        Il periodo natalizio non ferma gli annunci riguardanti il mercato piloti del CIV. L&rsquo;ultima news in ordine temporale riguarda uno degli esponenti di spicco della categoria SS600: parliamo di Marco Bussolotti, che nel 2024 lascer&agrave; la Yamaha R6 dell&rsquo;Axon Seven Team per salire in sella alla Ducati Panigale V2 marchiata SGM Tecnic Racing Team. CIV SS600: Leonardo Carnevali con la Honda della Scuderia Improve nel 2024 Bussolotti con la Ducati-SGM Tecnic nel 2024  La separazione tra Axon Seven Team e Bussolotti era stata annunciata a fine novembre, un addio che ha segnato la fine di un ciclo triennale ricco di soddisfazioni, che ha avuto il suo culmine nel titolo 600 CIV conquistato nel 2022 (stagione che aveva visto al via sia moto con regolamento Stock che Mondiale). Dopo un 2023 chiuso al quinto posto finale, impreziosito da due podi e una vittoria, il vice-campione Europeo Stock 600 2008-2009 passer&agrave; quindi in sella alla supersportiva di Borgo Panigale, andando a formare un binomio che promette scintille in una delle classi pi&ugrave; elettrizzanti del panorama tricolore.  SGM Tecnic riconferma Biagio Miceli  Al fianco di Busso ci sar&agrave; Biagio Miceli, giovane proveniente dalla Moto3 che nel 2023 ha affrontato la sua stagione da rookie nella categoria sempre con SGM. &ldquo;Il 2023 &egrave; stato tra gli anni pi&ugrave; duri di SGM, ma annate cos&igrave; possono capitare &ndash; ha spiegato il Team Director Simone Scarpetti &ndash; crediamo in Biagio Miceli, &egrave; un giovane che pu&ograve; davvero maturare e andar forte. Conosciamo le qualit&agrave; di Marco Bussolotti e la sua esperienza acquisita negli anni, non vedo l&rsquo;ora di vedere entrambi all&rsquo;opera&rdquo;.  Calendario CIV 2024       

Altra novit&agrave; sullo schieramento della SS600 2024: "Busso" salir&agrave; in sella alla supersportiva di Borgo Panigale. Al suo fianco ci sar&agrave; Biagio Miceli

CIV: Bussolotti saluta la Yamaha e passa alla Ducati-SGM Tecnic

        Norton &egrave; dei nomi pi&ugrave; gloriosi nella storia delle moto da competizione. La Casa di Birmingham, che non era di grandi dimensioni, &egrave; divenuta famosa per il suo impegno in campo agonistico, protrattosi per circa trent&rsquo;anni ai massimi livelli, con monocilindrici dalla tecnica raffinata e dalle eccellenti prestazioni. Misano, un'estate calda tra il CIV e MotoGP: parla Andrea Albani La gloriosa Norton  Basti pensare che tra il 1931 e il 1939 la Norton vinse nella classe 500 tutti i Tourist Trophy ai quali partecip&ograve; meno due (nei quali si imposero la Guzzi e la BMW, entrambe bicilindriche). Nel dopoguerra conquist&ograve; un titolo mondiale nella classe 500 (1951) e due nella 350 (1951 e 1952). Poi, contro le Gilera e le MV Agusta quattro cilindri nella classe 500 e contro le Moto Guzzi nella 350 non ci fu pi&ugrave; nulla da fare. Una scelta importante fu quella di realizzare modelli in vendita praticamente uguali alle moto ufficiali di qualche anno prima. Questo rese le Norton popolarissime tra i piloti privati. Le moto destinate a loro si chiamavano International negli anni Trenta, e Manx, un nome diventato ben presto leggendario, dal 1946 in poi. Le 500 ufficiali subirono una continua evoluzione fin dalla loro comparsa. Il motore rest&ograve; sempre fedele allo schema tracciato da Walter Moore nel 1927 e ripreso tre anni dopo da Arthur Carroll e Joe Craig, che continu&ograve; a lavorare sulle Norton da competizione fino alla cessazione dell&rsquo;attivit&agrave; ufficiale da parte della azienda. Parallelamente alla versione 500 ne venne sempre realizzata anche una di 350 cm3 . Inizialmente il motore monocilindrico aveva la distribuzione monoalbero. Per le moto ufficiali il passaggio a quella bialbero, sempre con comando ad alberello e coppie coniche, avvenne nel 1937; per le Manx il passaggio si verific&ograve; nel 1949. Un&rsquo;innovazione fondamentale fu l&rsquo;abbandono del telaio Gardengate (cancello da giardino, denominazione particolarmente azzeccata) al cui posto venne adottato il leggendario Featherbed (letto di piume) che miglior&ograve; enormemente il comportamento su strada della moto e mostr&ograve; a tutti la giusta strada da seguire; ci&ograve; avvenne nel 1950 per le moto ufficiali e l&rsquo;anno seguente per le Manx. Le misure caratteristiche del motore furono inizialmente quelle tipiche delle mezzo litro della Casa inglese, ossia 79 x 100 mm. Nelle moto ufficiali divennero 82 x 94,3 mm alla fine degli anni Trenta per poi passare a 84 x 90 mm nel 1951 (anno in cui venne adottata una nuova testa con angolo tra le valvole ridotto da 75&deg; a 64&deg;). Le misure diventarono poi &ldquo;quadre&rdquo; (86 x 86 mm) per passare quindi a 88 x 82 mm e infine a 90 x 78,4 nell&rsquo;ultima versione che gareggi&ograve;, dotata di volano esterno. Questa progressiva diminuzione del rapporto corsa/alesaggio consent&igrave; di impiegare valvole via via pi&ugrave; grandi e di raggiungere regimi di rotazione pi&ugrave; alti senza aumentare le sollecitazioni meccaniche. Nel motore del 1954, la valvola di aspirazione aveva un diametro di ben 50,8 mm e quella di scarico di 44,4 mm. Le prestazioni migliorarono di anno in anno: dai circa 49 cavalli a 7500 giri/min del 1952 si pass&ograve; a quasi 55 CV a un regime dell&rsquo;ordine di 8000 giri/min nell&rsquo;ultima versione. Corre voce che nel contratto di Joe Craig, il ritorno economico fosse legato proprio all&rsquo;incremento della potenza&hellip; Per il Mondiale del 1955, al quale per&ograve; la Norton non partecip&ograve; perch&eacute; ritiratasi all&rsquo;inizio della stagione (nella quale il famoso tecnico lasci&ograve; l&rsquo;azienda), era stata prevista una moto completamente nuova, con un telaio a trave superiore di grande diametro e con motore a cilindro orizzontale, con cambio in blocco e trasmissione primaria a ingranaggi. Questa moto &egrave; oggi visibile, perfettamente restaurata, nel museo di Sammy Miller, ove &egrave; anche esposto il &ldquo;Kneeler&rdquo;, nel quale il pilota era in posizione a ranocchio e il carburante era contenuto in due serbatoi ricavati nelle fiancate della carenatura. Realizzato nel 1953 con l&rsquo;obiettivo di diminuire la sezione frontale, in modo da migliorare la penetrazione aerodinamica, e quindi la velocit&agrave; massima (e forse anche di abbassare il baricentro), aveva un comportamento in pista sensibilmente diverso da quello usuale e non venne ritenuto opportuno insistere nel suo sviluppo.  Le Norton Manx  Nel tentativo di ottenere pi&ugrave; cavalli senza modificare l&rsquo;architettura del motore monocilindrico (e quindi senza dover ricorrere al frazionamento della cilindrata), tra il 1952 e il 1954 Craig realizz&ograve; e prov&ograve; lungamente una testa con distributore rotante cilindrico tipo Cross, sempre comandato da alberello e coppie coniche. Nella parete superiore della camera di combustione vi era una sola luce rettangolare, che serviva tanto per l&rsquo;aspirazione quanto per lo scarico. All&rsquo;interno del distributore, il flusso gassoso avveniva in senso assiale. A una sua estremit&agrave; era collegato il carburatore mentre all&rsquo;altra si trovava il tubo di scarico. I risultati furono interessanti in termini di prestazioni ma i problemi riscontrati si rivelarono insormontabili. Il raffreddamento ad aria non era certamente d&rsquo;aiuto; risultava particolarmente difficile evitare che si verificassero distorsioni, grippaggi o problemi di tenuta. Le Norton Manx, il cui motore venne dotato di misure caratteristiche &ldquo;quadre&rdquo; nel 1954, furono prodotte in lotti di 80-100 moto l&rsquo;anno fino al 1961. Diversi esemplari, per&ograve;, furono ancora assemblati l&rsquo;anno successivo e la vendita cess&ograve; definitivamente nel 1963. Via via migliorate anche dopo che la Casa aveva abbandonato l&rsquo;attivit&agrave; agonistica diretta, alla fine le loro prestazioni non avevano niente da invidiare a quelle delle ultime 500 ufficiali. Le monocilindriche Norton non vennero impiegate soltanto nelle competizioni in pista o su circuiti stradali. Fornirono eccellenti risultati anche quando si correva su fondi sabbiosi o in terra battuta, come nelle gare che avevano luogo a Daytona (prima della costruzione della pista asfaltata) dove le Manx dominarono la scena tra il 1948 e il 1953, prima che l&rsquo;Harley-Davidson passasse alla riscossa con la KR 750. Pure nel Cross la Casa di Birmingham ottenne ottimi risultati grazie al grande Les Archer, che negli anni Cinquanta vinse un gran numero di gare nazionali e internazionali, arrivando a conquistare il titolo europeo nel 1956 con la sua special dotata di motore monoalbero. La MotoGP vista dagli occhi di uno sponsor       

La Casa di Birmingham ha ottenuto numerosi successi nelle competizioni e ha prodotto moto di serie simili a quelle usate nelle gare

