincendo titoli mondiali di Velocit&agrave; in 125 e 250 con i pi&ugrave; sofisticati motori due tempi quattro cilindri allora esistenti, e continuata &ndash; dopo che il nuovo regolamento aveva imposto non pi&ugrave; di due cilindri e sei rapporti del cambio alle 250 e 350 &ndash; con le bicilindriche derivate di serie, aveva fatto s&igrave; che la Yamaha potesse vantare il primato tecnico nei motori a due tempi, da corsa come da strada. La versione RD, evoluzione della R5 del 1970, arriv&ograve; in Italia nel 1973 e rimase sul mercato fino al 1994. Nel 1979 il motore venne dotato di raffreddamento a liquido e la potenza sal&igrave; da 39 a 47 CV. Nel 1976 la 350 fu affiancata dalla RD 400 che rest&ograve; in catalogo fino al 1980. Non ebbe in Italia il successo della versione di minor cilindrata, ma stabil&igrave; comunque dei primati: fu la prima moto di serie con cerchi in lega e conquist&ograve;, per la sua categoria, il primato di accelerazione sul quarto di miglio. La prestigiosa rivista americana Cycle World la defin&igrave; &ldquo;La cosa pi&ugrave; vicina a una motocicletta perfetta&rdquo;. Le bicilindriche stradali di Iwata non erano dunque soltanto grintose: non erano nemmeno scorbutiche da guidare. Per&ograve;, forse per il collegamento d&rsquo;immagine con le corrispondenti moto da corsa, facevano proseliti soprattutto fra i giovani motociclisti pi&ugrave; smanettoni.  La Suzuki  A quelli pi&ugrave; &ldquo;tranquilli&rdquo; si rivolse invece la Suzuki presentando, nel 1971, il modello GT 380 con motore due tempi tre cilindri in linea frontemarcia. Gi&agrave; quel cilindro in pi&ugrave; era un&rsquo;attrattiva per molti, ma anche l&rsquo;estetica decisamente raffinata, sia per quanto riguardava il motore, che per la ciclistica e la carrozzeria, colpiva piacevolmente l&rsquo;occhio. L&rsquo;impostazione, come detto, era turisticosportiva con ricercatezze stilistiche come i quattro silenziatori, uno in pi&ugrave; del necessario per non rovinare la simmetria, ottenuto sdoppiando lo scarico del cilindro centrale. Tecnicamente il propulsore era al top dello sviluppo del due tempi per applicazioni stradali. Si distingueva, anche esteticamente, per la presenza, al di sopra delle teste dei cilindri, di un convogliatore sagomato per favorire l&rsquo;afflusso d&rsquo;aria di raffreddamento. Il sistema era marcato RAS (Ram Air System) e svolgeva bene il suo compito, visto che il motore della Suzuki 380 non soffr&igrave; mai dei problemi di surriscaldamento che invece erano ben noti ai proprietari delle contemporanee Kawasaki due tempi a tre cilindri. Oltre al RAS, la 380 di Hamamatsu poteva vantare un sistema di lubrificazione esclusivo molto efficiente e un miscelatore automatico la cui portata d&rsquo;olio era proporzionale al numero dei giri del motore e all&rsquo;apertura della manopola del gas. Ci&ograve; che invece non era al passo con i tempi, almeno nella prima versione, era l&rsquo;impianto frenante a tamburo anche sulla ruota anteriore, ma la Suzuki non attese molto a sostituirlo con un bel disco gi&agrave; nella seconda serie prodotta. La potenza della GT 380 all&rsquo;esordio era di 38 CV; nel 1975 sal&igrave; a 41. La velocit&agrave; massima sfiorava i 170 km/h, ma era ostacolata dalla posizione di guida eretta e dal manubrio turistico. Il successo sul mercato italiano non fu forse quello che la Suzuki si attendeva, tuttavia i concessionari non ebbero di che lamentarsi, anche perch&eacute; l&rsquo;affidabilit&agrave; del modello favoriva il positivo &ldquo;passaparola&rdquo; ed evitava contenziosi con i clienti.  Passa alla prossima pagina &nbsp; La Kawasaki  Qualche problema in pi&ugrave; avevano invece i concessionari Kawasaki. La Casa di Akashi aveva fatto innamorare con i suoi potentissimi tre cilindri due tempi di serie quella grande massa di motociclisti italiani facilmente conquistabili dall&rsquo;esuberanza dei cavalli. In effetti sia la 500 Mach III (o H1) che la 750 Mach IV (o H2) erano autentiche bombe e nessuna concorrente stradale di pari cilindrata poteva competere in prestazioni. Ma in affidabilit&agrave; s&igrave;&hellip; Quando un amico mi fece provare la sua H1 sul rettilineo della circonvallazione di Faenza, due chilometri furono sufficienti a farmi scendere di sella assolutamente stupefatto e anche un po&rsquo; preoccupato: guidavo in quel momento una Guzzi 750 S, di pari potenza, ma meno veloce e &ldquo;violenta&rdquo;, per&ograve; stabilissima specialmente ad alta velocit&agrave; e con freni incomparabili. La Kawasaki mi impression&ograve; per accelerazione e velocit&agrave;, ma anche per la tendenza alla &ldquo;danza&rdquo; e per la ritrosia dei freni a rallentare quel mostro. Mi ritrovai poi in pista nel campionato italiano Juniores 500 con una Suzuki Titan di serie elaborata in casa contro alcune Kawasaki 500 &ldquo;tiratissime&rdquo;. Su strada la Titan non faceva nemmeno il solletico alla H1, ma in corsa il confronto fu sempre a favore della Suzuki. Come mai? Probabilmente la bicilindrica di Hamamatsu aveva un margine di crescita notevole, mentre la Kawasaki, gi&agrave; molto spinta di serie, era vicina al limite. Questa lunga introduzione per arrivare alla versione 400 della tre cilindri di Akashi, che debutt&ograve; al Salone di Parigi del 1973. Trattandosi di una moto praticamente identica alla 500, la cilindrata ridotta era motivata esclusivamente da ragioni di convenienza fiscale e da un esame patente facilitato in Giappone. La differenza di prezzo rispetto alla 500 era di circa 120.000 Lire, pi&ugrave; o meno uno stipendio medio mensile dell&rsquo;epoca. La 400 non ebbe successo in Italia anche perch&eacute; la sua potenza, 42 CV, era di pochissimo superiore a quella delle altre 350-400 sportive e si ridusse a 38 CV quando le norme antinquinamento americane le imposero il sacrificio. Era dunque identica alla 500, ma non possedeva la stessa esuberanza e, quindi, lo stesso appeal.  La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle       

Yamaha RD 350, Suzuki GT 380 e Kawasaki 400 scrissero pagine indelebili, in una fase di evoluzione del mercato caratterizzata dal confronto con la tecnologia 4T

Le due tempi jap che invasero l'Italia | Polvere di Stelle

        Un capitolo della rassegna dei grandi piloti australiani degli anni Cinquanta. Oltrepassando questo limite temporale altri nomi, altrettanto e anche pi&ugrave; grandi non mancherebbero &ndash; in ordine sparso Jack Findlay, John Dodds, Wayne Gardner, Mick Doohan, Casey Stoner, Chris Vermeulen, Troy Bayliss, Kevin Magee, Garry McCoy, Daryl Beattie, Troy Corser &ndash; ma &ldquo;Polvere di Stelle&rdquo; ha il compito inderogabile di occuparsi della storia del motociclismo, quindi non pu&ograve; soffermarsi troppo a lungo su un solo tema. La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle Jack Ahearn  Jack Ahearn (in foto di copertina) oggi &egrave; un nome sconosciuto ai pi&ugrave;, eppure &egrave; stato un protagonista, uno dei pi&ugrave; forti e determinati piloti del Continental Circus nel suo periodo d&rsquo;oro. Nato l&rsquo;8 ottobre 1924 a Bondi, cittadina costiera alla periferia est di Sydney, da bambino si spost&ograve; con la famiglia nell&rsquo;entroterra a Lithgow, fin&igrave; presto gli studi e inizi&ograve; a lavorare come apprendista falegname. Sognando per&ograve; di correre in moto. Non impieg&ograve; molto a fare il passo decisivo: acquistata una vecchia Triumph 350, si iscrisse al locale Moto Club e cominci&ograve; a gareggiare nelle manifestazioni su strada e off-road. Mentre studiava se valesse la pena insistere in una carriera difficile e legata alla disponibilit&agrave; di mezzi economici e meccanici, scoppi&ograve; la guerra e Jack si arruol&ograve; in aeronautica. A guerra finita non dovette attendere molto per ritornare in sella e gi&agrave; nel 1947 arrivarono le prime affermazioni. Corse dapprima con la Triumph 350, poi con una Ariel Red Hunter 500 e una Velocette KSS 350. Nel 1951 fu vittima di una caduta che gli cost&ograve; la frattura di entrambi i polsi e lo costrinse a una lunga sosta, che impieg&ograve; per guadagnare la somma necessaria per l&rsquo;acquisto di una Norton Manx. Con questa moto torn&ograve; a correre e a vincere, mettendosi in mostra al punto che la Federazione australiana nel 1954 lo inser&igrave; nella rappresentativa nazionale da inviare al Tourist Trophy. Jack Ahearn fece il suo primo approdo in Europa iniziando dalla corsa pi&ugrave; famosa del Mondo, il leggendario Senior TT, nel quale, piazzandosi nono, ottenne il miglior risultato fra i piloti australiani. La conferma del suo valore arriv&ograve; al GP Ulster, dove si piazz&ograve; sesto. Torn&ograve; nel 1955, anno in cui il suo miglior risultato nel Motomondiale fu il sesto posto nel GP Germania, primo sia tra i privati che tra i piloti in sella a una monocilindrica. Divent&ograve; dunque un pilota professionista, ma pur sempre un privato, che per&ograve; si fece presto conoscere dagli organizzatori di corse non soltanto per la bravura in pista, ma anche per la fermezza con cui contrattava gli ingaggi, riuscendo quasi sempre a spuntare premi soddisfacenti. Fu proprio questa fermezza a costargli la licenza internazionale quando, al GP Olanda del 1955, ader&igrave; alla protesta assieme a molti colleghi, tra cui diversi &ldquo;ufficiali&rdquo;, per ottenere diarie pi&ugrave; alte. Fu squalificato per i primi sei mesi del 1956, ragion per cui se ne torn&ograve; in Australia, dove avvi&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; di tassista senza smettere quella di pilota professionista. Con le sue Norton, curate personalmente, vinse un numero impressionante di corse nel suo Paese, ma nel 1958 il fascino irresistibile del Continental Circus lo richiam&ograve; in Europa. Fu una stagione priva di soddisfazioni, pure se il suo valore venne riconosciuto dalla Matchless che al TT gli mise a disposizione la prima versione della G50 monocilindrica ufficiale, ancora purtroppo non competitiva e fragile di meccanica. A questo punto, Jack, che nel frattempo aveva sposato Betty, decise di lasciar perdere. Per tre anni rimase in patria correndo soltanto saltuariamente, ma nel 1962, inserito nuovamente nella rappresentativa australiana al TT, si imbarc&ograve; per il Vecchio Continente. Per due stagioni navig&ograve; con la sua Norton fra i migliori privati, poi, nel 1964, all&rsquo;et&agrave; di quarant&rsquo;anni, port&ograve; a termine il capolavoro della sua carriera piazzandosi secondo nella classifica finale del Mondiale della classe regina, preceduto soltanto da Mike Hailwood su MV quattro cilindri e vincendo il GP Finlandia. Nel corso della stagione ebbe anche la sua seconda occasione da pilota ufficiale quando la Suzuki gli offr&igrave; un contratto e la 250 quattro cilindri in quadrato, potentissima, ma inguidabile e inaffidabile. La prov&ograve; e, rimediata una terribile caduta con ricovero in ospedale, decise di rimanere privato e continu&ograve; nel 1965 e 1966 a ottenere eccellenti piazzamenti nella 500 con la sua ormai decrepita, ma generosa Norton Manx. Nei primi anni Settanta Jack Ahearn, da tempo lontano dal Continental Circus, torn&ograve; in sella gareggiando nelle corse nazionali per le derivate di serie di grossa cilindrata. Nel 1974 appese il casco al chiodo, apr&igrave; una rivendita di moto e si godette la vecchiaia con Betty fino a 92 anni. Si spense a Lismore il 10 aprile 2017. Bob Brown  Bob Brown, nato a Inverell, 400 km a sud di Brisbane, il 9 maggio 1930, dopo le prime esperienze lavorative come meccanico, svolse l&rsquo;attivit&agrave; di tassista e cominci&ograve; a correre in moto. Messosi in luce nel suo Paese, anch&rsquo;egli, come Quincey, Hinton, Kavanagh e Ahearn, venne in Europa a misurarsi nelle corse internazionali e nei GP del Mondiale. Le sue prime affermazioni arrivarono nel 1955, anno in cui il miglior risultato fu il quinto posto nel GP Olanda in sella a una Matchless 500 privatissima, preceduta soltanto da quattro pluricilindriche italiane. L&rsquo;anno dopo concluse una sola corsa iridata, il GP Ulster, ma al secondo posto nella 500 e al sesto nella 350 con una AJS 7R. Nel 1957 un grave incidente a Imola imped&igrave; a Geoffrey Duke di correre al TT e la Gilera affid&ograve; la sua 500 a Bob Brown, il quale all&rsquo;esordio sulla quattro cilindri conquist&ograve; il terzo posto, ripetendosi nella 350. Confermato come ufficiale per il GP Belgio, fu obbligato, al via della corsa, a cedere la sua moto a Libero Liberati, la cui 500 non si era messa in moto sulla linea di partenza. Liberati vinse, ma poi fu squalificato e Brown non corse pi&ugrave; con la Gilera. Nel 1958 lasci&ograve; la Matchless e nella 500 gareggi&ograve; con Norton e BMW; il miglior risultato fu un altro terzo posto al TT, dove ottenne anche il quarto nella 250 guidando una NSU. Il 1959 fu l&rsquo;anno in cui il suo grande talento ebbe finalmente un adeguato riconoscimento: nella 500 si piazz&ograve; terzo assoluto, primo dei privati e primo in sella a una monocilindrica, precedendo nell&rsquo;ordine assi come Duke, Hocking e McIntyre, che dopo l&rsquo;addio alle corse della Gilera erano tornati alle Norton Manx. Chiuse terzo anche la 350, dietro alle MV di Surtees e Hartle, e ancora davanti a Duke e Hocking. Il 1960 cominci&ograve;, per Bob Brown e la sua Norton, con tre podi su quattro GP nella 500, ma nel frattempo si era fatta avanti la Honda, che lo aveva ingaggiato per pilotare la sua 250 quattro cilindri al TT. Bob aveva accettato e su questa nuovissima moto aveva regalato alla Casa giapponese uno storico quarto posto. Confermato pilota ufficiale con Redman e Phillis, Brown fu vittima di un gravissimo incidente nelle prove del GP Germania classe 250 e pochi giorni dopo, il 23 luglio, mor&igrave; all&rsquo;ospedale di Stoccarda.  Passa alla prossima pagina per la storia di Tom Phillis Tom Phillis  La carriera di Tom Phillis, australiano di Sydney (9 aprile 1934) fu molto simile a quella di Bob Brown. Figlio di un portaordini militare motociclista, a 16 anni lasci&ograve; gli studi per diventare apprendista meccanico. Inizi&ograve; a correre in bicicletta, ebbe un grave incidente in gara e nel 1953 pass&ograve; al motociclismo. Fino al 1957 corse con varie moto non competitive finch&eacute; non riusc&igrave; a entrare in possesso di una Norton Manx usata con cui ottenne le prime importanti vittorie nazionali. Sposatosi nel 1954 con Betty, quattro anni dopo la coppia vendette tutto ci&ograve; che aveva in Australia e si imbarc&ograve; per l&rsquo;Europa. Con due nuove Norton 350 e 500, Tom si impose subito come un vincente nelle corse internazionali non titolate, partecip&ograve; anche ad alcune gare del Mondiale piazzandosi in Top 10 nella 500 in Olanda e in Svezia. Nel 1959, il miglior risultato fu il quinto posto con la 350 nel GP Ulster. Nel 1960 fu ingaggiato dalla Honda per correre con le sue 125 e 250: con la ottavo di litro non combin&ograve; nulla per guasti al motore e una brutta caduta, al TT si consol&ograve; con la sua Norton 500 piazzandosi quarto, poi la prima vittoria iridata gli sfugg&igrave; per un soffio all&rsquo;Ulster con la Honda 250, battuto soltanto da Carlo Ubbiali con la MV ufficiale. La Honda lo conferm&ograve; per il 1961 e la scelta fu ripagata da Tom Phillis con una stagione trionfale: campione del Mondo della 125 con quattro vittorie e vice campione della 250 con due vittorie. Nella 500 concluse una sola gara, il Senior TT, ma con il miglior risultato della carriera, terzo. Al culmine del suo percorso, inizi&ograve; il 1962 correndo nella Mototemporada Romagnola, vinse a Imola, fu secondo a Cesenatico e terzo nella 250 nei GP Spagna e Francia, poi si trasfer&igrave; all&rsquo;Isola di Man per il TT. Dopo due terzi posti nelle 125 e 250, scatt&ograve; al via della 350 con una Honda ufficiale maggiorata a 285 cm&sup3;. Al secondo giro cadde rovinosamente vicino al paese di Peel e non si rialz&ograve; pi&ugrave;. Le sue ceneri furono sparse sulla linea di partenza del Mountain Circuit.  La storia di Libanori | Polvere di Stelle       

La puntata della rubrica &egrave; dedicata ad alcuni dei grandi pionieri del motociclismo australiano: vicende cos&igrave; forti da segnare un&rsquo;epoca