Norton, dalle corse alla strada | Tecnica

        Quella di Francesco Villa e delle sue moto &egrave; una storia assolutamente straordinaria, che ha visto un giovane pilota crescere via via come tecnico e diventare anche un costruttore di moto di notevole successo. Cose che ricordano gli anni eroici quando alcuni motociclisti veloci e coraggiosi, cessata l&rsquo;attivit&agrave; agonistica, hanno messo in mostra notevoli capacit&agrave; tecniche e in qualche caso hanno addirittura fondato aziende. Francesco Villa, la storia di un "tuttofare"  I disegni magari non li tracciavano di persona ma si sono saputi appoggiare a chi sapeva mettere sulla carta le loro idee. Francesco Villa &egrave; stato l&rsquo;ultimo di questi rari e luminosi esempi e ha sempre agito nel baricentro della &ldquo;terra dei motori&rdquo;, tra Bologna e Modena. Messosi in luce come pilota al Motogiro e nelle gare Juniores, a met&agrave; 1956 &egrave; stato assunto dalla Mondial e nel 1958 &egrave; passato alla Ducati (per la quale ha tra l&rsquo;altro portato al debutto la nuova 125 bicilindrica), dove &egrave; rimasto fino a tutto il 1960. L&rsquo;anno seguente si &egrave; laureato campione italiano 125. Nel 1962 ha portato al debutto la Mondial 50 monoalbero, da lui sviluppata assieme a Bortolotti, partendo da un motore realizzato dal famoso tecnico Nerio Biavati. Con questa moto, che disponeva di 7 cavalli a 14.000 giri/min, ha conquistato numerose vittorie, in particolare nelle gare in salita. A livello internazionale per&ograve; &egrave; stato subito chiaro che per contrastare i nuovi cinquantini di costruttori come la Kreidler, la Suzuki e la Honda ci voleva ben altro. Una svolta importante si &egrave; avuta nel 1963 quando Francesco Villa, lavorando con tecnici come Peter Durr (specialista dei 2T, al quale &egrave; dovuto lo schema originale del motore), Omer Melotti e Marcello Laurenti ha realizzato nell&rsquo;officina di via Milazzo a Bologna, mitica sede del reparto corse Mondial, una monocilindrica a due tempi di 125 cm3 con ammissione a disco rotante. Il raffreddamento era misto (testa ad aria e cilindro ad acqua) e la potenza di 21,5 CV, poi portati a 24, a circa 11.000 giri/min. Dopo una fugace apparizione a Monza sul finire della stagione, l&rsquo;anno successivo questa nuova Mondial condotta da Francesco Villa si &egrave; imposta a Imola, a Milano Marittima e a Cesenatico. Andava forte per&ograve; non come le giapponesi e mostrava problemi di affidabilit&agrave;, via via risolti con lo sviluppo. Con questa moto si &egrave; praticamente aperta l&rsquo;era delle due tempi da GP italiane. I due fratelli Villa hanno continuato a lavorare in via Milazzo ancora per diverso tempo mentre parallelamente la sera e nei fine settimana portavano avanti i loro progetti nell&rsquo;officina di via Pistoia a Modena, ove nel 1968 &egrave; nata la Moto Villa. Nel 1965 il Mondial 125 &egrave; stato riprogettato diventando il &ldquo;Beccaccino&rdquo;, con eguale schema costruttivo ma con svariate differenze significative. Ormai Francesco aveva iniziato a realizzare le sue moto, delle quali ideava le soluzioni e stabiliva gli schemi costruttivi. I disegni quotati venivano tracciati dall&rsquo;ottimo progettista Gianni Miari (scuola Ferrari!). Nel 1966 Villa ha stipulato un accordo con la Montesa per la quale ha realizzato una bella bicilindrica 250 con raffreddamento misto, frutto in pratica della unione di due Beccaccini. In tale annata e in quella seguente questa bicilindrica e la 125 hanno corso in Spagna come Montesa e in Italia con il marchio Mondial o Villa&ndash;Montesa, a seconda delle gare. Allo stesso periodo risale una 125 a due cilindri verticali paralleli raffreddata ad aria, sempre con ammissione a disco rotante. Caratterizzata dalle teste con alettatura a ventaglio, aveva misure quadre (43 x 43 mm) e una potenza dell&rsquo;ordine di 30 cavalli a 14.000 giri/ min. Il lavoro era per&ograve; tanto e il tempo per lo sviluppo &egrave; mancato. Le tante creature di Francesco Villa   Nel 1968 la piccola azienda modenese ha presentato una monocilindrica verticale raffreddata ad acqua destinata ai piloti privati, la 125 PR che &egrave; rimasta in produzione per diverso tempo; la sua potenza dagli iniziali 28 CV &egrave; salita rapidamente a 30 (a 11.400 giri/min). Nel 1969 l&rsquo;attivit&agrave; &egrave; diventata ancora pi&ugrave; febbrile e la creativit&agrave; &egrave; ulteriormente cresciuta, con la comparsa di due 250 raffreddate ad aria, profondamente diverse tra loro. La prima era una monocilindrica verticale (72 x 60 mm, 40 CV a 9500 giri/min) e l&rsquo;altra nientemeno che una quadricilindrica dall&rsquo;inconsueta architettura a V talmente stretta che i cilindri apparivano quasi paralleli e sovrapposti. Si &egrave; vista fugacemente in pista soltanto una volta poi &egrave; scomparsa dalla scena perch&eacute; il nuovo regolamento prevedeva per le 250 un massimo di 2 cilindri. Tagliando con un piano verticale una fetta di questo motore si otteneva un bicilindrico di 125 cm3 ed &egrave; proprio ci&ograve; che ha fatto Francesco Villa nel 1970. La nuova moto, che disponeva di una trentina di cavalli e che &egrave; rapidamente stata affiancata da una 250 di analoga architettura, non ha corso molto ma si &egrave; rivelata pi&ugrave; che valida. Ormai la piccola azienda modenese stava decollando come Casa produttrice di ciclomotori e ben presto anche di moto da Fuoristrada. &nbsp; Francesco Villa: il Cross, la F1   &Egrave; stato proprio nel Cross che la Villa, trasferitasi a Crespellano in un nuovo capannone alla fine del 1973, ha ottenuto i pi&ugrave; interessanti risultati negli anni successivi con le sue ottime monocilindriche a due tempi. In particolare spicca il titolo italiano della 500 conquistato da Franco Picco nel 1978. Il dinamico Francesco ha varato una importante collaborazione con la messicana Carabela e ha anche ottenuto significativi risultati in campo kartistico. Per le gare della nuova classe TT4 la Villa ha realizzato una bella monocilindrica di 125 cm3 che ha conquistato tre titoli nazionali all&rsquo;inizio degli anni Ottanta, uno dei quali con il giovanissimo Luca Cadalora. In seguito, problemi finanziari hanno portato a una riduzione e, nella seconda met&agrave; degli anni Ottanta, alla cessazione della attivit&agrave;. Tra il 1990 e il 1994 Francesco Villa ha lavorato sui motori di Formula 1 della Lamborghini e in seguito &egrave; stato due anni in Malesia per lanciare l&rsquo;attivit&agrave; di una importante azienda alla quale aveva gi&agrave; ceduto prototipi e disegni di moto stradali. Scomparso di recente, fino all&rsquo;ultimo ha continuato a lavorare nell&rsquo;officina di Crespellano sia al restauro di moto storiche (come le Mondial bialbero) che allo sviluppo di nuovi progetti. Come pilota, ha conquistato quattro titoli italiani nella classe 125 e si &egrave; imposto due volte nella durissima 24 Ore del Montjuch. Francesco Faraldo, l'inventore d'Oltremanica | Storie Italiane       

Prima pilota, poi tecnico, infine costruttore: con la Mondial 125 del 1963 ha aperto l'era delle due tempi italiane nei GP

La storia di Francesco Villa, da pilota a costruttore | Tecnica

        Le bielle sono organi meccanici fortemente sollecitati. Logico che di loro si parli spesso data la funzione assolutamente vitale che svolgono. Lo abbiamo fatto anche di recente sulle nostre pagine ma in questo caso trattiamo l&rsquo;argomento in un&rsquo;ottica differente, descrivendo l&rsquo;evoluzione che esse hanno subito nel corso degli anni fino ad arrivare alla situazione odierna. E un solo articolo non baster&agrave;&hellip; Due tipologie di bielle  Per prima cosa occorre distinguere tra le due grandi tipologie nelle quali rientrano le bielle, a seconda che abbiano la testa in un sol pezzo o scomponibile; in questo secondo caso essa &egrave; dotata di un cappello amovibile, cosa che rende possibile il loro montaggio sugli alberi a gomiti monolitici. Per molti anni tutte le moto da corsa sono state dotate di alberi compositi lavoranti su cuscinetti volventi, cosa che nel caso dei motori veloci rende necessario l&rsquo;impiego di bielle con testa in un sol pezzo. I cuscinetti di banco potevano essere a rulli o a sfere ma per la testa della biella si impiegavano sempre dei rullini, guidati e separati uno dall&rsquo;altro da una gabbia (gi&agrave; all&rsquo;inizio degli anni Cinquanta i rullini sciolti appartenevano al passato). Nell&rsquo;ambito delle bielle di questo tipo (ovvero prive di cappello) occorre fare una leggera suddivisione separando quelle dei motori a quattro tempi da quelle dei due tempi. Il compito che svolgono &egrave; lo stesso in entrambi i casi ma le condizioni nelle quali esse lavorano, e quindi anche le sollecitazioni, sono lievemente diverse. Tanto per cominciare nei 2T agli alti regimi la lubrificazione del cuscinetto di biella spesso &egrave; ben lontana dall&rsquo;essere ottimale. L&rsquo;olio arriva sotto forma di nebbia e con certe architetture motoristiche la corrente d&rsquo;aria che lo trasporta non va direttamente a lambire la testa della biella, come auspicabile. Inoltre i passaggi attraverso i quali il lubrificante pu&ograve; raggiungere i rullini e le piste di rotolamento non sono certamente ampi, nonostante la presenza nella testa di fresature per il passaggio dell&rsquo;olio. Ci&ograve; ha portato diversi costruttori ad adottare per la biella una guida assiale superiore (tra le portate del pistone), in modo da lasciare pi&ugrave; spazio tra la testa e gli spallamenti dell&rsquo;albero attraverso il quale pu&ograve; passare l&rsquo;olio. Se la lubrificazione &egrave; scarsa e la velocit&agrave; &egrave; elevata, la temperatura diventa localmente molto alta, con i risultati che si possono immaginare. &Egrave; per questa ragione che il cuscinetto di biella &egrave; il componente pi&ugrave; critico nei motori a due tempi di altissime prestazioni. Il carico dei gas agisce sul pistone durante la fase di compressione e (in modo assai pi&ugrave; vigoroso) durante la successiva fase di espansione. Nei 4T ci sono poi due altre corse del pistone (ossia un giro dell&rsquo;albero) nelle quali a prevalere sono le forze d&rsquo;inerzia mentre quelle dovute ai gas sono pressoch&eacute; trascurabili. La biella &egrave; sollecitata sia a trazione che a compressione. Bielle e motori a due e quattro tempi   Nei motori a due tempi per&ograve; l&rsquo;intero ciclo di funzionamento si svolge in un solo giro dell&rsquo;albero e la biella lavora praticamente sempre a compressione. Quando il pistone sale verso il PMS comprime sempre del gas sopra di s&eacute;. &Egrave; a questo punto chiaro per quale ragione di norma le teste delle bielle per i motori a quattro tempi di alte prestazioni sono dotate di nervature di irrigidimento che si estendono tutto attorno all&rsquo;occhio mentre quelle destinate ai 2T ne sono usualmente prive. Una differenza significativa &egrave; costituita dal fatto che nelle bielle destinate ai due tempi l&rsquo;occhio del piede ha pareti dalla elevata durezza e dalla eccellente finitura in quanto su di esse devono lavorare dei rullini (ci&ograve; significa che le pressioni di contatto sono estremamente elevate). In quelle dei 4T nel piede vi &egrave; una bussola o in alternativa lo spinotto lavora direttamente sull&rsquo;acciaio dell&rsquo;occhio. La gabbia del cuscinetto di biella, alloggiato nella testa, deve abbinare la massima leggerezza a una elevata resistenza meccanica (particolarmente sollecitati risultano i traversini). Occorre qui tenere presente che oltre alla forza centrifuga essa ha a che fare con quelle d&rsquo;inerzia, che aumentano esse pure con il quadrato del regime di rotazione. La gabbia e (soprattutto) i rullini hanno una certa massa e quindi oppongono resistenza alle variazioni di velocit&agrave;. La biella &egrave; dotata di un movimento pendolare fulcrato nello spinotto che va a sommarsi con quello di rotazione (il perno di manovella gira all&rsquo;interno della testa di biella) e che determina continui cambiamenti della velocit&agrave; del cuscinetto. L&rsquo;inerzia diventa quindi una grande nemica e la necessit&agrave; di sopportare senza problemi le relative forze rende necessari l&rsquo;impiego di un materiale dalle caratteristiche adeguate e un dimensionamento appropriato. I rullini strisciano contro i traversini a causa della forza centrifuga, delle continue accelerazioni e decelerazioni (alle quali sono sottoposti unitamente alla gabbia) e della repentina applicazione del carico dei gas. Come vengono lavorate le bielle? scoprilo nella prossima pagina &nbsp; Le lavorazioni delle bielle  Le lavorazioni vengono effettuate con tolleranze estremamente ridotte gi&agrave; nei motori di serie; in quelli da competizione come logico esse sono ancora pi&ugrave; ristrette. Oltre alla geometria dei due occhi e alla &ldquo;quadratura&rdquo; della biella, &egrave; di importanza fondamentale che gli alloggiamenti dei rullini siano perfettamente paralleli tra loro e con l&rsquo;asse del perno di manovella. Nei motori di serie qui in genere il massimo errore ammesso &egrave; dell&rsquo;ordine di 5 micron, ma in quelli da corsa si scende notevolmente! Poich&eacute; le leghe di alluminio hanno caratteristiche meccaniche inferiori a quelle degli acciai, se vengono impiegate per realizzare le gabbie queste devono essere dotate di traversini di maggiore larghezza. In quanto al dimensionamento, non si deve trascurare il fatto l&rsquo;impiego di un materiale dalle caratteristiche adeguate e un dimensionamento appropriato. I rullini strisciano contro i traversini a causa della forza centrifuga, delle continue accelerazioni e decelerazioni (alle quali sono sottoposti unitamente alla gabbia) e della repentina applicazione del carico dei gas. Le lavorazioni vengono effettuate con tolleranze estremamente ridotte gi&agrave; nei motori di serie; in quelli da competizione come logico esse sono ancora pi&ugrave; ristrette. Oltre alla geometria dei due occhi e alla &ldquo;quadratura&rdquo; della biella, &egrave; di importanza fondamentale che gli alloggiamenti dei rullini siano perfettamente paralleli tra loro e con l&rsquo;asse del perno di manovella. Nei motori di serie qui in genere il massimo errore ammesso &egrave; dell&rsquo;ordine di 5 micron, ma in quelli da corsa si scende notevolmente! Poich&eacute; le leghe di alluminio hanno caratteristiche meccaniche inferiori a quelle degli acciai, se vengono impiegate per realizzare le gabbie queste devono essere dotate di traversini di maggiore larghezza. In quanto al dimensionamento, non si deve trascurare il fatto che il loro coefficiente di dilatazione &egrave; superiore a quello degli acciai. Occorre anche tenere presente che certe leghe (come ad esempio il famoso Ergal, oggi noto come 7075) subiscono un notevole scadimento delle caratteristiche meccaniche gi&agrave; a temperature dell&rsquo;ordine di 130&ndash;140&deg; C. Oggi, di norma, le gabbie vengono realizzate in acciaio e hanno un riporto superficiale di rame elettrodepositato. Per le applicazioni pi&ugrave; gravose si impiega acciaio nitrurato; non di rado si fa anche ricorso alla argentatura. In alcune bielle da corsa pare che qualcuno abbia impiegato rullini in materiale ceramico. Motori da corsa e di serie | Tecnica       