Le vicende di Ahearn, Brown e Phillis | Polvere di Stelle

        Come in Giappone e in Italia negli anni Quaranta e Cinquanta, anche in America agli albori del ventesimo secolo il nascente mercato della motocicletta era inflazionato da un numero esuberante di piccole e medie industrie. Fra queste spiccavano Indian, Harley-Davidson ed Excelsior, che si contendevano il primato sia tecnico che sportivo e commerciale. La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle La Torpedo  Ma per pochissimo tempo, una quarta marca, oggi del tutto dimenticata, godette di buona fama e tent&ograve; di inserirsi fra le protagoniste del mercato: si chiamava Torpedo ed era prodotta dalla Hornecker Motor Manufacturing Company. Raccontandone la storia, per prima cosa va precisato che la Torpedo americana non ha nulla a che vedere con la moto recante lo stesso nome e costruita in Boemia nel 1909. Nulla a che vedere neanche dal punto di vista tecnico, visto che la Torpedo europea era dotata di un originalissimo motore a quattro cilindri a ventaglio, soluzione mai concepita per la moto Made in USA. George Hornecker, nato il 3 ottobre 1873 a Geneseo, nell&rsquo;Illinois, era uno dei nove figli di George e Catherine Hornecker, agricoltori tedeschi di Baden Baden emigrati in America. Fino all&rsquo;et&agrave; di 23 anni lavor&ograve; nella fattoria di famiglia, poi si trasfer&igrave; a Whiting, nell&rsquo;area metropolitana di Chicago, per seguire Clara, figlia del reverendo Herman Philip Wille, Ministro della Chiesa luterana di Geneseo, che si era spostato con la famiglia. A Whiting, George Hornecker trov&ograve; lavoro presso la raffineria della Standard Oil e, una volta &ldquo;sistematosi&rdquo;, spos&ograve; Clara, quindi si licenzi&ograve; e apr&igrave; in proprio un negozio di ferramenta. Nel volgere di un lustro, questa attivit&agrave; si allarg&ograve;, divenne un grande magazzino che nei primi anni del &lsquo;900 era gi&agrave; considerato il pi&ugrave; economicamente fiorente della citt&agrave;. A soli 30 anni, Hornecker non soltanto possedeva un avviatissimo negozio, ma gestiva anche la prima compagnia telefonica di Whiting ed era stato eletto consigliere comunale. Non pago di questo successo, nel 1905 vendette il grande magazzino e si dedic&ograve; a un settore che prometteva un&rsquo;espansione enorme in tempi ristretti: i veicoli a motore. Cominci&ograve; aprendo un garage e vendendo e riparando automobili nonch&eacute; veicoli di ogni genere, ma, instancabile, nei primi mesi del 1906 fond&ograve; la Hornecker Motor Manufacturing Company e inizi&ograve; a produrre motociclette con il nome Torpedo. I primi modelli erano monocilindrici molto simili a quelli prodotti da Indian e Thor, ma presto si distinsero per alcune caratteristiche innovative come il comando dell&rsquo;acceleratore e dell&rsquo;anticipo dell&rsquo;accensione a manopola sul manubrio, ma anche per le sospensioni telescopiche che, viste le strade d&rsquo;allora, furono molto apprezzate. Gi&agrave; nel 1907 fece la sua comparsa nel catalogo delle Torpedo il modello bicilindrico con motore Thor a &ldquo;V&rdquo; longitudinale da 5 CV, il cui basso costo &ndash; soltanto 275 dollari &ndash; ne favor&igrave; la buona diffusione. Per far conoscere le sue moto sul mercato, Hornecker organizz&ograve; anche un piccolo reparto corse che partecip&ograve; soprattutto a gare di resistenza. Nel 1906 vinse due delle tre corse in programma a Muskegon, nello stato del Michigan. Successivamente colse un&rsquo;importante affermazione nella &ldquo;Chicago Examiner Cup&rdquo; e questo le valse diversi articoli di plauso sui giornali. Quando le ultime versioni Torpedo furono presentate all&rsquo;ottavo Salone dell&rsquo;Auto di Chicago, il &ldquo;Whiting Sun&rdquo; scrisse: &ldquo;La fabbrica di motociclette di Whiting sta arrivando rapidamente in prima linea con ordini in arrivo da tutto il Paese&rdquo;. Purtroppo non and&ograve; cos&igrave;. Nel 1907 Clara si era ammalata ed era stata costretta al ricovero, in gravi condizioni, al Wesleyan Hospital di Chicago. La degenza dur&ograve; diversi mesi e nello stesso ospedale venne ricoverato per due settimane anche suo marito George, vittima di un incidente in fabbrica. Dopo otto mesi, Clara venne dimessa ma su una sedia a rotelle: la malattia le aveva reso impossibile camminare. A quel punto, avendo bisogno della collaborazione di alcuni dei cinque figli che vivevano ancora a Geneseo per assisterla nel migliore dei modi, George Hornecker decise di chiudere lo stabilimento di Whiting e far ritorno alla citt&agrave; natale. Il trasferimento e l&rsquo;organizzazione di una nuova fabbrica furono motivo di grandi spese e della perdita di un prezioso collaboratore, Charles Blankenheim, suo braccio destro e pilota delle Torpedo in gara. Tuttavia George riusc&igrave; a far ripartire la produzione e a mantenere salda la reputazione delle sue moto finch&eacute;, nel 1911, la situazione finanziaria dell&rsquo;azienda, mai ritornata in positivo e giunta al limite del collasso, lo obblig&ograve; a chiudere i battenti. Le Torpedo uscirono cos&igrave; prematuramente di scena. George Hornecker, dopo aver trasferito la famiglia a Coal City, 60 km a sud di Chicago, torn&ograve; dapprima a fare il venditore di ferramenta per conto di un&rsquo;azienda locale, poi fu assunto come dirigente della Bent Brothers, una fabbrica di mobili. Scomparve nel 1953 all&rsquo;et&agrave; di ottant&rsquo;anni. Nonostante la genialit&agrave; delle sue idee e le indubbie competenze nel settore, non era mai tornato a occuparsi di motociclette, anche perch&eacute; in America il mercato dell&rsquo;automobile stava gi&agrave; crescendo a dismisura e forse Hornecker aveva intuito che nel volgere di poco tempo il naturale successore del cavallo e della bicicletta sarebbe stato posto in ombra dall&rsquo;erede delle carrozze.  Capitolo alluvione  L&rsquo;alluvione che ha devastato la Romagna dal mare alle citt&agrave;, alle colline, ha causato danni enormi, incalcolabili, alle famiglie, alle colture, alle imprese, alle strutture. Mentre gi&agrave; si lavora per ritornare il pi&ugrave; rapidamente possibile alla normalit&agrave;, chi &egrave; uscito indenne da questa catastrofe sta organizzandosi per dare una mano ai pi&ugrave; sfortunati. E &ldquo;dare una mano&rdquo; non consiste soltanto in quel meraviglioso slancio che ha portato in Romagna persone da tutta Italia a faticare duramente per liberare dal fango case e aziende, ma anche &ndash; e oggi soprattutto &ndash; nell&rsquo;offrire un contributo economico per la ripresa. Molti appassionati collezionisti romagnoli hanno visto i loro veicoli d&rsquo;epoca sommersi da valanghe d&rsquo;acqua e di fango, e non esagero, credetemi. Io stesso, proprietario di una moto, una Honda CBX 1000 del 1979 e di un&rsquo;auto Willys del 1929, ne ho avuto esperienza: la moto, che era nel mio garage, si &egrave; salvata, l&rsquo;auto, in quel momento in officina a Faenza, no. Ecco dunque che Benito Renzo Battilani di Imola, uno dei collezionisti pi&ugrave; stimati e noti non soltanto in Italia, si &egrave; subito speso per creare un comitato, assieme ai suoi &ldquo;colleghi&rdquo; Alessio Ridi, Paolo Massari e Giuliano Galassi, con l&rsquo;obiettivo di fornire un aiuto concreto a favore di chi ha avuto moto d&rsquo;epoca gravemente danneggiate dall&rsquo;alluvione. Si &egrave; quindi bandita una raccolta fondi destinata a rifondere questi danni in parti percentuali secondo uno specifico prontuario in via di definizione. Il comitato sollecita enti, Club, associazioni o motociclisti in genere ad aderire all&rsquo;iniziativa tramite bonifico di qualsiasi entit&agrave; sull&rsquo;IBAN IT62T36O810513828O12978O139 intestato ad Alessio Ridi, specificando come causale &ldquo;moto storiche alluvionate Emilia-Romagna 2023&rdquo;. Si consiglia di conservare la ricevuta del bonifico. I proprietari delle moto alluvionate sono pregati di produrre le foto e di specificare il livello raggiunto dall&rsquo;acqua e quant&rsquo;altro possa essere utile per l&rsquo;accertamento dei danni e il calcolo delle rispettive percentuali. Tale documentazione deve essere inviata a Benito Renzo Battilani tramite WhatsApp al numero 347/29.80.268 oppure via e-mail a benito.battilani@alice.it.        

La storia della concorrente di Indian, Harley-Davidson ed Excelsior. Nel presente, un&rsquo;iniziativa per chi ha subito danni a causa dell&rsquo;alluvione

La Torpedo di George Hornecker | Polvere di Stelle

        Abbiamo visto nella prima puntata di questa storia del motocarro che all&rsquo;inizio fu il sidecar a prevalere per il trasporto di merci e materiali, ma i limiti dimensionali del cassone laterale portarono alla scelta di mezzi con telaio modificato per alloggiare il vano di carico in posizione centrale davanti al manubrio, fra due ruote anteriori, oppure dietro alla sella con la coppia di ruote collocata invece posteriormente. La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle Harley-Davidson a tre ruote  Il sistema pi&ugrave; diffuso, almeno nella fase pionieristica del motocarro, fu quello del triciclo con due ruote anteriori e cassone, o furgone, o sedile per uno o due passeggeri, in mezzo. Il motivo di questa scelta era soprattutto economico: si poteva usare un&rsquo;intera motocicletta fino al cannotto di sterzo e l&rsquo;unica modifica strutturale importante era allungare il telaio anteriormente per supportare la coppia di ruote e il piano di carico. Gli svantaggi erano comunque notevoli: maneggevolezza molto scarsa, dovuta soprattutto al peso gravante sullo sterzo, dimensioni del vano di carico limitate per non ostacolare la visibilit&agrave; da parte del pilota e tendenza al ribaltamento in avanti nelle brusche frenate. Viceversa, con il cassone posteriore si poteva avere maggiore carico, pi&ugrave; maneggevolezza, migliore trazione, ma proprio la possibilit&agrave; di ospitare cassoni di maggiori dimensioni e capacit&agrave; imponeva progettazione e costruzione pi&ugrave; complesse e costose, nonch&eacute; l&rsquo;adozione del differenziale sull&rsquo;assale posteriore. Uno dei tricicli da carico pi&ugrave; diffusi e celebri del periodo antecedente la Prima Guerra mondiale fu il &ldquo;Motorcycle Truck&rdquo; prodotto dalla Harley-Davidson a partire dal 1913. Basato su un modello normale di motocicletta con motore bicilindrico da 8 CV e cambio a due rapporti, strutturalmente impostato sullo schema delle due ruote anteriori, con vano di carico della portata di 270 kg, divent&ograve; subito il veicolo preferito dalle Poste americane; in due anni di presenza sul mercato USA ne furono costruiti 322. La Casa di Milwaukee, comunque, si dimostr&ograve; molto incerta sulle caratteristiche da adottare per i suoi tre ruote commerciali: cessata la produzione del &ldquo;Motorcycle Truck&rdquo; alla fine del 1915, lo sostitu&igrave; con il &ldquo;Package Truck&rdquo; che rappresent&ograve; un ritorno al sidecar: fu largamente impiegato in guerra, in diverse versioni, e anche nel dopoguerra fino al 1932, quando fu la volta del &ldquo;Servi Car&rdquo;, una moto a tre ruote (due posteriori) con un&rsquo;elegante carrozzeria che incorporava posteriormente un baule piuttosto ampio, anche se non paragonabile a quello di un motocarro. Durante la Grande Guerra, la preferenza dei militari and&ograve; universalmente ai sidecar, che potevano essere prodotti con diverse funzionalit&agrave; su un&rsquo;unica base, poi aggan ciati facilmente alle motociclette. Tornata la pace, le motocarrozzette si trasformarono istantaneamente in veicoli commerciali e ancora per alcuni anni tennero saldamente lo specifico mercato.  MAS, Goliath e Moto Guzzi  Nel 1924 fu presentato quello che &egrave; considerato il primo motofurgone italiano. La priorit&agrave; spetterebbe alla marca MAS che aveva come fondatore e progettista il famoso ingegnere Alberico Seiling. Non si sa praticamente nulla di questo veicolo, se non che era un tre ruote con coppia senz&rsquo;altro posteriore, vano di carico sospeso elasticamente, motore MAS di 175 cm&sup3; a valvole in testa e velocit&agrave; massima di circa 50 km/h. In quello stesso anno, a Brema, Carl Borgward, proprietario della fabbrica di radiatori Goliath, decise di entrare nel settore dei veicoli a motore e tent&ograve; la strada di una vettura sportiva. L&rsquo;operazione non and&ograve; in porto e, ridimensionando le proprie ambizioni, l&rsquo;imprenditore avvi&ograve; la costruzione di un tre ruote leggero con ruota direttrice anteriore e coppia di ruote motrici posteriore. Alla propulsione provvedeva un motore di 120 cm&sup3; a due tempi da 2 CV. Pur trattandosi di un modello non all&rsquo;avanguardia nel suo settore &ndash; privo di cambio, doveva essere avviato a spinta &ndash; godette del favore delle Poste tedesche e conobbe una certa diffusione con il nome di &ldquo;Blitzkarren&rdquo;. Nel 1926 la Goliath present&ograve; il modello &ldquo;Rapid&rdquo; che invertiva l&rsquo;impostazione (due ruote anteriori) ma con miglioramenti tecnici ed estetici. Spinto da un motore Ilo monocilindrico a due tempi di 190 cm&sup3; erogante 4 CV, poteva trasportare un carico di 250 kg, che sal&igrave; a 300 nella versione del 1928, anno in cui in Italia fece la sua prima apparizione sul mercato un motocarro marcato Moto Guzzi. Denominato &ldquo;Tipo 107&rdquo;, si distingueva per la concezione originale che caratterizzava tutti i prodotti dell&rsquo;ingegno di Carlo Guzzi. Partendo infatti dalla motocicletta Sport, il Tipo 107 era stato realizzato staccando la triangolazione posteriore del telaio, con la ruota, e imbullonando al suo posto un&rsquo;intelaiatura in acciaio su cui era fissato &ndash; con molleggio a balestre &ndash; un cassone con sponde di legno, oppure un vano di carico metallico chiuso. La capacit&agrave; di carico era di tre quintali. La trasmissione alla coppia di ruote posteriori avveniva tramite una lunga catena con tenditore centrale ed era completata dal differenziale sul ponte di tipo automobilistico. Il motore era il monocilindrico orizzontale raffreddato ad aria di 500 cm&sup3; da tredici cavalli con distribuzione a valvole contrapposte e cambio a tre rapporti. La caratteristica pi&ugrave; interessante era la possibilit&agrave; di rimuovere facilmente il &ldquo;carro&rdquo; e la coppia di ruote risistemando in posizione, imbullonandolo, il retrotreno della moto, grazie a un kit ruota+triangolazione di tubi, che la Moto Guzzi metteva in vendita come accessorio. In realt&agrave;, qualcosa del genere esisteva gi&agrave; prima del Tipo 107: nel 1923 la ditta Dal Vero aveva prodotto un carrozzino con due ruote e differenziale adattabile a qualsiasi moto di una certa potenza sistemandolo al posto della ruota posteriore in posizione centrale. La trasformazione non era per&ograve; reversibile. Il carrozzino Dal Vero fu acquistato a met&agrave; degli anni Venti dalla Stucchi che mise in vendita non un motocarro, ma una specie di vetturetta a tre ruote per tre passeggeri (pilota compreso) spinta da un suo motore bicilindrico a &ldquo;V&rdquo; longitudinale di un litro di cilindrata con cambio a tre rapporti. Fu comunque la Moto Guzzi, con il successo commerciale dei suoi primi modelli e la loro efficienza e funzionalit&agrave; a trascinare molti costruttori italiani e anche stranieri sulla strada del motocarro. Tra le numerose proposte di quel periodo, cio&egrave; all&rsquo;inizio degli anni Trenta, si distinse quella della Ollearo di Torino, che nel 1934 present&ograve; un furgone a tre ruote (coppia posteriore) con cabina chiusa integrata nel disegno della carrozzeria. Il motore era un Ollearo &ldquo;Perla&rdquo; di 500 cm&sup3; con cambio a quattro rapporti, trasmissione ad albero e differenziale. Un motocarro assolutamente ben fatto, che avrebbe potuto confrontarsi con i migliori prodotti della Moto Guzzi se non fosse stato costruito nel lontano Giappone ancora chiuso nei mercati asiatici, fu il &ldquo;Mazda Go&rdquo;, progettato nel 1929 ed entrato in produzione nell&rsquo;ottobre del 1931.  Mazda  In quello stesso 1929 la Mazda aveva realizzato una motocicletta con motore a due tempi di 250 cm&sup3; ma, dopo averne costruite una trentina, aveva optato per le migliori prospettive di mercato offerte da un tre ruote da trasporto. Il risultato fu un robustissimo motocarro con un telaio in longheroni d&rsquo;acciaio, ruote (due posteriori motrici e anteriore direttrice) a disco con larghi pneumatici e motore monocilindrico di 482 cm&sup3; raffreddato ad aria da 9,5 CV con cambio a tre rapporti pi&ugrave; retromarcia e differenziale. Molto riuscito anche esteticamente, il Mazda Go nel 1936 fu pubblicizzato con un raid di cinque motocarri che in carovana coprirono in 25 giorni oltre 2700 km sul percorso Tokyo&ndash;Kagoshima e ritorno. Il 1936 vide anche il debutto sul mercato del Goliath F400, un veicolo da trasporto molto diverso dal primo modello della Casa di Brema. Aveva s&igrave; la coppia di ruote al retrotreno come il &ldquo;Blitzkarren&rdquo; ma un motore decisamente pi&ugrave; potente: un bicilindrico a due tempi di 395 cm&sup3; disposto trasversalmente con raffreddamento forzato ad aria per i cilindri, cambio a tre rapporti con retromarcia e trasmissione finale ad albero con differenziale. Inoltre il posto di guida era ospitato in una cabina chiusa anteriore e non all&rsquo;estremit&agrave; posteriore del veicolo, allo scoperto. Offerto in varie configurazioni, il Goliath F400 fu un best seller in Germania e gener&ograve; numerose imitazioni in vari Paesi del mondo, specialmente in India.  Continua La storia di Libanori | Polvere di Stelle       

Quasi un secolo fa, Moto Guzzi e Mazda si misurarono sul terreno dei tricicli. Ai tempi, per&ograve;, il mercato asiatico era ancora troppo distante