Sono fondamentali e molto sollecitate. Inoltre, hanno una funzione vitale all'interno di un motore

L'evoluzione delle bielle da corsa | Tecnica

        Assieme alle bielle, l&rsquo;albero a gomiti svolge la fondamentale funzione di trasformare il moto rettilineo dei pistoni in movimento di rotazione, al tempo stesso convertendo in coppia motrice la forza dovuta alla pressione dei gas. Motori da corsa e di serie: similitudini e differenze | Tecnica Notevoli sollecitazioni&nbsp;  Questo avviene durante la fase di espansione perch&eacute; nelle altre tre fasi del ciclo (passive) l&rsquo;albero fa il contrario, facendo muovere i pistoni grazie alla sua rotazione. Si tratta di un organo meccanico molto sollecitato nei motori di serie e ancor pi&ugrave; in quelli da competizione, nei quali le forze in gioco sono maggiori e tutto &egrave; esasperato. Le forze in oggetto sono quella dovuta alla pressione che i gas esercitano sui pistoni e quella di inerzia (che cresce con il quadrato del regime); entrambe cambiano continuamente di valore durante la rotazione dell&rsquo;albero e vanno ad aggiungersi a quella centrifuga. Tali forze causano deformazioni elastiche a livello di perni e di bracci di manovella, che come ovvio si cerca di ridurre al minimo, per quanto possibile (non esistono infatti corpi perfettamente rigidi). Le flessioni dell&rsquo;albero, per quanto lievi, determinano disallineamenti dei perni che, se di una certa entit&agrave;, possono causare un peggioramento del rendimento meccanico e addirittura determinare sensibili problemi a livello di lubrificazione. Nei casi pi&ugrave; seri, possono mettere in seria crisi le stesse bronzine. Un perno leggermente inclinato rispetto all&rsquo;asse della bronzina consente all&rsquo;olio di uscire pi&ugrave; agevolmente da un lato (dove lo spazio di passaggio diventa maggiore) mentre causa un forte picco di pressione dall&rsquo;altro. Al limite l&rsquo;inclinazione pu&ograve; essere tale da causare un contatto localizzato. Tutto questo ha luogo in condizioni estremamente dinamiche (velocit&agrave; elevatissima, intense e continue variazioni del carico e della sua direzione). Il problema del disallineamento pu&ograve; essere particolarmente sentito negli alberi di notevole lunghezza, cio&egrave; quelli dei motori con pi&ugrave; cilindri in linea. Quando l&rsquo;architettura &egrave; a V, a pari frazionamento gli alberi sono pi&ugrave; corti ma i perni di manovella, su ciascuno dei quali lavorano affiancate due bielle, sono pi&ugrave; lunghi. La campata, insomma, &egrave; pi&ugrave; larga ed &egrave; pi&ugrave; difficile evitare che possa subire flessioni. A questo punto giova ricordare che il gioco diametrale tra i perni e le bronzine, nei moderni motori motociclistici, &egrave; dello stesso ordine di grandezza dello spessore di un capello umano. Quest&rsquo;ultimo &egrave; compreso tra 50 e 100 micron, ovvero tra 0,05 e 0,10 millimetri, mentre il gioco di montaggio delle bronzine di un quadricilindrico per moto &egrave; di circa 0,025&ndash;0,040 mm e quello delle bronzine di banco a caldo &egrave; leggermente superiore. "Resistenza meccanica", finisci l'articolo passando alla prossima pagina Resistenza meccanica&nbsp;  Dunque, gli alberi a gomiti devono avere una grande resistenza meccanica per sopportare le sollecitazioni alle quali sono sottoposti e devono al tempo stesso avere un&rsquo;elevata rigidezza per non deformarsi in misura significativa sotto l&rsquo;azione delle forze in gioco. Non si tratta della stessa cosa. La resistenza ci dice quale sforzo pu&ograve; essere sopportato da un pezzo prima di rompersi mentre la rigidezza indica in quale misura esso si oppone alla deformazione elastica sotto l&rsquo;azione di un dato carico. Pi&ugrave; elevata &egrave; la rigidezza (che dipende dal modulo elastico del materiale e dal dimensionamento del pezzo), minore sar&agrave; la deformazione che esso subisce. Per ridurre al minimo le perdite per attrito conviene che i perni abbiano un diametro ridotto. Al di sotto di un determinato valore, per&ograve;, non ci si pu&ograve; spingere perch&eacute; la rigidezza dell&rsquo;albero diventa insufficiente. D&rsquo;altro canto al crescere del diametro dei perni, peggiorano le condizioni di lavoro delle bronzine (la velocit&agrave; tangenziale &egrave; pi&ugrave; elevata e quindi &egrave; maggiore la produzione di calore). Nel calcolare il dimensionamento di questi componenti occorre anche tenere presente il loro momento d&rsquo;inerzia. La rigidezza dell&rsquo;albero viene notevolmente influenzata dal ricoprimento tra i perni di banco e di biella. Quest&rsquo;ultimo, che anche da noi viene spesso chiamato overlap, dipende dal diametro dei perni adiacenti e dalla corsa (al diminuire della quale aumenta). Le forze di natura impulsiva generano sollecitazioni flessionali e torsionali (particolarmente importanti negli alberi lunghi) ed &egrave; di essenziale importanza che le vibrazioni che esse generano abbiano una frequenza lontana da quella propria dell&rsquo;albero. Pure in quest&rsquo;ottica un&rsquo;elevata rigidit&agrave; &egrave; vantaggiosa. Nessuna misura viene comunicata dalle Case anche per quanto riguarda gli alberi a gomiti dei loro motori da competizione. Quelli dei quadricilindrici in linea non dovrebbero essere diversi da quelli dei modelli di serie di prestazioni pi&ugrave; elevate. I perni di biella dovrebbero perci&ograve; avere indicativamente un diametro dell&rsquo;ordine di 0,40&ndash;0,47 volte l&rsquo;alesaggio del motore; per quelli di banco tale valore passa a 0,44&ndash;0,49. Lubrificazione&nbsp;   In merito al disegno degli alberi, tra i punti di maggiore interesse vi sono i raggi di raccordo, che devono essere calcolati con la massima cura, e le canalizzazioni di passaggio olio. Nei motori da competizione, per quanto se ne sa, l&rsquo;ingresso del lubrificante avviene assialmente e non tramite forature radiali praticate nei perni di banco. Questo, per ridurre la pressione di mandata (e quindi l&rsquo;assorbimento di potenza da parte della pompa) dato che per entrare l&rsquo;olio non deve andare contro la forza centrifuga, assai importante visti i regimi in questione. La posizione dei fori di uscita dell&rsquo;olio sui perni di manovella &egrave; critica: la foratura deve essere radiale e deve sfociare nella zona in cui durante il funzionamento grava il carico minore. I margini dei fori devono essere leggermente svasati. Di norma&nbsp; gli alberi a gomiti dei motori da corsa vengono ricavati dal pieno mediante lavorazioni meccaniche. In questo modo non soltanto si elimina la necessit&agrave; di realizzare stampi da forgiatura (costosi e non giustificati nel caso di numero di produzione estremamente ridotti) ma si rende possibile l&rsquo;effettuazione di qualunque modifica in tempi brevissimi. Per quanto riguarda i materiali impiegati, si tratta di acciai da nitrurazione con notevoli percentuali di cromo e molibdeno, pi&ugrave; un significativo tenore di vanadio, forniti da produttori specializzati. Fondamentali sono un preciso controllo della composizione e l&rsquo;elevata purezza (per ottenere la quale si fa ricorso a sofisticati sistemi di fusione sotto vuoto).       

Trasformano il moto rettilineo in movimento di rotazione e la pressione dei gas in forza motrice