Italia-Giappone, un "duello" a tre ruote | Polvere di Stelle

        &Egrave; nato prima il motocarro o il sidecar? Per gli amanti delle motocarrozzette, questo accostamento &egrave; senz&rsquo;altro un&rsquo;eresia, ma &egrave; innegabile che i due veicoli abbiano avuto, almeno all&rsquo;origine, parecchio in comune: dalle tre ruote, alla funzione di carico. L&rsquo;idea delle tre ruote &egrave; addirittura pi&ugrave; antica delle motociclette, furono infatti i tricicli De Dion a benzina, con due ruote posteriori e una anteriore, a decretare il primo successo commerciale della motorizzazione leggera privata. La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle Alle origini dei mezzi a tre ruote  Nello stesso periodo furono costruiti anche tricicli con due ruote anteriori e una posteriore, come la &ldquo;Vetturetta&rdquo; di Leon Bollee e il Petrol Cycle di Edward Butler, ma il loro successo non fu lontanamente paragonabile a quello dei De Dion-Bouton, imitati o costruiti su licenza in tutta Europa fino alla fine del diciannovesimo secolo. In realt&agrave; il primissimo triciclo a motore da carico &ndash; perch&eacute; &egrave; di questo particolare veicolo di cui vorrei raccontare la storia &ndash; fu il fardier a vapeur inventato, costruito e sperimentato da Nicolas Cugnot ingegnere militare francese, tra il 1765 e il 1770. Niente a che vedere, naturalmente, con il &ldquo;motocarro&rdquo;, basti pensare che il veicolo di Cugnot era lungo 7,25 metri, largo 2,19 metri e spinto da un colossale motore a vapore a due cilindri con 325 mm di alesaggio e 387 mm di corsa. Ma l&rsquo;obiettivo dell&rsquo;ingegnere francese era lo stesso che avrebbe animato le idee dei progettisti del &lsquo;900: trasportare carichi importanti su un mezzo non trainato da cavalli, bens&igrave; da un motore sufficientemente potente. Il fardier a vapeur, che aveva due ruote posteriori e una anteriore sterzante e motrice, era stato concepito per il movimento di cannoni fino a 4500 kg di peso. L&rsquo;effettiva data di nascita del motocarro come lo intendiamo oggi guardando soprattutto il pi&ugrave; celebre degli esempi rimasti, ossia l&rsquo;Ape Piaggio, non &egrave; precisabile. Nei primi anni del &lsquo;900, quando i veicoli con motore a scoppio diedero inizio alla loro ininterrotta evoluzione, l&rsquo;ipotesi di un mezzo motorizzato da carico si fece strada in due direzioni: il camion, derivato dall&rsquo;automobile, e il sidecar, sviluppato dall&rsquo;applicazione di un &ldquo;abitacolo&rdquo; o di un cassone a fianco di una motocicletta e sostenuto da una terza ruota. Il sidecar fu senz&rsquo;altro detentore del primato, in quanto semplice fissaggio di un accessorio (il carrozzino o il cassone, entrambi con ruota propria) a una moto a cui si richiedeva soltanto &ndash; per poterlo ospitare &ndash; la disponibilit&agrave; di un banale sistema di attacchi al telaio originale. Ma se il carrozzino laterale si prestava bene ad accogliere un passeggero, un cassone &ndash; chiuso o aperto &ndash; era decisamente insufficiente a trasportare un carico per il quale valesse la pena la trasformazione. Le dimensioni del cassone erano infatti limitate non soltanto dalla necessit&agrave; di permettere alla ruota anteriore della moto di sterzare senza entrare incontrare ostacoli, ma anche da un ingombro trasversale che si sommava a quello del veicolo al quale era congiunto. Nacque cos&igrave; l&rsquo;idea di un nuovo veicolo leggero ed economico, capace di trasportare carichi significativi pur legandosi concettualmente, e in parte anche concretamente, alla motocicletta. La soluzione del problema, si vide subito, stava nell&rsquo;applicazione del cassone, coperto o scoperto, a un telaio appositamente progettato, dotato di tre ruote e prolungato oltre il davanti della motocicletta classica, o dietro, dopo la sella del pilota. La disposizione dell&rsquo;elemento di carico centrale rispetto all&rsquo;asse longitudinale della moto ampliava notevolmente la larghezza potenziale del cassone, che non doveva pi&ugrave; tener conto dell&rsquo;ingombro trasversale del veicolo d&rsquo;appoggio, ma soltanto della presenza delle due ruote laterali e creava soltanto un accettabile limite (nel caso del cassone anteriore) alla sterzata. Tre ruote, gli esempi pi&ugrave; antichi  Il pi&ugrave; antico esempio di motocarro da me rintracciato &egrave; il Laurin &amp; Klement LW del 1905. La Laurin &amp; Klement (oggi industria automobilistica Skoda) fu una delle prime industrie motociclistiche del Mondo; era situata a Mlada Boleslav, in Boemia (allora facente parte dell&rsquo;Impero Austro-ungarico) ed era sorta per iniziativa del libraio Vaclav Klement, che si era associato al meccanico Vaclav Laurin. Dapprima la L&amp;K aveva prodotto biciclette, poi motociclette monocilindriche, bicilindriche e a quattro cilindri, infine pass&ograve; alle automobili. Le moto boeme erano molto affidabili e capaci di elevate prestazioni e ben lo constatarono i francesi nel 1905, quando una Laurin &amp; Klement, guidata dal pilota Wondrick, si impose di forza nel secondo Trofeo Internazionale sul circuito di Dourdan, vicino Parigi, umiliando i migliori prodotti francesi e inglesi. Fu appunto nel 1905 che la L&amp;K decise di ampliare la gamma inserendo in catalogo il motocarro LW, un tre ruote con la coppia sterzante sull&rsquo;assale anteriore e la trazione a catena sulla ruota singola posteriore. Il motore era un monocilindrico di 800 cm&sup3; della potenza di 5 CV dotato di raffreddamento ad acqua. Il veicolo, pesante 160 kg, poteva essere equipaggiato con un ampio sedile a due posti trasversali davanti al perno di sterzo, oppure con un cassone furgonato con capacit&agrave; di carico massima di 200 kg. Il Laurin &amp; Klement LW (&ldquo;W&rdquo; stava per &ldquo;Water&rdquo;, cio&egrave; &ldquo;acqua&rdquo;) inizialmente stent&ograve; a farsi apprezzare a causa della scarsa esposizione all&rsquo;aria del radiatore, montato alle spalle del cassone, e della difficolt&agrave; di avviamento (a spinta). I difetti furono subito rimossi, soprattutto adottando un cambio a due velocit&agrave; con frizione, che permetteva la messa in moto da fermo, e da quel momento il modello LW divenne un best seller. I tricicli da carico della Laurin &amp; Klement si diffusero a macchia d&rsquo;olio nell&rsquo;Impero Austro-ungarico dopo che le Poste Imperiali, che li avevano adottati, ne dimostrarono la grande efficienza con un record: a Praga, il 20 giugno 1906, il postino Kundert, che a piedi normalmente riusciva a svuotare 37 cassette postali di Praga in due ore e mezzo, con il motofurgone LW comp&igrave; la stessa operazione in appena 58 minuti. I tricicli motorizzati, che avevano conosciuto un discreto successo negli ultimi anni del 1800 come veicoli leggeri ed economici anche per il trasporto di persone, contrapposti alle prime carrozze a motore, gi&agrave; agli albori del &lsquo;900 sembravano destinati a sopravvivere soltanto come veicoli commerciali da carico. Soltanto un costruttore tent&ograve;, nel 1907, di opporsi a questa decadenza tentando di vincere, contro le automobili, potenti e pesanti, un&rsquo;impresa di risonanza internazionale: la Pechino&ndash;Parigi, una corsa, ma anche una sfida tecnica. Lo comprese immediatamente anche il giornale francese &ldquo;Matin&rdquo;, promotore del raid, che, annunciando l&rsquo;adesione del principe Borghese con la Itala da 40 HP, largamente la macchina pi&ugrave; potente in gara, evidenzi&ograve; la lotta fra la vettura grande contro la piccola: &ldquo;L&rsquo;una capace di andar presto, l&rsquo;altra di passare per tutto&rdquo;. La storia di Libanori | Polvere di Stelle Il triciclo Contal  La piccola era il triciclo francese di marca Contal (in foto), con motore da appena 6 HP, guidato da Auguste Pons, un pilota esperto coadiuvato dal meccanico Octave Foucault, ospitato sul sedile anteriore. Il veicolo era denominato &ldquo;Mototri&rdquo; e la struttura era a due ruote anteriori sterzanti e una posteriore motrice. Ma &ldquo;piccolo&rdquo; non fu &ldquo;bello&rdquo;. Impossibilitato a trasportare rifornimenti a bordo a causa dei limiti strutturali, il Mototri rimase senza benzina nel deserto dei Gobi e i due francesi, allucinati dal caldo e dalla sete, furono salvati dopo tre giorni da un drappello di cavalieri mongoli. Il passeggero dunque usc&igrave; dalla scena dei tricicli a motore, ma comparvero al suo posto applicazioni di ogni genere: dai cassoni, ai furgoni, alle pompe antincendio, al supporto per cannoncini e mitragliatrici&hellip; Particolarmente interessante in quel periodo pionieristico fu il triciclo della fabbrica inglese Singer, uno dei primi modelli, se non proprio il primo, ad aver proposto una coppia di ruote posteriori con il vano di carico sistemato fra loro, la soluzione che avrebbe dettato il futuro dei motocarri. L&rsquo;unico handicap del triciclo Singer risiedeva nella trazione anteriore tramite la &ldquo;Perks &amp; Birch Motorwheel&rdquo;, l&rsquo;esclusiva ruota che conteneva il motore monocilindrico a quattro tempi di 208 cm&sup3; da 2,25 CV raffreddato ad aria. &Egrave; intuibile come un carico rilevante nel cassone posteriore riducesse sensibilmente l&rsquo;aderenza della ruota motrice anteriore.  Continua       

Il &ldquo;fardier a vapeur&rdquo; inventato da Nicolas Cugnot oltre 250 anni fa avvi&ograve; una storia che conobbe una svolta a inizio &lsquo;900 grazie a Laurin e Klement