La "magia" degli alberi a gomiti da corsa | Tecnica

        Qualunque libro di moto parla di almeno una creazione di Giulio Cesare Carcano, tecnico che ha legato il suo nome alla Moto Guzzi per ben trent&rsquo;anni. La sua 500 otto cilindri &egrave; entrata nella leggenda, la V7 ha dato inizio a una stirpe gloriosa che tutti ben conosciamo e le sue monocilindriche 350 hanno conquistato Mondiali a ripetizione, negli anni &lsquo;50. Tecnica: Fabio Taglioni, il pap&agrave; del Desmo Ducati &nbsp; Una storia nata nel 1936  Nato a Milano nel 1910, Carcano &egrave; entrato alla Guzzi nel 1936, due anni dopo la laurea. Per un breve periodo si &egrave; dedicato alle moto militari ma ben presto ha cominciato a lavorare su quelle da competizione. Inizialmente si &egrave; trattato dei modelli destinati ai piloti privati. Dalla GTCL di serie, una tranquilla 500 con distribuzione ad aste e bilancieri destinata all&rsquo;uso di tutti i giorni, ha sviluppato il Condor, con motore potenziato (circa 28 cavalli a 5000 giri/min) e peso notevolmente minore. Con questa moto Nello Pagani si &egrave; imposto nell&rsquo;ultima edizione del circuito del Lario, nel 1939, battendo moto molto pi&ugrave; potenti, specificamente progettate per le competizioni. Dopo il conflitto la storia dei monocilindrici ad aste e bilancieri di 500 cm&sup3; &egrave; proseguita con il Dondolino (1946- 1951), che si &egrave; imposto in numerose gare per i piloti di seconda categoria e ha vinto ben quattro Milano-Taranto. Dal Condor &egrave; anche derivato il Gambalunga, destinato ai piloti ufficiali e dotato di una ciclistica nettamente pi&ugrave; moderna. Si &egrave; trattato dell&rsquo;unica mezzo litro da competizione di Mandello con misure caratteristiche diverse da quelle tradizionalmente impiegate dalla Casa (88 x 82 mm), alle quali per&ograve; si &egrave; tornati dopo breve tempo. Anche se ha avuto una carriera agonistica breve, questa moto va ricordata soprattutto per essere stata la prima a impiegare la forcella anteriore a levette oscillanti progettata da Carcano e utilizzata poi con grande successo da tutte le Guzzi da GP. Lavori in parallelo   Per i modelli di cilindrata inferiore, sui quali il tecnico milanese lavorava parallelamente a quelli di 500 cm&sup3;, &egrave; andata diversamente. L&rsquo;Albatros, destinato ai piloti privati, ha fatto la sua comparsa nel 1939 e ha continuato a essere costruito fino al 1949. Il suo motore di 250 cm&sup3; aveva la distribuzione monoalbero, comandata da un alberello e due coppie di ingranaggi conici. Le molle delle valvole, del tipo a spillo, erano esterne. Le misure caratteristiche erano quadre (68 x 68 mm) e la potenza di una ventina di cavalli a 7000 giri/min. Da questo modello Carcano ha sviluppato nel 1949 il Gambalunghino, destinato ai piloti ufficiali, che disponeva di circa 25 cavalli a 8000 giri/min, ben presto passati a circa 28, imponendosi a livello mondiale con tre titoli iridati. In seguito le attenzioni dell&rsquo;ingegner Carcano, che dal 1951 &egrave; stato messo a capo della progettazione e sviluppo (e quindi del reparto corse) si sono concentrate sulla 350, classe che ha dato alla Guzzi le maggiori soddisfazioni. Qui le idee del grande tecnico hanno potuto concretizzarsi con la realizzazione di una serie di monocilindrici assolutamente straordinari, che tra il 1953 e il 1957 hanno conquistato cinque Mondiali piloti (ovvero tutti quelli a disposizione!). Nella prima stagione il motore, derivato dal 250, aveva la distribuzione monoalbero. In seguito per&ograve; si &egrave; passati a quella bialbero e il motore &egrave; stato riprogettato, mantenendo comunque lo schema iniziale e le soluzioni care a Carcano. In questo caso l&rsquo;obiettivo era quello di realizzare una moto leggera e facile da guidare, con un ampio campo di utilizzazione e dotata non soltanto di una ridotta sezione frontale ma anche di un&rsquo;eccellente aerodinamica. Dal 1950 la Guzzi disponeva, unica Casa motociclistica del Mondo, di una galleria del vento, che ha utilizzato adeguatamente. Dopo un anno in cui ha adottato una carenatura a &ldquo;becco d&rsquo;uccello&rdquo;, nel 1954 ha dotato le sue moto di un&rsquo;efficace carenatura a campana, realizzata in lamierino di magnesio. Il peso ridotto derivava dalla grande semplicit&agrave; meccanica, che contribuiva anche ad assicurare un&rsquo;eccellente affidabilit&agrave;, ancora di pi&ugrave; rispetto all&rsquo;esteso impiego di materiali leggeri. Non c&rsquo;era un particolare che non venisse analizzato e sviluppato proprio in quest&rsquo;ottica. Le molle delle valvole singole invece che doppie e l&rsquo;adozione di un cilindro con canna cromata invece che riportata in ghisa, soluzioni apportate verso il termine della evoluzione, si spiegano principalmente in quest&rsquo;ottica. La versione del 1957 erogava 38 cavalli (un bel po&rsquo; meno di quelli delle concorrenti, sonoramente battute nel Mondiale) ma pesava soltanto 98 kg! In tutte queste monocilindriche il cambio aveva la presa diretta e l&rsquo;albero a gomito girava all&rsquo;indietro. &nbsp; Dalle corse ai modelli di serie   Carcano per&ograve; sondava tutte le possibilit&agrave;, senza fissarsi su un solo schema. E infatti si era da tempo reso conto che in futuro sulla maggior parte dei circuiti la potenza avrebbe avuto un&rsquo;importanza preponderante, in particolare nella classe regina. Occorreva disporre di pi&ugrave; cavalli rispetto alle quadricilindriche Gilera e MV, senza avere una larghezza maggiore. Per questa ragione per vincere anche nella classe 500 ha fatto ricorso a uno schema inedito, realizzando uno straordinario motore otto cilindri a V. Raffreddato ad acqua e dotato di distribuzione bialbero comandata da ingranaggi posti sul lato destro, questo autentico capolavoro di meccanica ha fatto la sua comparsa nel 1956. L&rsquo;anno successivo &egrave; arrivato a erogare 72 CV alla ruota a poco pi&ugrave; di 11.000 giri/ min. Tra le sue caratteristiche spiccavano il basamento a tunnel in lega di magnesio e le canne &ldquo;umide&rdquo; avvitate alle teste, che non erano amovibili dato che ciascuna di esse era in pezzo unico con la propria bancata dei cilindri. L&rsquo;alesaggio era di 44 mm e la corsa di 41; le valvole erano inclinate di 58&deg;. Alla fine del 1957 la Guzzi ha abbandonato l&rsquo;attivit&agrave; agonistica e Carcano si &egrave; dedicato, con entusiasmo assai minore, alla progettazione dei modelli di serie. A lui si deve lo Stornello 125, un robusto monocilindrico, apparso nel 1960, che &egrave; stato realizzato nelle versioni Turismo, Sport e Giulio Cesare Carcano fotografato attorno alla met&agrave; degli anni Novanta nella sua splendida casa di Mandello del Lario, che si affacciava direttamente sul lago. In braccio ha uno dei suoi amati gatti. Regolarit&agrave;. Il motore della versione base erogava 7 CV a 7200 giri/min, che salivano a 8,5 a 7500 nel modello Sport. Sempre a Carcano &egrave; dovuto un modello che ha aperto una nuova pagina nella storia della Guzzi per via dell&rsquo;architettura del suo motore, con due cilindri disposti a V trasversale. Si trattava della V7, capostipite di una straordinaria stirpe di grandi moto. Nel 1966, dopo aver abbandonato la Guzzi, Carcano si &egrave; dato alla progettazione di imbarcazioni da regata, attivit&agrave; che gli ha dato notevoli soddisfazioni. La sua abitazione, a Mandello del Lario, si affacciava direttamente sul lago ed era anche dotata di un punto di attracco per chi voleva raggiungerla in barca. Amava i gatti e a casa sua ce n&rsquo;erano diversi. Uno, dotato di orecchie molto grandi e sporgenti, lo aveva chiamato Andreotti&hellip; Tecnica: MV Agusta 500, la fine dell'impero&nbsp;       

Milanese, ha legato il suo nome a quello della Moto Guzzi. La sua 500 otto cilindri &egrave; entrata nella leggenda come la V7 e le 350 monocilindriche, plurititolate negli anni '50

Tecnica: Giulio Cesare Carcano, dai militari alle corse

        Molti appassionati si possono chiedere quali siano le differenze tra i motori da corsa e quelli di serie. Gi&agrave;, in fondo se prendiamo un quadricilindrico sportivo moderno di 1000 cm3 e uno di una MotoGP, la struttura complessiva &egrave; uguale e anche le soluzioni tecniche impiegate, se si eccettuano le molle delle valvole (meccaniche in un caso e pneumatiche nell&rsquo;altro), a ben guardare sono le stesse. Le differenze per&ograve; ci sono. Tecnica: alla scoperta della Honda RCV Equilibrio tra prestazioni e costi  Nei motori da competizione tutto &egrave; esasperato, in quanto realizzato in funzione esclusiva delle prestazioni, senza dover subire limitazioni legate al contenimento delle emissioni acustiche e di scarico e senza troppe esigenze in quanto a durata. Un modello stradale deve invece funzionare impeccabilmente per decine e decine di migliaia di chilometri e quindi ha una vita utile enormemente superiore a quella richiesta al motore di una moto da corsa. In effetti oggi la differenza tra una sportiva di serie e una moto da competizione &egrave; comunque molto ridotta, e in fondo anche le prestazioni non sono poi tanto distanti (la potenza della GP &egrave; all&rsquo;incirca del 25% superiore). Se per&ograve; facciamo riferimento ai costi la differenza &egrave; sorprendente. A entrare in gioco qui non sono tanto i numeri di produzione (che comunque indubbiamente incidono) ma altri fattori che chiamano in causa l&rsquo;accuratezza di fabbricazione, le lavorazioni, i materiali e i trattamenti. Pure il montaggio &egrave; notevolmente pi&ugrave; dispendioso e richiede tempi di gran lunga superiori rispetto a quelli necessari per i motori di serie. Ci&ograve; &egrave; dovuto anche al notevole numero di controlli che devono via via essere effettuati. Indicativo &egrave; il caso del rapporto di compressione. Nei motori di serie, anche se di prestazioni elevatissime, rispetto al valore nominale sono ammessi scostamenti non trascurabili, in pi&ugrave; o in meno. Ci&ograve; &egrave; dovuto al fatto che le tolleranze dimensionali dei vari componenti interessati si sommano. Quella relativa alla distanza tra l&rsquo;asse dei supporti di banco e il piano superiore del blocco cilindri, che pu&ograve; andare da un certo valore massimo a uno minimo, si somma, per quanto riguarda ogni cilindro, con quelle che riguardano la lunghezza della biella e l&rsquo;altezza di compressione del pistone (distanza tra asse spinotto e margine del cielo). Cos&igrave; nei motori di serie pu&ograve; capitare che il pistone pi&ugrave; alto sia montato sulla biella pi&ugrave; lunga (entrambi con quote comunque all&rsquo;interno del campo di tolleranza) e che entrambi vengano installati nel cilindro pi&ugrave; alto (idem), o che avvenga il contrario! Nel primo caso, fermo restando il volume della camera di combustione, il rapporto di compressione &egrave; ovviamente pi&ugrave; alto mentre nell&rsquo;altro &egrave; pi&ugrave; basso. Pure per quanto riguarda la forma e le dimensioni delle camere di combustione ricavate nella testa vi &egrave; una certa variabilit&agrave;, se esse vengono ottenute direttamente di fusione, come accade in quasi tutti i motori di serie. Per ridurla al minimo se non addirittura eliminarla, nei motori da corsa le camere vengono sempre ottenute per lavorazione alle macchine utensili. Per il cielo dei pistoni fondamentalmente vale un discorso analogo, ma si pu&ograve; rendere necessario qualche piccolo intervento di aggiustaggio manuale. Per alcuni suoi motori di serie un noto costruttore indica il rapporto di compressione aggiungendo &ldquo;pi&ugrave; o meno 0,5&rdquo;. Il valore indicato &egrave; dunque soltanto nominale. Un&rsquo;altra Casa, invece, per i suoi quadricilindrici parla di &ldquo;pi&ugrave; o meno 0,3&rdquo;. Ci&ograve; significa che, per esempio, il rapporto di compressione di un cilindro pu&ograve; essere 12,5 e quello di un altro 11,5, e ci&ograve; in uno stesso motore! In quelli da corsa questo non &egrave; ammissibile. Le varie misurazioni e i controlli relativi al rapporto di compressione, che deve essere quello ottimale e deve risultare uguale per tutti i cilindri, portano via molto tempo, anche perch&eacute; occorre una grande accuratezza. Un discorso del genere tutto sommato si pu&ograve; fare anche per quanto riguarda gli eccentrici. Qui, oltre al profilo, &egrave; di estrema importanza anche il corretto posizionamento angolare. Negli alberi a camme di serie ci possono essere scostamenti di alcuni gradi rispetto alla posizione ottimale e piccole ma non trascurabili differenze da cilindro a cilindro, cosa non ammissibile quando si cerca di estrarre dal motore fino all&rsquo;ultima frazione di cavallo. Inoltre da quando si sono affermati i bilancieri a dito nella loro versione moderna (ovvero leggeri, con riporto DLC e lavoranti pressoch&eacute; esclusivamente a compressione) e hanno iniziato a essere impiegate leggi del moto delle valvole estremamente radicali, necessarie per arrivare alle prestazioni attuali, sono apparse camme con un fianco leggermente concavo. Per la loro lavorazione occorre impiegare macchine rettificatrici con mola di piccolo diametro, appositamente sviluppate. Fondamentale per lo sviluppo dei motori da corsa &egrave; stata l&rsquo;adozione delle molle pneumatiche, che sulle moto di serie non si prestano a essere impiegate. Un discorso a parte merita qui la Ducati, che utilizza una distribuzione desmodromica sia sui modelli stradali che su quelli da competizione. I risultati che questa soluzione consente di ottenere sono sotto gli occhi di tutti.&nbsp; La curva di erogazione  Dunque nei motori da competizione, per quanto riguarda le dimensioni e le geometrie dei componenti, gli scostamenti dai valori nominali (ovvero dalle situazioni ideali) vanno ridotti al minimo. In questo modo i giochi possono essere sempre molto vicini a quelli ottimali. Adottare tolleranze sempre pi&ugrave; ristrette, per&ograve;, comporta anche costi via via pi&ugrave; elevati (da un certo punto in poi l&rsquo;incremento &egrave; esponenziale). In conclusione, oggi 200 cavalli non si negano a nessuna quadricilindrica di 1000 cm3. Raggiungere i circa 230 delle Superbike &egrave; sicuramente molto impegnativo ma alla portata dei migliori preparatori. Passare da l&igrave; ai 265 e forse qualcosa di pi&ugrave; delle MotoGP &egrave; per&ograve; un altro discorso&hellip; Da un certo punto in poi, guadagnare ogni ulteriore cavallo diventa via via pi&ugrave; difficile (e costoso). Inoltre, non si deve dimenticare che oltre alla potenza massima occorre considerare, e ci&ograve; &egrave; importantissimo ai fini delle prestazioni in pista, anche l&rsquo;andamento della curva di erogazione, il che complica ulteriormente le cose.        