La genesi dei mezzi a tre ruote | Polvere di Stelle

        Giovanni Parrilla nacque il 21 ottobre 1911 a Corigliano, in Calabria, da una famiglia di antiche origini basche con cui and&ograve; a stabilirsi a Mantova all&rsquo;et&agrave; di quattro anni. L&igrave; inizi&ograve; a occuparsi di meccanica ed elettrotecnica come apprendista presso un elettrauto. La storia di Libanori | Polvere di Stelle La dinastia Parrilla   Trasferitosi a Milano nel 1929, Giovanni Parrilla trov&ograve; lavoro in un&rsquo;officina, ma quando cominciava a far progetti per aprire un&rsquo;attivit&agrave; propria fu chiamato a svolgere il servizio militare che lo trattenne fino al 1936. Finalmente, diventato imprenditore di se stesso, dimostr&ograve; in breve tempo di possedere talento sia per il lavoro che per gli affari. La sua officina prosper&ograve; dandogli quell&rsquo;agiatezza che gli era sempre mancata, ma la Seconda Guerra mondiale lo costrinse ad abbandonare tutto per recarsi militare in Africa. Tornato a Milano, rilanci&ograve; l&rsquo;officina e cominci&ograve; a pensare a un suo vecchio progetto: diventare costruttore di motociclette. Il 1946 fu per Giovanni Parrilla e sua moglie, Amorina Troiani, un anno impossibile da dimenticare. Il 20 marzo nacque il secondogenito, Angelo, ma, appena undici giorni dopo, ogni gioia per l&rsquo;evento fu spazzata via dall&rsquo;improvvisa morte di Giuliana, vittima di una meningite fulminante a soltanto sette anni. A fine maggio il completamento del primo prototipo segn&ograve; l&rsquo;inizio di un&rsquo;avventura industriale e l&rsquo;appagamento di un sogno. La moto, una modernissima 250 monoalbero di impostazione sportiva, entr&ograve; in produzione nel 1947 incontrando notevole successo. In pochi anni la Parilla (con una &ldquo;r&rdquo; in meno, il marchio venne giudicato meglio pronunciabile) divenne famosa in tutta Europa e anche in America, sia per i numerosi e originali modelli a due e quattro tempi di cilindrate da 50 a 350, che per le vittorie sportive. La storia di questa industria motociclistica milanese &egrave; stata raccontata magistralmente da Bruno Baccari, creatore del Museo Parilla a Modigliana (FO) nel suo completissimo libro &ldquo;Moto Parilla&rdquo; pubblicato nel 2006 dall&rsquo;editoriale Sometti di Mantova. Qui, su Polvere di Stelle, l&rsquo;ho ricordata in estrema sintesi soprattutto per rendere noto ai meno esperti e ai pi&ugrave; giovani lettori il livello al quale si colloc&ograve; questa marca, nata soltanto nel secondo dopoguerra, inserendosi grazie tecnica e qualit&agrave; fra quelle che nello stesso periodo dominavano il mercato. Questa sintesi &egrave; motivata da una e-mail che ho ricevuto da Achille Parrilla, terzogenito di Giovanni, con la quale purtroppo mi informava della scomparsa di suo fratello Angelo, il 14 aprile scorso. Giovanissimi quando nei primi anni Sessanta Giovanni matur&ograve; la decisione di cessare la produzione motociclistica e di continuare da imprenditore nel nuovo mondo dei go-kart, i fratelli Parrilla non ebbero poi esitazioni a raccogliere il testimone del padre al momento del suo ritiro dalla scena dopo aver vinto nel 1962 con i suoi motori la Coppa del Mondo classi 100 e 200 cm&sup3; e la Coppa Italia a squadre. Rimasero nel settore kartistico come produttori di motori e di telai vincenti; l&rsquo;elenco delle competizioni nazionali e internazionali vinte dai motori prodotti con i marchi DAP, Italsistem e Italcorse, fondate dai fratelli Parrilla, &egrave; vastissimo e spazia su un ventennio, e nel 1989 la loro attivit&agrave; si espresse anche in un progetto carico di nostalgia: il ritorno alle corse motociclistiche con un prototipo di 125 cm&sup3; che quell&rsquo;anno si classific&ograve; al secondo posto nel Trofeo Nazionale Grand Prix. Alla e-mail speditami da Achille Parrilla era allegata una biografia di suo fratello Angelo: un ricordo carico di affetto sul quale mi sarebbe dispiaciuto intervenire. La pubblico, quindi, sicuro che i lettori di Polvere di Stelle sapranno apprezzarla. Passa alla prossima pagina &nbsp; La biografia di Angelo Parrilla  &ldquo;Mentre la &lsquo;Moto Parilla&rsquo; cresceva di immagine e di fatturato grazie alla qualit&agrave; eccelsa del prodotto, dapprima per pochi e poi allargatosi ad una clientela via via pi&ugrave; vasta anche con l&rsquo;introduzione di un motociclo a due tempi di 250 cm&sup3;, Angelo frequentava le scuole elementari presso l&rsquo;Istituto Vittoria Colonna nel cuore di Milano. Inizialmente la famiglia abitava in viale Sabotino 5, a 50 metri dalla bottega di elettrauto/pompe iniezione di Giovanni. Nel 1953 la famiglia si trasferir&agrave; in via Antonelli, 3 al quinto piano sopra ad una delle fabbriche &lsquo;Moto Parilla&rsquo;. Gi&agrave; a tre anni Angelo si entusiasmava, riconoscendo sulle piste i piloti ufficiali Parilla dal numero sulla motocicletta. Con il passare degli anni era sempre pi&ugrave; difficile tenere Angelo lontano dal reparto corse che era un piano sotto all&rsquo;abitazione, e dove Angelo scappava appena la madre allentava la sorveglianza. Angelo era uno scolaro modello, ma appena sentiva un po&rsquo; di odore di benzina o una messa in moto, diventava il pi&ugrave; indisciplinato dei figli. A otto anni, sapendo quali impegni il reparto corse si apprestava ad affrontare, appena vedeva che le luci del reparto rimanevano accese anche con il buio, scappava al piano di sotto e ci restava per delle ore subendone poi le inevitabili conseguenze. A tredici anni, una splendida presa di posizione nei confronti di ufficiali tributari che stavano mettendo in esecuzione pignoramenti del tribunale di Milano per il fallimento della finanziaria SAFEP che con la societ&agrave; SIL (Societ&agrave; Italiano Lombarda) gestiva le quote della Moto Parilla: nottetempo e per otto notti, con l&rsquo;aiuto del fratello Achille di anni dieci, trasfer&igrave; le motociclette MSDS del reparto corse di Vittorio Brambilla, Remo Manganelli e Ugo Cancellieri fino al garage da poco costruito dal padre Giovanni in via Boncompagni, 1, a trecento metri di distanza. Insieme alle motociclette salv&ograve; anche tutti i documenti dell&rsquo;ufficio tecnico (progetti e disegni di tutti i prodotti Parilla, che altrimenti sarebbero finiti al macero e si sarebbe persa tutta la storia della Moto Parilla). L&rsquo;uscita di Giovanni Parrilla dalla sua azienda &egrave; del gennaio 1961, la fine decretata della Moto Parilla &egrave; del 1965. In questi cinque anni nulla pi&ugrave; &egrave; stato progettato, si &egrave; solo cercato di vendere i motocicli che si potevano assemblare con quello che rimaneva nel magazzino. La SIL proprietaria della Moto Parilla si sarebbe dedicata dal 1961 alla produzione di motori per gokart progettati da Giovanni Parrilla, che nel frattempo aveva aperto una piccola azienda nel garage di fronte denominata FIMAS (Fabbrica Italiana Motori A Scoppio) che produceva i motori Saetta per go-kart. Le motociclette non esistevano pi&ugrave;! Le due aziende si sarebbero date battaglia per otto anni senza esclusione di colpi in campo sportivo e commerciale. Angelo, cos&igrave; come il fratello, cominci&ograve; a seguire queste competizioni prendendone anche parte a livello dilettantistico (vincendone comunque diverse). Pur studiando al Liceo Scientifico, a 18 anni aveva aperto una azienda personale denominata MAP (Meccanica Alta Precisione) per produrre gabbiette in ergal di qualit&agrave; eccelsa che forniva esclusivamente a Giancarlo Morbidelli per le sue motociclette e per il reparto corse ufficiale. Nel 1968 Giovanni chiude la FIMAS e due anni dopo Angelo e suo fratello aprono la DAP, di cui tutti conoscono le vicende per aver portato grandi piloti ad emergere, dopo il kart, in monoposto e in F1. Angelo &egrave; stato un precursore per le raffinatezze nelle soluzioni telaistiche e soluzioni tecniche, tali da lasciare il mondo a bocca aperta. Aveva una spiccata capacit&agrave; anche in campo commerciale e i commenti dicevano che sarebbe stato in grado di vendere ghiaccio agli Esquimesi. Dal lontano 1960 al 2018 Angelo ha dedicato tutto il suo tempo libero ad ordinare tutti i dati dell&rsquo;ufficio tecnico della Moto Parilla e a risalire a tutti i risultati sportivi in tutte le Nazioni, nonch&eacute; ad elencare tutti gli Agenti Generali e tutti i subagenti Moto Parilla nel mondo. Un impegno mostruoso. Insieme al caro e amato Bruno Baccari ha partecipato alla stesura del volume &lsquo;Moto Parilla&rsquo;. Il suo sogno degli ultimi anni era di mettere in cantiere una seconda edizione molto pi&ugrave; estesa della prima e in lingua inglese. Il nome Angelo Serafino Natale gli era stato dato dal padre Giovanni per ossequiare il fratello Angelo, Medaglia d&rsquo;Oro della Grande Guerra, Sottotenente degli Arditi nel VI Reparto d&rsquo;Assalto, II Divisione, caduto in una azione eroica il 28 ottobre 1918, ultimo Giorno di Guerra, per arrestare il devastante compito di alcune mitragliatrici austriache che spazzavano la piana di Conegliano Veneto. Angelo Serafino Natale ha ereditato dallo zio le stesse splendide doti, non ultima l&rsquo;indifferenza per il significato della parola &lsquo;Paura&rsquo;; il suo motto: &lsquo;Se quella porta deve essere aperta, semplicemente si apre&rsquo;&rdquo;.       

l ricordo di Angelo, scomparso pochi giorni fa, riporta a un&rsquo;azienda protagonista tra moto e go-kart

La dinastia Parrilla | Polvere di Stelle

        Nelle puntate di Polvere di Stelle si &egrave; evidenziata spesso, fra motociclismo e aeronautica, un&rsquo;affinit&agrave; tecnica, industriale e anche umana, visto che molti campioni delle due ruote motorizzate, a cominciare da Giovanni Ravelli, cofondatore della Moto Guzzi, o da Leslie Graham, primo campione del Mondo in moto, erano anche aviatori di grande talento ed esperienza. La storia di Fortunato Libanori  Ebbene, questa volta racconter&ograve; la storia di un motociclista che fu meccanico, poi pilota di calibro internazionale, quindi pass&ograve; alla motonautica e divenne pi&ugrave; volte campione italiano, europeo e mondiale correndo sull&rsquo;acqua. Il suo nome: Fortunato Libanori. La sua moto: MV, sempre e soltanto MV. Nacque a Milano il 14 giugno 1934, i genitori erano originari della provincia di Rovigo, ma il padre era stato costretto a trasferirsi nel capoluogo lombardo avendo trovato lavoro come operaio alla Pirelli.&nbsp; La famiglia Libanori prese casa a Gorla, vasto quartiere alla periferia nord-est di Milano, famoso presso gli studiosi del motociclismo per aver dato i natali anche ad Alessandro Anzani, che nel 1904, dopo aver vinto molte corse in Francia, divenne &ldquo;campione del Mondo&rdquo; in sella a una AlcyonBuchet battendo a Ostenda l&rsquo;asso belga Jan Olieslagers su Minerva. Nell&rsquo;estate 1944, Fortunato torn&ograve; con i quattro fratelli e la madre nel paese d&rsquo;origine dei genitori in Veneto ma, un paio di mesi dopo, l&rsquo;avanzata delle truppe alleate lungo la Penisola convinse la famiglia Libanori a riunirsi nuovamente a Gorla, ritenuta pi&ugrave; sicura. Libanori: la tragedia, poi la svolta  Questa convinzione fu smentita tragicamente il 20 ottobre 1944, quando un massiccio bombardamento alleato colp&igrave; la citt&agrave; e distrusse anche la scuola elementare &ldquo;Francesco Crispi&rdquo;, uccidendo 184 bambini e diciannove adulti. In quell&rsquo;occasione Fortunato e i suoi compagni di classe si salvarono perch&eacute; condotti fuori dell&rsquo;edificio scolastico appena suonato l&rsquo;allarme, ma per moltissimi altri non ci fu scampo e fra questi il fratello minore di Fortunato, Giancarlo, e suo cugino Gianfranco. Da questa orribile tragedia, che a Gorla hanno voluto ricordare con il monumento ai &ldquo;piccoli martiri&rdquo;, Fortunato rimase segnato indelebilmente; sua sorella Elsa in una sua memoria di quella giornata scrisse: "Ricorder&ograve; sempre i suoi occhi sbarrati e il fatto che non riuscisse a dire una parola". La guerra finalmente fin&igrave; e inizi&ograve; la ricostruzione. C&rsquo;era lavoro per tutti e in Lombardia le fabbriche riaperte cercavano personale volenteroso e capace di dare un contributo alla ripresa. Fortunato Libanori, che gi&agrave; da tempo aveva mostrato una particolare propensione verso la meccanica e la guida di veicoli, fu cos&igrave; assunto all&rsquo;inizio degli anni Cinquanta alla MV Agusta come collaudatore di moto, un mestiere che lo appagava e poneva in risalto le sue attitudini. Fu notato. Qualcuno nell&rsquo;industria del conte Domenico Agusta, grande appassionato di gare e titolare di un reparto corse che nel 1952 aveva gi&agrave; vinto il suo primo Mondiale, ritenne che quel giovane collaudatore meritasse l&rsquo;opportunit&agrave; di salire su una moto da corsa e il Conte fu d&rsquo;accordo, anche perch&eacute; gi&agrave; nutriva grande stima nei confronti di Fortunato. Infatti nel 1952, quando Domenico Agusta firm&ograve; con Lawrence Bell l&rsquo;accordo che diede il via alla costruzione su licenza degli elicotteri americani Bell 47, la Cadillac celebr&ograve; il suo cinquantenario producendo la vettura speciale &ldquo;Golden Anniversary&rdquo;, una magnifica Cabriolet con motore V8 da 190 CV e cambio automatico. Il conte Agusta ne ricevette una nei colori ufficiali MV: bianco, azzurro e oro, e per curare la manutenzione di questa auto, che lui elesse subito a simbolo di quell&rsquo;importantissimo accordo industriale, si affid&ograve; proprio a Fortunato Libanori. Passa alla prossima pagina &nbsp; Libanori: l'esperienza in pista  Due anni dopo, questi cominci&ograve; a correre con le MV 125 e 175 monoalbero nelle gare di Velocit&agrave; di seconda categoria e le vittorie non tardarono ad arrivare, cos&igrave; frequenti da convincere il Conte che Fortunato avrebbe fatto la sua bella figura in prima categoria, nel campionato italiano e nel Mondiale. Nel 1956 si piazz&ograve; terzo nel torneo nazionale classe 125 alle spalle di Carlo Ubbiali e Romolo Ferri, ma davanti a Tarquinio Provini e Remo Venturi; al suo esordio internazionale, nel GP Belgio sul velocissimo circuito di Francorchamps, conquist&ograve; il secondo posto dietro al caposquadra Ubbiali, e nella gara successiva, il GP Germania alla Solitude, ottenne il quarto posto. Con soltanto queste due corse si classific&ograve; in quinta posizione finale nella classifica iridata. L&rsquo;anno dopo gareggi&ograve; ancora soltanto saltuariamente nel Mondiale: ad Assen fu quinto in 125 e quarto al debutto (e primo dei piloti MV) in 250; un altro quarto posto lo colse a Monza in 125 e fu la sua ultima corsa iridata. Avrebbe potuto senz&rsquo;altro fare di pi&ugrave;, ma fu proprio la grande fiducia riposta in lui dal conte Domenico Agusta a ostacolargli la carriera: il &ldquo;boss&rdquo; preferiva affidargli incarichi delicati in azienda e il compito di collaudare i modelli di maggiore prestigio nel catalogo delle moto MV. Fra queste, cur&ograve; lo sviluppo della 600, la prima &ldquo;maxi&rdquo; italiana a 4 cilindri, rivolta a un pubblico d&rsquo;&eacute;lite che la sognava per la sua stretta derivazione dalla moto da corsa imbattibile nel Mondiale della classe regina. Una delle prime 600-4 fu acquistata da Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell&rsquo;ex Re d&rsquo;Italia, Umberto II. Viveva a Ginevra e fu Libanori a portargli la moto nella sua residenza svizzera, ma una volta arrivato fu cacciato dalla madre, l&rsquo;ex regina Maria Jos&eacute;, che non voleva che Vittorio Emanuele guidasse la moto. Per risolvere la questione, Libanori port&ograve; la 600-4 in un garage della citt&agrave;, dove l&rsquo;erede al trono dei Savoia si recava quando aveva voglia di fare un giretto di nascosto dalla madre. Passa alla prossima pagina &nbsp; Libanori, collaudatore e consulente  All&rsquo;attivit&agrave; di collaudatore MV, Fortunato affianc&ograve; quella di consulente per lo sviluppo di motori da competizione di varie tipologie, fra cui propulsori per la motonautica, che aveva un denso programma di manifestazioni sul Lago di Varese e all&rsquo;Idroscalo di Milano. Come era successo con le moto, la sola meccanica non lo appag&ograve; a lungo: amava mettersi alla prova e confrontarsi, cos&igrave; impar&ograve; in poco tempo a guidare i motoscafi da corsa e dimostr&ograve; di possedere notevole talento. Nel 1957 disput&ograve; le prime gare e in una sola stagione sal&igrave; al livello dei pi&ugrave; forti in campo nazionale. Il bilancio delle sue affermazioni &egrave; impressionante: dal 1962 al 1970 vinse tre titoli italiani, cinque europei e due mondiali, nelle categorie Racers 2500, LZ 2500 e Runabout 2000. Le massime soddisfazioni sportive gli vennero dalla motonautica, ma Fortunato Libanori non lasci&ograve; mai la Agusta. Continu&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; di collaudatore dei veicoli stradali e da corsa fino alla chiusura dello stabilimento motociclistico, poi chiuse la carriera professionale con un ruolo tecnico di responsabilit&agrave; nella fabbrica degli elicotteri. &Egrave; venuto a mancare l&rsquo;11 luglio 2006. La "paura" di Stanley Woods | Polvere di Stelle       