L'analisi del nostro esperto Massimo Clarke

Tecnica: motori da corsa e di serie, similitudini e differenze

        Molti appassionati si possono chiedere quali siano le differenze tra i motori da corsa e quelli di serie. Gi&agrave;, in fondo se prendiamo un quadricilindrico sportivo moderno di 1000 cm3 e uno di una MotoGP, la struttura complessiva &egrave; uguale e anche le soluzioni tecniche impiegate, se si eccettuano le molle delle valvole (meccaniche in un caso e pneumatiche nell&rsquo;altro), a ben guardare sono le stesse. Officina: il volano "dimenticato" Le differenze tra motori da corsa e di serie  Le differenze per&ograve; ci sono. Nei motori da competizione tutto &egrave; esasperato, in quanto realizzato in funzione esclusiva delle prestazioni, senza dover subire limitazioni legate al contenimento delle emissioni acustiche e di scarico e senza troppe esigenze in quanto a durata. Un modello stradale deve invece funzionare impeccabilmente per decine e decine di migliaia di chilometri e quindi ha una vita utile enormemente superiore a quella richiesta al motore di una moto da corsa. In effetti oggi la differenza tra una sportiva di serie e una moto da competizione &egrave; comunque molto ridotta, e in fondo anche le prestazioni non sono poi tanto distanti (la potenza della GP &egrave; all&rsquo;incirca del 25% superiore). Se per&ograve; facciamo riferimento ai costi la differenza &egrave; sorprendente. A entrare in gioco qui non sono tanto i numeri di produzione (che comunque indubbiamente incidono) ma altri fattori che chiamano in causa l&rsquo;accuratezza di fabbricazione, le lavorazioni, i materiali e i trattamenti. Pure il montaggio &egrave; notevolmente pi&ugrave; dispendioso e richiede tempi di gran lunga superiori rispetto a quelli necessari per i motori di serie. Ci&ograve; &egrave; dovuto anche al notevole numero di controlli che devono via via essere effettuati. Indicativo &egrave; il caso del rapporto di compressione. Nei motori di serie, anche se di prestazioni elevatissime, rispetto al valore nominale sono ammessi scostamenti non trascurabili, in pi&ugrave; o in meno. Ci&ograve; &egrave; dovuto al fatto che le tolleranze dimensionali dei vari componenti interessati si sommano. Quella relativa alla distanza tra l&rsquo;asse dei supporti di banco e il piano superiore del blocco cilindri, che pu&ograve; andare da un certo valore massimo a uno minimo, si somma, per quanto riguarda ogni cilindro, con quelle che riguardano la lunghezza della biella e l&rsquo;altezza di compressione del pistone (distanza tra asse spinotto e margine del cielo). Cos&igrave; nei motori di serie pu&ograve; capitare che il pistone pi&ugrave; alto sia montato sulla biella pi&ugrave; lunga (entrambi con quote comunque all&rsquo;interno del campo di tolleranza) e che entrambi vengano installati nel cilindro pi&ugrave; alto (idem), o che avvenga il contrario! Le camere di combustione  Nel primo caso, fermo restando il volume della camera di combustione, il rapporto di compressione &egrave; ovviamente pi&ugrave; alto mentre nell&rsquo;altro &egrave; pi&ugrave; basso. Pure per quanto riguarda la forma e le dimensioni delle camere di combustione ricavate nella testa vi &egrave; una certa variabilit&agrave;, se esse vengono ottenute direttamente di fusione, come accade in quasi tutti i motori di serie. Per ridurla al minimo se non addirittura eliminarla, nei motori da corsa le camere vengono sempre ottenute per lavorazione alle macchine utensili. Per il cielo dei pistoni fondamentalmente vale un discorso analogo, ma si pu&ograve; rendere necessario qualche piccolo intervento di aggiustaggio manuale. Per alcuni suoi motori di serie un noto costruttore indica il rapporto di compressione aggiungendo &ldquo;pi&ugrave; o meno 0,5&rdquo;. Il valore indicato &egrave; dunque soltanto nominale. Un&rsquo;altra Casa, invece, per i suoi quadricilindrici parla di &ldquo;pi&ugrave; o meno 0,3&rdquo;. Ci&ograve; significa che, per esempio, il rapporto di compressione di un cilindro pu&ograve; essere 12,5 e quello di un altro 11,5, e ci&ograve; in uno stesso motore! In quelli da corsa questo non &egrave; ammissibile. Le varie misurazioni e i controlli relativi al rapporto di compressione, che deve essere quello ottimale e deve risultare uguale per tutti i cilindri, portano via molto tempo, anche perch&eacute; occorre una grande accuratezza. Un discorso del genere tutto sommato si pu&ograve; fare anche per quanto riguarda gli eccentrici. Qui, oltre al profilo, &egrave; di estrema importanza anche il corretto posizionamento angolare. Negli alberi a camme di serie ci possono essere scostamenti di alcuni gradi rispetto alla posizione ottimale e piccole ma non trascurabili differenze da cilindro a cilindro, cosa non ammissibile quando si cerca di estrarre dal motore fino all&rsquo;ultima frazione di cavallo. Inoltre da quando si sono affermati i bilancieri a dito nella loro versione moderna (ovvero leggeri, con riporto DLC e lavoranti pressoch&eacute; esclusivamente a compressione) e hanno iniziato a essere impiegate leggi del moto delle valvole estremamente radicali, necessarie per arrivare alle prestazioni attuali, sono apparse camme con un fianco leggermente concavo. Per la loro lavorazione occorre impiegare macchine rettificatrici con mola di piccolo diametro, appositamente sviluppate. Fondamentale per lo sviluppo dei motori da corsa &egrave; stata l&rsquo;adozione delle molle pneumatiche, che sulle moto di serie non si prestano a essere impiegate. Un discorso a parte merita qui la Ducati, che utilizza una distribuzione desmodromica sia sui modelli stradali che su quelli da competizione. I risultati che questa soluzione consente di ottenere sono sotto gli occhi di tutti. Potenza ed erogazione  Dunque nei motori da competizione, per quanto riguarda le dimensioni e le geometrie dei componenti, gli scostamenti dai valori nominali (ovvero dalle situazioni ideali) vanno ridotti al minimo. In questo modo i giochi possono essere sempre molto vicini a quelli ottimali. Adottare tolleranze sempre pi&ugrave; ristrette, per&ograve;, comporta anche costi via via pi&ugrave; elevati (da un certo punto in poi l&rsquo;incremento &egrave; esponenziale). In conclusione, oggi 200 cavalli non si negano a nessuna quadricilindrica di 1000 cm3 . Raggiungere i circa 230 delle Superbike &egrave; sicuramente molto impegnativo ma alla portata dei migliori preparatori. Passare da l&igrave; ai 265 e forse qualcosa di pi&ugrave; delle MotoGP &egrave; per&ograve; un altro discorso&hellip; Da un certo punto in poi, guadagnare ogni ulteriore cavallo diventa via via pi&ugrave; difficile (e costoso). Inoltre, non si deve dimenticare che oltre alla potenza massima occorre considerare, e ci&ograve; &egrave; importantissimo ai fini delle prestazioni in pista, anche l&rsquo;andamento della curva di erogazione, il che complica ulteriormente le cose.       

I motori di alte prestazioni vengono montati con estrema cura da meccanici specializzati. Per quelli da corsa la precisione e i controlli sono tali da richiedere un tempo notevolmente maggiore

Tecnica: motori da corsa e di serie, "gemelli diversi"

        In genere il volano non attira molto le attenzioni degli appassionati di tecnica. Del resto, anche nei libri motoristici non &egrave; che se ne parli tanto. Spesso ci si limita a dire che &egrave; un grosso disco metallico fissato a una estremit&agrave; dell&rsquo;albero a gomiti (soluzione tipica dei motori automobilistici, non di quelli per moto!) che serve a rendere pi&ugrave; uniforme la velocit&agrave; di rotazione dell&rsquo;albero a gomiti. Se ne parla quando si tratta l&rsquo;irregolarit&agrave; nella erogazione della coppia. Massa volanica   Gli accenni alla massa volanica dell&rsquo;albero in s&eacute; e a come essa pu&ograve; influire sul &ldquo;comportamento&rdquo; della moto sono abbastanza rari. Qualche anno fa un costruttore ha aumentato il peso dell&rsquo;albero a gomiti della nuova versione della sua 1000 supersportiva. Questo potrebbe sembrare illogico, dato che mano a mano che si sviluppa un motore alla ricerca di prestazioni pi&ugrave; elevate (anche per correre nelle gare Superbike) si tende a ridurre la massa delle parti mobili e non ad aumentarla. Quando si tratta dell&rsquo;albero per&ograve;, occorre vedere non soltanto quanto materiale viene aggiunto (o rimosso, eventualmente) ma anche dove viene messo (o tolto). Nel caso specifico non si trattava di irrobustire il componente, ma di variarne la massa volanica. Vediamo qui di approfondire questo argomento che effettivamente presenta alcuni lati magari non proprio oscuri, ma forse di non immediata comprensione. Cominciamo con alcuni concetti base e col fare un parallelo tra il movimento lineare (ovvero di traslazione rettilinea) e quello rotatorio attorno a un asse fisso. Quando nel primo caso si ragiona in termini di forza, nel secondo lo si fa in termini di coppia. Analogamente, nel moto rettilineo l&rsquo;inerzia di un corpo viene misurata dalla sua massa, mentre nel moto di rotazione ad essa corrisponde il momento d&rsquo;inerzia. In entrambi i casi quella che viene indicata &egrave; la resistenza alle variazioni di velocit&agrave;. Il momento d&rsquo;inerzia &egrave; direttamente proporzionale alla massa del corpo e al quadrato del suo raggio (che per semplicit&agrave; in questa sede supponiamo sempre di forma cilindrica o discoidale). L&rsquo;energia cinetica di un corpo che si muove rettilineamente &egrave; pari a met&agrave; del prodotto della massa per il quadrato della velocit&agrave; mentre quella di un corpo rotante &egrave; pari a met&agrave; del prodotto del momento di inerzia per il quadrato della velocit&agrave; di rotazione. Durante il ciclo di funzionamento, che come noto nei motori a quattro tempi si svolge in due giri dell&rsquo;albero (ovvero in 720&deg;), la coppia varia di continuo ed &egrave; positiva soltanto durante la fase di espansione. Quando si svolgono le altre tre fasi la coppia &egrave; negativa. In altre parole in tali fasi occorre fornire energia all&rsquo;albero a gomiti per evitare che la sua velocit&agrave; di rotazione diminuisca eccessivamente. Questa energia &egrave; fornita dalle masse volaniche, nelle quali viene &ldquo;incamerata&rdquo; durante la fase di espansione. Il ruolo del volano  Come gi&agrave; detto lo schema costruttivo tipicamente adottato in campo auto prevede un grosso disco di ghisa o di acciaio, fissato a una estremit&agrave; dell&rsquo;albero a gomiti, che viene detto volano. Nei motori motociclistici di schema convenzionale esso si riduce al rotore del generatore di corrente o pu&ograve; anche mancare. Il fatto che la coppia sia erogata in maniera pulsante e che in tre fasi del ciclo di funzionamento venga non fornita ma assorbita dall&rsquo;albero determina continue variazioni nella velocit&agrave; di rotazione di quest&rsquo;ultimo. Le masse volaniche si oppongono a questi cambiamenti grazie alla loro inerzia rotazionale, ovvero al loro momento d&rsquo;inerzia. In pratica esse riducono quindi le fluttuazioni di velocit&agrave;: l&rsquo;albero rallenta quando cede energia e accelera quando, durante l&rsquo;espansione, la assorbe. Il grado di irregolarit&agrave; del motore &egrave; un rapporto nel quale al numeratore c&rsquo;&egrave; la differenza tra la velocit&agrave; di rotazione massima e quella minima e al denominatore vi &egrave; il valore medio della velocit&agrave; stessa. Diminuisce all&rsquo;aumentare del numero dei cilindri; in tal caso infatti aumenta il numero degli impulsi &ldquo;utili&rdquo; (coppia erogata da ciascun cilindro) che l&rsquo;albero riceve nei 720&deg; in cui si svolge un ciclo completo e si riduce la differenza tra la fluttuazione massima di velocit&agrave; e il valore medio. Passando da un monocilindrico a un bicilindrico il grado di irregolarit&agrave; scende a meno della met&agrave;; in un quadricilindrico risulta inferiore a un terzo. &Egrave; quindi chiaro che nei monocilindrici si devono impiegare masse volaniche molto pi&ugrave; elevate di quelle che si utilizzano nei policilindrici. Oltre al volano (se presente) contano quindi i perni di biella, i bracci di manovella, i contrappesi dell&rsquo;albero e parte delle bielle. Insomma tutti gli organi rotanti, che il motore deve comunque accelerare quando sale di giri. Officina: lunghezza di biella, un valore relativo Passa alla prossima scheda &nbsp; Momento d'inerzia e angolare  Il momento d&rsquo;inerzia dipende non soltanto dalla quantit&agrave; di materiale ma anche (e molto) dalla sua disposizione. Una stessa massa alla periferia di un disco ha un effetto quadruplo rispetto a quello che avrebbe se si trovasse a una distanza dimezzata, rispetto all&rsquo;asse di rotazione! Il momento angolare di un corpo in rotazione corrisponde alla quantit&agrave; di moto (massa x velocit&agrave;) di un corpo in movimento rettilineo. Un disco (o una ruota) continua a girare grazie al suo momento angolare, costituito dal prodotto del momento d&rsquo;inerzia per la velocit&agrave; di rotazione. Pure qui conta in misura fondamentale il quadrato del raggio (o meglio della distanza dall&rsquo;asse alla quale si pu&ograve; considerate concentrata la massa del corpo). Riducendo le masse volaniche il motore appare pi&ugrave; &ldquo;vivace&rdquo; e i passaggi di marcia possono risultare pi&ugrave; rapidi (in entrambi i sensi); la velocit&agrave; di rotazione cambia pi&ugrave; rapidamente e l&rsquo;assorbimento di potenza necessario per accelerare il motore diminuisce. Ai bassi regimi per&ograve; il motore diventa meno fluido, ovvero ha un funzionamento meno &ldquo;rotondo&rdquo;. D&rsquo;altro canto certe volte pu&ograve; essere vantaggioso, ai fini della motricit&agrave;, aumentare le masse volaniche. Su certi fondi il miglioramento della trazione pu&ograve; risultare particolarmente sensibile. Non per nulla alcuni anni fa la Suzuki ha dotato un suo modello di serie di un volano a doppia massa.       

&Egrave; ignorato dagli appassionati e viene menzionato poco anche nei libri

Officina: il volano "dimenticato"

Quando la MotoGP ha sostituito la 500 come classe regina del Motomondiale la Honda &egrave; stata la Casa pi&ugrave; pronta a lottare per il titolo, schierando una moto nettamente pi&ugrave; avanti come preparazione rispetto a tutte le altre. Non soltanto, ma dal punto di vista tecnico era anche la pi&ugrave; innovativa.  Tecnica: i segreti della Yamaha M1  Motore   Il suo motore era infatti realizzato con un&rsquo;architettura inedita per il settore motociclistico: dotato di cinque cilindri, dei quali tre nella bancata anteriore e due in quella posteriore, era a V di 75,5&deg;. A parit&agrave; di rapporto corsa/alesaggio e di pressione media effettiva la potenza di un motore aumenta con il numero dei cilindri; crescono infatti il regime di rotazione raggiungibile con una stessa velocit&agrave; media del pistone e la superficie dei pistoni. Si potr&agrave; obiettare che allora sarebbe convenuto realizzare un sei cilindri.  Si era invece optato per un V5 perch&eacute; in base al regolamento poteva avere un peso sensibilmente minore (lo stesso ammesso per i quattro cilindri). In quanto all&rsquo;architettura a V, era stata scelta perch&eacute; consentiva di avere un ingombro trasversale contenuto, addirittura inferiore a quello di un quadricilindrico in linea.  Una grande compattezza e la migliore centralizzazione delle masse erano tra i principali obiettivi che i tecnici della Honda si erano proposti di raggiungere. Rispetto alla verticale, la bancata di tre cilindri era inclinata in avanti di 45&deg; mentre quella di due (ovvero la posteriore) era inclinata all&rsquo;indietro di 30,5&deg;.Le misure caratteristiche del motore di questa moto, denominata RC211V, non sono state comunicate dalla Casa ma si ritiene che nel 2002, anno della sua comparsa, fossero 74 x 46 mm. La cilindrata totale era di 990 cm3 e la potenza, stando alle fonti pi&ugrave; autorevoli, era dell&rsquo;ordine di 220 CV a un regime di circa 15.500 giri/min. Il motore aveva la distribuzione bialbero comandata da due cascate di ingranaggi poste sul lato destro, ove si trovava anche la trasmissione primaria. I cilindri erano incorporati nella fusione della parte superiore del basamento. L&rsquo;albero a gomiti poggiava su quattro supporti di banco ed era dotato di tre perni di manovella (su ciascuno dei due laterali erano montate affiancate due bielle mentre su quello centrale ne era montata soltanto una). In pratica era come se si trattasse di un V4 con un cilindro centrale aggiunto.  &nbsp;    Bielle e iniezione     Le bielle, in titanio come le valvole, erano cave internamente. In fase di realizzazione venivano divise in due parti che, dopo l&rsquo;asportazione di materiale per ricavare la cavit&agrave; interna, venivano unite per formare un&rsquo;unica struttura con il raffinato sistema detto diffusion bonding (unione per diffusione atomica).  Naturalmente la ciclistica era allo stato dell&rsquo;arte, con un telaio a doppia trave in lega di alluminio (pi&ugrave; elementi stampati uniti per saldatura) dotato di bretelle triangolate che andavano a fissarsi alla parte anteriore del basamento. Rispetto alla 500 a due tempi era aumentata la rigidit&agrave; a torsione; quella alla flessione laterale era opportunamente calibrata onde ottimizzare il comportamento della moto in pista. Il sistema di iniezione, a gestione elettronica, prevedeva due iniettori per ogni cilindro, con quello superiore che entrava in funzione agli alti regimi, quando la quantit&agrave; di carburante da erogare era maggiore.  &nbsp;    &nbsp;  Lo sviluppo del motore ha portato a un incremento della potenza massima che &egrave; proseguito fino ad arrivare nel 2006 a 260 cavalli (circa) a 16.500 giri/min. &Egrave; stato possibile raggiungere tale regime anche grazie a una riduzione della corsa (le misure caratteristiche sarebbero passate a 78 x 41,4 mm). In cinque anni la RC211V ha conquistato tre Mondiali, a cominciare dai primi due della MotoGP, 2002 e 2003 con Valentino Rossi, che per&ograve; &egrave; poi passato alla Yamaha, moto meno potente (almeno inizialmente) ma pi&ugrave; gestibile e con migliori doti di guida.  L&#39;evoluzione negli anni     Nel 2007 la cilindrata delle MotoGP &egrave; stata limitata a 800 cm3 e la Honda ha realizzato la RC212V, con motore di schema identico al precedente ma dotato di quattro cilindri. Questa moto non ha avuto un grande successo. In cinque anni ha conquistato soltanto un Mondiale, per merito di Casey Stoner. All&rsquo;inizio il suo motore erogava poco pi&ugrave; di 210 cavalli ma alla fine della sua evoluzione &egrave; arrivata a superare i 230 a un regime superiore ai 18.000 giri/min. Un notevole miglioramento delle prestazioni si &egrave; avuto nel 2008, quando sono state adottate le molle pneumatiche, che hanno reso possibile un sensibile incremento della velocit&agrave; di rotazione (e l&rsquo;adozione di camme dal profilo pi&ugrave; spinto).  Nel 2010 &egrave; stato adottato un sensore di coppia sull&rsquo;albero secondario del cambio, grazie al quale la centralina poteva conoscere il momento torcente effettivamente disponibile al pignone durante il funzionamento della moto. Nel 2011 &egrave; comparso il cambio seamless, che abbatteva drasticamente il tempo di passaggio da una marcia all&rsquo;altra. Come gi&agrave; accaduto per la RC211V nel corso degli anni sono stati adottati diversi telai, sempre in lega di alluminio e con struttura a doppia trave superiore di rilevante sezione.  La RC213V &egrave; entrata in scena nel 2012, quando la cilindrata massima &egrave; tornata a 1000 cm3 e l&rsquo;alesaggio &egrave; stato limitato a 81 mm. Per il motore quadricilindrico &egrave; stata adottata un&rsquo;architettura a V di 90&deg;, che assicura un&rsquo;equilibratura assai buona. Anche in questo caso le prestazioni sono migliorate nel corso degli anni e hanno interessato non soltanto la potenza massima (che da tempo sembra pi&ugrave; o meno invariata) ma l&rsquo;erogazione e la guidabilit&agrave;. Pure per questo motore la potenza esatta non &egrave; mai stata dichiarata.   Da qualche anno dovrebbe essere dell&rsquo;ordine di 265 cavalli a 16.500 giri/min. Le misure caratteristiche sono 81 x 48,4 mm e quindi la velocit&agrave; media del pistone &egrave; di circa 26,6 metri al secondo. Il disegno del motore &egrave; semplice, lineare e razionale, con distribuzione bialbero a quattro valvole (azionate tramite bilancieri a dito) inclinate tra loro di poco pi&ugrave; di 20&deg;. L&rsquo;albero a gomiti in acciaio da nitrurazione poggia su tre supporti di banco. Il sistema di lubrificazione &egrave; a carter secco, con il serbatoio al di sotto del cambio. La moto 2022 &egrave; stata ridisegnata, ma gli schemi impiegati sono gli stessi. Ormai si lavora a livello di dettagli, che comunque influenzano il comportamento della moto (e i tempi sul giro).  &nbsp; 