Libanori scamp&ograve; alla strage di Gorla prima di diventare pilota-collaudatore apprezzatissimo dal conte Agusta e campione di motonautica

La storia di Libanori, dall'asfalto all'acqua | Polvere di Stelle

        Stanley Woods, un pilota leggendario. Fu uno dei primi assi di lingua inglese ad accettare di correre per Case non britanniche, il primo a vincere il Tourist Trophy con un moto italiana (Moto Guzzi, 1935, classi 250 e 500) e ancora il primo ad aggiudicarsi 10 vittorie all&rsquo;Isola di Man. Con la Casa di Mandello mantenne sempre un rapporto molto stretto anche dopo aver appeso il casco al chiodo. Polvere di Stelle: le prime gare al Centro-Sud La prova di Woods   Nel 1956 venne invitato in Italia dalla Moto Guzzi per assistere al GP Nazioni e gli venne offerta l&rsquo;occasione di provare la nuova 500 V8 &ndash; la moto tecnicamente pi&ugrave; evoluta del Mondo in quel momento &ndash; e la 350 monocilindrica che dominava il Mondiale della sua classe, in occasione delle riprese in pista per il film &ldquo;I Fidanzati della morte&rdquo;. Nonostante avesse gi&agrave; compiuto 53 anni, Woods accett&ograve; con grande entusiasmo e dopo la prova scrisse un articolo per la rivista inglese Motor Cycling intitolandolo &ldquo;Viaggio in Paradiso&rdquo;. Ne riporto alcuni passi tratti da &ldquo;La moto&rdquo; del 10 ottobre 1956. &ldquo;&hellip; La &lsquo;Otto&rsquo; era stata riscaldata e si erano sostituite le candele nei box cosicch&eacute; mi fu possibile darci dentro fin dalla partenza; ma molto presto mi accorsi che avrei dovuto esercitare una considerevole cautela nel far uso della potenza disponibile, che mi sembrava illimitata. La mia esperienza nel pilotare la Gilera di Geoff Duke per Motor Cycling lo scorso anno a Monza mi aveva in un certo modo preparato a quel che doveva accadere ma quando mi tolsi l&rsquo;abito di pelle dopo quella memorabile occasione io pensai, con un sospiro, che era probabilmente l&rsquo;ultima volta che l&rsquo;indossavo per pilotare un&rsquo;autentica macchina da corsa. Ero eccitato ed emozionato ma certamente non nervoso. L&rsquo;improvviso sc catenarsi della potenza a circa 7000 giri, sebbene atteso, mi prese di sorpresa, come pure la frazione di tempo impiegata nel raggiungere il limite dei giri in prima e seconda. Con la terza innestata, il gas non fu tenuto aperto per pi&ugrave; di pochi secondi, poich&eacute; non ero stato su una macchina da corsa da dodici mesi e l&rsquo;accelerazione in terza era pi&ugrave; che sufficiente per me nelle prime centinaia di metri! Tuttavia, a parte la necessit&agrave; di abituarmi alla fantastica fonte di energia affluente senza sforzo, mi sentii immediatamente a mio agio sulla macchina, tanto da poter immaginare che fosse stata 'tagliata' apposta per me. Parzializzai l&rsquo;acceleratore finch&eacute; il motore sotto di me si mise gentilmente a &ldquo;ronfare&rdquo; a 9000 giri, appena sopra le 100 miglia, deciso se possibile a trattenermi e godere in pieno il liscio, morbido afflusso di potenza. Lungo la pista, che ben ricordavo, andai cos&igrave; per qualche giro finch&eacute;, incominciando il terzo o il quarto non potei trattenermi oltre, ed entrando nel rettilineo di arrivo girai la manopola fino in fondo. Affascinato, con la coda dell&rsquo;occhio osservai l&rsquo;ago del contagiri raggiungere il massimo in un tempo incredibilmente breve. Cambiai. La macchina raggiunse il massimo dei giri quasi subito e sembr&ograve; voler an dare ben oltre la rossa linea dei 12.000 giri. Mantenni questa velocit&agrave; fino alla Curva Grande dove, ricordando che i ragazzi (Woods per &lsquo;ragazzi&rsquo; intendeva i piloti in attivit&agrave;, nde) la prendono in presa diretta a circa 200 km/h, decisi di restare in presa diretta, con il gas chiuso e, inutile dirlo, con tutte le ancore calate. &hellip; Verso la curva di Vedano fui in grado di apprezzare la gamma di potenza che la &ldquo;Otto&rdquo; produceva. Avevo rallentato ben sotto la normale velocit&agrave; in presa diretta ma ci&ograve; non sembrava preoccuparla in alcun modo e riaprendo il gas potei tornare sui 200 km/h in un tempo brevissimo. &hellip; Le attivit&agrave; dei cinematografari sembravano non dover finire mai: fino al tardo pomeriggio furono occupati a riprendere scene di corsa lungo la pista e sebbene mi fosse stato suggerito di guidare una delle Guzzi 350 e prender parte ad alcune delle scene di massa dietro l&rsquo;auto con la macchina da ripresa, pensai fosse meglio aspettare l&rsquo;opportunit&agrave; di essere in pista da solo. Sfortunatamente questo non avvenne fino a pochi minuti prima della sera. &hellip; Mi accorsi che era pi&ugrave; difficile maneggiare la monocilindrica dopo la &ldquo;Otto&rdquo; perch&eacute; (come avviene per la maggior parte delle macchine da corsa moderne monocilindriche) la potenza era disponibile soltanto in una corta gamma di giri e io devo ammettere che avevo dimenticato la tecnica di far slittare la quasi indistruttibile frizione della Guzzi nell&rsquo;attraversare il &ldquo;periodo critico&rdquo;. Allo stesso modo ebbi difficolt&agrave; nello sfruttare in pieno la seconda (la marcia pi&ugrave; bassa usata una volta avviata la macchina). Tuttavia, quando ci riuscii la 350 prese le marce pi&ugrave; alte senza esitazione, ma dopo che i miei pochi giri furono finiti, mi accorsi di essermi dimenticato che si trattava di una macchina con cambio a cinque velocit&agrave;, cosicch&eacute; avevo tentato di prendere le due pi&ugrave; lente curve di Lesmo e di Vedano in terza invece che in seconda, e ci&ograve; era all&rsquo;origine di alcune delle mie difficolt&agrave;. A parte ci&ograve;, mi son goduto in pieno la prova, trovando il modello minore in certo qual modo pi&ugrave; leggero della &lsquo;Otto&rsquo; nelle curve. In comune con quest&rsquo;ultima, la guida, la tenuta di strada e la maneggevolezza erano perfette, sebbene il mio piacere fosse rovinato dalla luce decrescente e dal fatto di dovermi fermare prima di essere completamente a mio agio&rdquo;. Il racconto del secondo test  Woods pot&eacute; riprovare la Guzzi otto cilindri pochi giorni dopo, ancora a Monza in occasione di alcuni test della Casa di Mandello con i piloti ufficiali Dicky Dale e Keith Campbell e alla presenza dei colleghi Bill Lomas e Ken Kavanagh. Il suo racconto quindi continua. &ldquo;Questa volta sapevo quel che mi attendeva e con la pista libera mi misi a godermela quando fu il mio turno per compiere qualche giro e riferire le mie impressioni. Realmente la velocit&agrave; e la potenza di questa macchina devono essere provate per credervi. Ha una velocit&agrave; massima di circa 160 miglia (circa 260 km/h) con accelerazione in proporzione, e se aprite il gas dovete essere sul &lsquo;chi vive&rsquo; continuamente: non potete permettere alla vostra mente di vagare! Il brivido di quella risposta del motore all&rsquo;apertura dei gas, il suono e la sensazione del suo urlare sotto di me, mi rimarranno impressi per molto tempo. Fra poco, quando le piccole noie saranno state eliminate, questa macchina sar&agrave; senza dubbio un bolide con cui fare i conti nelle gare internazionali, ma posso ammettere che, mentre ho goduto ogni momento passatovi sopra, l&rsquo;idea di piombare in una curva del percorso del Tourist Trophy, o lungo una serie di curve in compagnia con altri corridori, alle velocit&agrave; di oggi mi spaventerebbe a morte! I ragazzi che lo fanno devono essere dei superuomini. Buona fortuna a tutti&rdquo;.       