Dopo la fine dell&#39;era 500, la moto giapponese &egrave; stata a lungo il riferimento della MotoGP, prima con un motore V5, poi V4

Tecnica: alla scoperta della Honda RCV

        Le Honda RC 30 e RC 45 sono state formidabili moto da competizione destinate non ai Gran Premi ma alle gare delle Superbike e di Endurance, nelle quali si correva (e si corre tuttora) con modelli derivati da quelli di serie. Tecnica: i segreti della Yamaha M1 Campione del Mondo Lontane parenti  Per descriverne la tecnica e la storia &egrave; quindi opportuno parlare anche delle moto stradali con le quali esse erano imparentate (sempre mantenendo l&rsquo;attenzione focalizzata su quelle da corsa). Nelle une e nelle altre spiccava immediatamente l&rsquo;architettura del motore, dotato di quattro cilindri a V in anni nei quali tutti gli altri preferivano la soluzione in linea (della quale peraltro la stessa Honda era stata pioniera).&nbsp; A rigore, i primi motori a quattro cilindri a V della Casa giapponese sono stati quelli della NR 500, la celebre moto-laboratorio ricca di soluzioni tecniche audaci e innovative, a cominciare dai pistoni ovali, che ha corso con scarsa fortuna (ma destando un grande interesse) tra il 1980 e il 1982. Nella prima versione l&rsquo;angolo tra le due bancate dei cilindri era di 100&deg; ma nelle successive &egrave; stato portato ai canonici 90&deg;. Per&nbsp;le sue supersportive degli anni Ottanta e seguenti la Honda ha puntato con decisione sullo schema V4, con raffreddamento ad acqua, distribuzione a quattro valvole per cilindro e angolo di 90&deg; tra le due bancate (incorporate nel basamento). Per la verit&agrave; i primi modelli con motori di questo tipo erano destinati al granturismo e al normale impiego di tutti i giorni. Nel 1982 &egrave; entrata in produzione la VF 750 S, con trasmissione finale ad albero e una potenza di 81 CV a 9500 giri/min. L&rsquo;anno successivo &egrave; stata la volta della VF 750 F, di impostazione decisamente pi&ugrave; sportiva, che ha ottenuto una diffusione ben maggiore. Il suo V4 era di disegno assolutamente analogo al precedente. La distribuzione era comandata da due catene collocate centralmente e gli eccentrici comandavano le 16 valvole (disposte su due piani che formavano un angolo di 38&deg;) per mezzo di 8 bilancieri a dito di tipo &ldquo;sdoppiato&rdquo;. L&rsquo;albero a gomiti monolitico poggiava su quattro supporti di banco e aveva i due perni di manovella (su ciascuno dei quali erano montate due bielle) disposti a 360&deg;. Le misure di alesaggio e corsa, alle quali la Honda si &egrave; mantenuta in seguito fedele per le sue V4 di 750 cm3 (eccezion fatta per la RC 45), erano 70 x 48,6 mm e i cavalli erogati erano 90 a 10.000 giri/min. Il telaio era a doppia culla in tubi di acciaio a sezione quadrata. Nel 1986 &egrave; entrata in scena la VFR 750 F con motore di analoga architettura ma profondamente rivisitato rispetto a quello della precedente VF 750 F. Per il comando della distribuzione si &egrave; passati a due cascate di ingranaggi, e i perni di manovella dell&rsquo;albero sono stati disposti a 180&deg;. Entrambe queste soluzioni sono state mantenute sulle successive Honda V4 di 750 cm3. Inoltre i bilancieri a dito sono diventati singoli (uno per ogni valvola). La potenza era di 105 CV a 10500 giri/min. Nella parte ciclistica spiccava il nuovo telaio a doppia trave superiore in lega di alluminio.&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp; L'arrivo della RC 30   Quando&nbsp;&egrave; iniziato il mondiale Superbike la Honda ha schierato la RC 30, moto che poteva essere considerata uno sviluppo del modello di serie VFR 750 F; ne riprendeva infatti lo schema, pur scostandosi notevolmente sotto diversi aspetti. Si trattava di una vera moto da corsa costruita in serie (ne sono stati prodotti 2500 esemplari), versione stradale della RVF 750 ufficiale; dotata di sistema di illuminazione, di lampeggiatori e di avvisatore acustico, era targata e quindi abilitata per la normale circolazione. In effetti la Honda era gi&agrave; pronta da tempo, prima ancora che esso cominciasse, per il nuovo campionato mondiale. Nel 1984 una RS 750 R, con motore derivato da quello della VF 750 F ma dotato di comando della distribuzione a ingranaggi, aveva vinto il Bol d&rsquo;Or. L&rsquo;anno successivo la RVF 750 si era imposta tanto alla 8 ore di Suzuka quanto nel mondiale di Endurance. Questa moto nel 1986 era stata dotata di un nuovo motore, strettamente imparentato con quello della VFR 750 F. La RC 30 ha fatto la sua comparsa nel 1987 e si &egrave; subito imposta per le sue eccellenti prestazioni. Tra i suoi risultati agonistici di maggiore importanza vi sono le vittorie nei primi due mondiali superbike (1988 e 1989). Nella parte ciclistica spiccava la sospensione posteriore monobraccio. Questa soluzione era apparsa sulla RVF 750 a met&agrave; del 1985 ed era stata adottata non tanto per ragioni squisitamente tecniche quanto perch&eacute; presentava vantaggi quando la moto veniva impiegate nelle gare di Endurance (sostituzione della ruota pi&ugrave; rapida e agevole). Il motore era una sintesi di quanto di meglio disponibile nel settore quattrotempistico. Era dotato di bielle in lega di titanio, pistoni forgiati (con due segmenti ciascuno) e punterie a bicchiere; l&rsquo;albero a gomiti aveva i perni di manovella disposti a 360&deg;. Le valvole di aspirazione avevano un diametro di 28 mm e quelle di scarico di 24 mm; l&rsquo;alzata era di 9,5 mm. Per questo V4 venivano dichiarati 112 CV a 11000 giri/min, regime al quale la velocit&agrave; media del pistone era di 17,8 metri al secondo. La potenza specifica era di 167 CV/litro. Nel 1990 ha fatto la sua comparsa la nuova VFR 750 F, completamente riprogettata e profondamente influenzata dalla RC 30. Era munita di un singolo braccio oscillante posteriore ma le novit&agrave; pi&ugrave; importanti riguardavano il motore, con angolo tra le valvole portato a 32&deg; e ora dotato di punterie a bicchiere. &nbsp; La RC45   Nei primi anni Novanta contro le bicilindriche Ducati, oggetto di una continua evoluzione, e contro le Kawasaki ben presto la &ldquo;vecchia&rdquo; RC 30 non &egrave; pi&ugrave; risultata in grado di competere vittoriosamente. La Honda ha cos&igrave; deciso di sviluppare una nuova 750 in grado di farle riconquistare la supremazia tra le superbike. Nel 1994 &egrave; cos&igrave; entrata in scena la RC 45, dotata di un motore completamente nuovo. Il motore, sempre a 4 cilindri a V di 90&deg;, aveva le due cascate di ingranaggi di comando della distribuzione collocate lateralmente e non pi&ugrave; in posizione centrale. L&rsquo;albero a gomiti, che aveva i perni di manovella disposti a 360&deg; ed era adesso dotato di tre perni di banco (e non pi&ugrave; di quattro, come nei precedenti modelli con comando della distribuzione centrale). L&rsquo;angolo tra le valvole, che le camme azionavano agendo su punterie a bicchiere, &egrave; sceso a 26&deg; e le misure caratteristiche del motore sono diventate 72 x 46 mm. Una novit&agrave; di grande portata &egrave; stata il passaggio dai carburatori alla alimentazione a iniezione. Questa moto ha avuto uno sviluppo laborioso, culminato con la conquista del Mondiale Superbike nel 1997.&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;Tecnica: Gilera 500, la Regina degli anni Cinquanta       

Dotate di motori V4 negli anni in cui tutti preferivano l&rsquo;architettura in linea, i modelli di serie erano e restano delle perle di tecnologia, ricercate dagli appassionati