La celebre prova del campionissimo Woods a 53 anni sulla Guzzi 500 V8 e sulla 350 monocilindrica a Monza: "Correre al TT a queste velocit&agrave;? Che spavento!"

La "paura di Stanley Woods| Polvere di Stelle

        I circuiti di Orbassano, Brescia e Cremona, di cui ho raccontato la storia nelle precedenti puntate di Polvere di Stelle, furono nei primi anni Venti del &lsquo;900 quelli che godevano gi&agrave; della maggiore notoriet&agrave;. Polvere di Stelle: il Messico e la rivoluzione a due ruote Il Circuito del Tevere  Con l&rsquo;esordio del Circuito del Lario e la costruzione dell&rsquo;autodromo nazionale di Monza passarono in secondo piano, ma questo accadde anche per il proliferare di gare in moltissime altre citt&agrave; d&rsquo;Italia e per l&rsquo;avvio, decretato dal Moto Club d&rsquo;Italia, del campionato italiano in prove multiple, che privilegi&ograve;, anno dopo anno, alcuni circuiti a svantaggio di altri. Ecco dunque farsi largo in questa marea di manifestazioni alcuni eventi capaci di imporsi rapidamente all&rsquo;attenzione dei motociclisti. Fra questi, il primo ad apparire sulla scena fu il Circuito del Tevere, la cui edizione d&rsquo;esordio si disput&ograve; nel 1914 sul percorso Osteria Capannelle, Ponte del Grillo, Bivio Prima Porta, via Flaminia, Ponte Castelgiubileo, via Salaria e Osteria delle Capannelle, da percorrere sei volte per un totale di 210 km. Ad aggiudicarsi la classe 500 fu il romano Enrico Ciai su Triumph, davanti a un campione gi&agrave; affermato come Ernesto Vailati su Rudge, mentre la 350 vide il successo del milanese Felice Bai Badino in sella a una Douglas. Nel 1921 la quarta edizione del Circuito del Tevere ospit&ograve; la gara d&rsquo;avvio del campionato italiano di Velocit&agrave; in prove multiple e in quell&rsquo;occasione si verific&ograve;, forse per la prima volta nella storia delle corse nazionali, una dispu ta fra corridori e organizzatori: a causa delle pessime condizioni del tempo e delle strade, i concorrenti si accordarono e minacciarono di disertare la corsa, ma poi alla fine cedettero e si allinearono al via. Le quattro classi furono appannaggio di Giovanni Cocchi (Douglas 350), Luigi Morabito (Rudge 500), Luigi Madrulli (BSA 750) e Miro Maffeis (Harley-Davidson 1000). Disputato fino al 1924, il Circuito del Tevere &ndash; stando alla scarsa documentazione reperibile &ndash; chiuse i battenti dopo sette edizioni. &nbsp; La Coppa dell'Adriatico  Una manifestazione che invece fu riproposta per molti anni e venne pi&ugrave; volte inserita nel calendario del campionato italiano fu la Coppa dell&rsquo;Adriatico, lanciata nel 1920 a Rimini dal presidente del locale Moto Club, il colonnello Ettore Perdicchi, che si vantava di essere stato, durante la guerra, l&rsquo;unico ufficiale superiore ad aver preceduto i suoi uomini in sella a una moto. L&rsquo;1 agosto 1920 una settantina di corridori part&igrave; da Rimini, raggiunse Coriano, quindi Morciano, San Giovanni in Marignano, per tornare al punto di partenza; al termine dei quattro giri dell&rsquo;anello di oltre 40 km tagli&ograve; per primo il traguardo il faentino Aristide Gaddoni (Harley-Davidson 1000), una vittoria stupefacente se si considera che correva con una gamba sola, essendogli stata amputata l&rsquo;altra a 16 anni per una grave ferita nel corso di un diverbio con un compagno di lavoro. Gaddoni era al comando anche nel 1921, ma una tremenda caduta gli fu fatale. Undici furono le edizioni della Coppa dell&rsquo;Adriatico, con la partecipazione di grandi assi italiani del motociclismo, in primis Tazio Nuvolari e Achille Varzi, ma non fu questa la pi&ugrave; celebre corsa emiliano-romagnola degli anni Venti, titolo che spetta al Circuito del Savio, corsa automobilistica e motociclistica disputata a Ravenna dal 1923 al 1927. Nell&rsquo;edizione d&rsquo;esordio, a vincere tra le auto fu Enzo Ferrari al quale, in occasione della premiazione, la madre dell&rsquo;&ldquo;Eroe&rdquo; Francesco Baracca affid&ograve; il Cavallino Rampante nero &ndash; emblema scelto dall&rsquo;asso lughese per il suo aeroplano &ndash; perch&eacute; lo onorasse con altre vittorie. Non minore fu la fama delle corse motociclistiche del &ldquo;Savio&rdquo;, alle quali parteciparono i pi&ugrave; forti professionisti del tempo, protagonisti di epiche imprese, come quella compiuta da Nuvolari, su Bianchi 350 &ldquo;Freccia Celeste&rdquo; nel 1927. Lottava per il comando della corsa con il forlivese Terzo Bandini quando questi gli cadde davanti; per evitarlo, &ldquo;Nivola&rdquo; fu costretto a infilarsi in uno spazio strettissimo, tanto stretto che con la mano sinistra and&ograve; a colpire un muretto rompendosi il dito anulare. Continu&ograve; incurante del dolore, del quale forse per un po&rsquo;, a botta calda, non si accorse nemmeno; mantenne la testa della corsa, inanell&ograve; giri sempre pi&ugrave; veloci, distrusse gli avversari, poi, all&rsquo;ottavo giro si ferm&ograve; per il rifornimento. Al box lo videro stravolto, con il guanto insanguinato, glielo tolsero e gli impedirono di ripartire; all&rsquo;ospedale avrebbero voluto amputargli il dito, ma lui si oppose con forza: lo curarono e lo mandarono a casa. &nbsp; L'evento di Crema&nbsp;  Un altro evento che si afferm&ograve; a livello nazionale fu il Circuito di Crema, uno dei pi&ugrave; longevi, visto che si disput&ograve; dal 1921 al 1968 con diverse sospensioni che comunque non impedirono l&rsquo;effettuazione di ben 26 edizioni. Dal 1925 la corsa venne intestata a Romolo Spallanzani, pilota milanese ma cremasco d&rsquo;adozione, vittima nel 1923 di un incidente mentre provava il percorso di gara. La sua famiglia volle onorarne la memoria donando una coppa d&rsquo;argento che sarebbe stata conquistata da chi avesse vinto la gara per tre anni consecutivi nella stessa cilindrata. Nessun pilota riusc&igrave; ad aggiudicarsela e la coppa &egrave; ancora oggi custodita dal Moto Club Crema. Il vincitore assoluto del primo Circuito di Crema fu Biagio Nazzaro su Harley-Davidson 1000; gli ultimi, nel 1968, furono gli Juniores Giorgio Castelli su Motobi 125, Battista Vianelli su Motobi 175 e Vittorio Brambilla su Aermacchi 250. &nbsp; Le corse nel Meridione   Circuiti famosi in quel periodo furono organizzati anche al Sud. Della Targa Florio motociclistica, sostenuta dalla fama internazionale dell&rsquo;omonima corsa automobilistica, Polvere di Stelle si &egrave; gi&agrave; occupata con la recensione dell&rsquo;eccellente libro di Maurizio Mazzoni &ldquo;La Targa a due ruote &ndash; l&rsquo;altra sfida&rdquo;. Altre due corse effettuate per diversi anni nel Meridione godettero di notoriet&agrave;: il Circuito dei Campi Flegrei, organizzato dal Circolo del Motore di Napoli, e il Circuito dei Monti Peloritani, a Messina. Fu quest&rsquo;ultimo ad apparire per primo sulla scena nell&rsquo;agosto 1922 con una gara nazionale (quell&rsquo;anno il campionato italiano era stato sospeso dal Moto Club d&rsquo;Italia) che ebbe vincitore Luigi Morabito su Rudge 500. L&rsquo;anno dopo l&rsquo;evento non fu ancora titolato, ma registr&ograve; la partecipazione di campioni come Achille Varzi, che sulla Garelli 350 vinse la sua classe. Nel 1925, 1927 e 1928 fu inserito nel calendario dei campionati italiani, ma dopo l&rsquo;edizione 1929 usc&igrave; di scena. Il Circuito dei Campi Flegrei, stando alle poche informazioni disponibili, si disput&ograve; dal 1924, quando fu la prova conclusiva del campionato italiano e vide le vittorie di Umberto Faraglia (Harley-Davidson 1000), Achille Varzi (Sunbeam 500), Olindo Raggi (AJS 350) e Miro Maffeis (Maffeis 250). Le varie edizioni si susseguirono fino al 1930, poi il Circuito dei Campi Flegrei cambi&ograve; nome e tracciato, divenendo &ldquo;Targa Napoli&rdquo; tra 1931 e 1933.       

Non soltanto Piemonte e Lombardia: l&rsquo;era pionieristica delle corse in Italia si svilupp&ograve; anche con i Circuiti del Tevere, del Savio, dei Campi Flegrei e dei Peloritani

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