Tecnica: dalla Honda RC30 alla RC45, nate per la Superbike

        Entrare in scena e mostrare a tutti una strada inedita, imponendosi a livello mondiale con una moto innovativa &egrave; cosa rara, forse unica nel nostro settore. Tutto &egrave; ancora pi&ugrave; straordinario se a realizzare la moto in questione non &egrave; una grande Casa ma un pugno di tecnici dall&rsquo;eccezionale abilit&agrave; e dallo straordinario senso della meccanica, oltre, ovviamente, a un progettista illuminato. Tecnica: i segreti della M1 campione del mondo &nbsp; La creatura di Drusiani  Addirittura unico &egrave; poi il fatto che proprio da quella moto, un esemplare unico costruito con una grande passione, abbinata a una formidabile capacit&agrave; tecnica, sia poi nata una importante Casa motociclistica. Proprio questo &egrave; accaduto nel 1948, quando da una officina meccanica di Bologna, che per lungo tempo aveva lavorato per varie aziende attive pi&ugrave; che altro nel settore dei motocarri, &egrave; uscita una bella 125 da competizione che si distingueva nettamente da tutte le altre che correvano in quella classe di cilindrata per il fatto di essere a quattro tempi. Nessuno pensava che sarebbe stato possibile superare le moto a due tempi, all&rsquo;epoca dominatrici della categoria, ma Alfonso Drusiani non la pensava cos&igrave; quando ha deciso di realizzare nella sua officina di via Milazzo la sua 125, dotata di distribuzione bialbero comandata da alberello e coppie coniche. Giuseppe Boselli, che produceva i motocarri FB ma era un grande appassionato dello sport motociclistico, conosceva molto bene Drusiani, che costruiva i motori e le trasmissioni per i suoi motocarri (FB, ovvero Fratelli Boselli) e non si &egrave; fatto sfuggire l&rsquo;occasione di acquistare la moto e il relativo progetto. La nuova ottavo di litro &egrave; cos&igrave; diventata la FB Mondial 125 e ben presto l&rsquo;officina di via Milazzo si &egrave; trasformata in un reparto corse. L&rsquo;esordio &egrave; avvenuto a Faenza, dove la moto si &egrave; ritirata per un banale inconveniente dopo aver dimostrato una netta superiorit&agrave; nei confronti delle rivali a due tempi. A Monza, ultima gara della stagione, si &egrave; imposta a mani basse. La Morini ha capito subito che occorreva passare al quattro tempi e nel giro di pochi mesi ha realizzato una veloce monocilindrica monoalbero. &nbsp; A piccoli passi   La MV Agusta ha continuato per un anno con la sua 2T ma nel 1950 ha schierato essa pure una 125 bialbero. Il campionato mondiale ha avuto inizio nel 1949 con le moto suddivise in quattro cilindrate. Per la prima volta alle classiche 250, 350 e 500, con le quali nell&rsquo;anteguerra si correva il campionato europeo, veniva infatti aggiunta la 125. I primi tre Mondiali sono stati trionfali per la nuova marca, che non soltanto ha conquistato i titoli iridati ma ha vinto tutte le gare in programma! A grande richiesta la Mondial &egrave; diventato un costruttore, iniziando la produzione di moto di serie. Non aveva un vero e proprio stabilimento, ma faceva realizzare i motori da due officine bolognesi (Michelini e Rocca). A Milano disponeva di un capannone di assemblaggio in prossimit&agrave; di via Novara, del magazzino ricambi e degli uffici commerciali, in Corso Vercelli. Dopo i trionfi iniziali, per alcuni anni la Mondial si &egrave; defilata dal Mondiale, concentrandosi sulle allora popolarissime gare nazionali su circuiti cittadini e sulle lunghe distanze (Milano-Taranto e Motogiro). Ai Gran Premi &egrave; tornata a correre nel 1956, per impegnarsi a fondo l&rsquo;anno successivo, nel quale ha conquistato il titolo iridato sia nella 125 che nella 250 con moto di nuova progettazione. Lo schema fondamentale, per&ograve;, era rimasto quello indicato da Drusiani nel 1948, con due alberi a camme in testa e due valvole fortemente inclinate tra loro e richiamate da molle a spillo. La trasmissione primaria era a coppia di ingranaggi e il cambio del tipo con presa diretta (entrata e uscita del moto coassiali).Di conseguenza, l&rsquo;albero a gomito girava all&rsquo;indietro. Altre caratteristiche sono cambiate nel corso degli anni. Il basamento inizialmente era a tunnel ma dal 1956 circa (quando la lubrificazione &egrave; diventata a carter umido) ne &egrave; stato adottato uno nuovo in due parti simmetriche unite secondo un piano verticale. All&rsquo;estremit&agrave; sinistra dell&rsquo;albero a gomito fino al 1955- 56 vi &egrave; stato un grosso volano esterno alla camera di manovella che veniva coperto da un coperchio laterale dalla tipica conformazione, in seguito abolito. Il motore di 125 cm3 &egrave; sempre stato sottoquadro, con un alesaggio di 53 mm abbinato a una corsa di 56 mm (56,4 mm nell&rsquo;ultima versione), mentre il 250 era fortemente superquadro, dato che alla stessa corsa abbinava un alesaggio di ben 75 mm. &nbsp; Le Mondial da GP   Nel 1957 le Mondial da GP sono state realizzate in due versioni: a quella con il classico comando della distribuzione ad alberello e coppie coniche se ne &egrave; aggiunta infatti una con comando a cascata di ingranaggi, sempre sul lato destro. Per quanto riguarda le prestazioni, la prima 125 erogava attorno a 12 cavalli a 9000 giri/ min, portati a 15 a 10.000 alla fine del 1951. Nel 1957 la potenza della 125 era dell&rsquo;ordine di 18 cavalli a 12.000giri/min (144 CV/litro; 22,56 m/s). Il motore di 250 cm3 erogava 28-29 cavalli a 11.000 giri/min. La sua potenza specifica era quindi di 112-116 CV/litro e la velocit&agrave; media del pistone di 20,7 m/s. Le prime Mondial da GP avevano una ciclistica che poteva sembrare un po&rsquo; arcaica, con forcella a parallelogramma, sospensione posteriore a ruota guidata e telaio in tubi dal disegno che non si poteva certo definire avanzato. Eppure funzionava come si deve e ha consentito alla Casa italiana di conquistare tre Mondiali. Nel 1957, invece, la ciclistica prevedeva un moderno telaio a doppia culla continua ed efficienti sospensioni telescopiche. Il reparto corse di via Milazzo &egrave; stato una autentica fucina di talenti. Drusiani inizialmente era affiancato, a livello di ufficio tecnico, da Renato Sceti e da Marcello Laurenti, grande modellista e straordinario disegnatore/progettista. Pure i meccanici che realizzavano i pezzi e provvedevano al montaggio dei motori erano di elevato livello. Spiccava su tutti Nerio Biavati, che contribuiva direttamente alle principali decisioni tecniche. Dopo il ritiro della Mondial &egrave; passato al reparto corse Morini dove &egrave; risultato determinante nello sviluppo della 250 bialbero da Gran Premio. C&rsquo;erano altri uomini formidabili ma in questa sede mi limiter&ograve; a ricordare Omer Melotti, che poi &egrave; andato al reparto corse Benelli a lavorare sulla quattro cilindri, e Renato Armaroli, passato in seguito alla Ducati e alla Mototrans, prima di approdare al settore dei motori automobilistici da competizione. La Mondial si &egrave; ritirata dall&rsquo;attivit&agrave; agonistica ai massimi livelli alla fine del 1957. Tecnica: Gilera 500, la Regina degli anni Cinquanta       

Un progettista illuminato, tecnici eccezionali e un piccolo reparto corse nato da un&rsquo;azienda che realizzava trasmissioni per motocarri furono gli ingredienti del successo&nbsp;

Tecnica: Mondial, un'officina che arrivò sul tetto del mondo

        Nella storia del nostro sport forse nessuna moto ha lasciato un segno paragonabile a quello marchiato dalla Gilera 500 quattro cilindri che domin&ograve; la sua classe per quasi tutti gli anni Cinquanta. Quattro in linea   Questa straordinaria realizzazione della Casa di Arcore ha mostrato una strada che viene tutt&rsquo;ora seguita e con eccellenti risultati (basti pensare alle moto che hanno conquistato gli ultimi due mondiali nella classe regina, la MotoGP). Dopo la sua comparsa, altri hanno via via seguito la stessa strada. Lo schema a quattro cilindri in linea trasversale si &egrave; infatti imposto anche sulle moto di serie sin dai primi anni Settanta. Dall&rsquo;inizio del XX secolo agli anni Venti diverse Case hanno costruito moto quadricilindriche con un&rsquo;architettura in linea longitudinale. L&rsquo;interasse era mostruoso e il raffreddamento dei cilindri posteriori pressoch&eacute; inesistente. L&rsquo;idea di mantenere una struttura in linea disponendo per&ograve; trasversalmente la bancata dei cilindri venne a due giovani che si erano da poco laureati a Roma, Carlo Gianini e Piero Remor. La loro prima moto, raffreddata ad aria e con distribuzione monoalbero, fu la GRB, costruita in un unico esemplare attorno alla met&agrave; degli anni Venti. In seguito gli stessi tecnici realizzarono, con schema analogo, la OPRA 500. Un notevole salto evolutivo si ebbe con la famosa CNA Rondine, bialbero sovralimentata e con raffreddamento ad acqua, progettata nei primi anni Trenta da Carlo Gianini e costruita, pare, in sei esemplari. Alcune vicissitudini portarono alla cessione dell&rsquo;azienda al gruppo Caproni che cedette la divisione moto alla Gilera nel 1936. Nacque cos&igrave; la 500 che conquist&ograve; il titolo europeo (nel 1939) pi&ugrave; svariati record di velocit&agrave;, tra cui spiccava l&rsquo;assoluto sul chilometro lanciato del 1937, con la moto condotta da Piero Taruffi. La Gilera quattro cilindri bialbero raffreddata ad aria che spopol&ograve; a lungo nei Gran Premi, imponendosi in ben sei campionati mondiali, venne progettata da Piero Remor all&rsquo;inizio del 1947 e debutt&ograve; in gara l&rsquo;anno successivo. Il suo punto di forza era il motore che, con un alesaggio di 52 mm e una corsa di 58 mm, disponeva di vari cavalli in pi&ugrave; rispetto alla concorrenza inglese, costituita dalla monocilindrica Norton e dalla bicilindrica AJS. Le due valvole di ogni cilindro erano inclinate tra loro di ben 100&deg;. &nbsp; Elevato rapporto di compressione   Questo angolo era stato scelto perch&eacute; consentiva di installare valvole molto grandi in relazione all&rsquo;alesaggio e permetteva all&rsquo;aria di raggiungere agevolmente la parte centrale della testa. Poich&eacute; il rapporto di compressione era elevato (cosa indispensabile per raggiungere alte potenze) le camere di combustione avevano per&ograve; una forma a scorza d&rsquo;arancia, dovuta alla forte bombatura dei pistoni. Le candele non si affacciavano direttamente nelle camere (tra i funghi valvola non c&rsquo;era spazio) ma comunicavano con esse attraverso piccole aperture. Questo rendeva necessario un anticipo di accensione di oltre 60&deg;. Le teste sperimentali con candele inclinate direttamente esposte ai gas richiedevano un anticipo di 5&ndash;10&deg; minore ma risultavano pi&ugrave; critiche in fatto di resistenza alla detonazione. Gli eccentrici dei due alberi a camme, azionati da una cascata di ingranaggi collocata centralmente, agivano su punterie a bicchiere di rilevante diametro, con grosse pastiglie calibrate per la regolazione del gioco. La testa, il blocco dei cilindri e la parte superiore del basamento erano costituiti da un&rsquo;unica fusione in una le ga di alluminio contenente il 3% di rame e minori quantit&agrave; di ferro, magnesio e nickel (Duralite). L&rsquo;adozione di questa soluzione tecnica diede per&ograve; notevoli problemi. Si trattava di un pezzo di notevole complessit&agrave; geometrica e i difetti di fusione erano tutt&rsquo;altro che rari. Proprio l&rsquo;insistenza del progettista nel voler impiegare questo schema &ldquo;monoblocco&rdquo; fu una delle cause di attrito con Giuseppe Gilera e uno dei motivi del passaggio di Remor alla MV Agusta, alla fine del 1949. &nbsp; L'evoluzione del motore   La profonda rivisitazione del motore, avvenuta nel 1950 a opera di Sandro Colombo e di Franco Passoni, port&ograve; alla adozione di cilindri singoli e di una testa amovibile, realizzata in due parti che si univano in corrispondenza del passaggio della cascata di ingranaggi di comando della distribuzione. Venne inoltre cambiato il materiale, passando a una lega di alluminio contenente il 10% di rame e l&rsquo;1,5% di nickel, appositamente sviluppata dall&rsquo;Istituto Sperimentale dei Metalli Leggeri, che dopo trattamento termico poteva raggiungere una durezza di oltre 140 punti Brinell. Ci&ograve; consentiva di eliminare le sedi riportate facendo lavorare le valvole direttamente sul materiale della testa. Di conseguenza si potevano adottare valvole leggermente pi&ugrave; grandi (e meglio raffreddate). Nel corso degli anni il diametro delle valvole &egrave; aumentato fino ad arrivare a 34 mm alla aspirazione e a 33 mm allo scarico. I cilindri, inizialmente dotati di canne in acciaio, passarono poi a quelle in ghisa. Nel 1954 arrivarono quelli con canna cromata forniti dalla tedesca KS, che produceva anche i pistoni. Inizialmente questi ultimi venivano realizzati internamente, mediante lavorazione meccanica, partendo dalla barra. Poi vennero impiegati i Borgo. Le bielle in acciaio da cementazione inizialmente avevano la testa munita di cappello e venivano montate su un albero a gomiti monolitico. Poi quest&rsquo;ultimo divenne composito e le bielle, che lavoravano su rullini ingabbiati, diventarono in un sol pezzo. L&rsquo;albero a gomiti poggiava su sei supporti con cappello amovibile, dotati di cuscinetti volventi (i due esterni erano a sfere e gli altri a rulli). La trasmissione primaria era costituita da due ingranaggi, dei quali il conduttore era ricavato di pezzo con un volantino dell&rsquo;albero a gomiti, e il cambio era del tipo con presa diretta (manicotto di uscita coassiale con l&rsquo;albero di entrata). Si aveva quindi una sola inversione del moto e l&rsquo;albero a gomiti ruotava perci&ograve; all&rsquo;indietro, in senso opposto a quello in cui giravano le ruote. Il basamento era costituito da una grossa fusione principale sopra la quale veniva fissato il semibasamento superiore, ridotto a una sorta di vero e proprio coperchio della camera di manovella, nel quale erano ricavati i supporti di banco e sul quale erano montati i cilindri. La lubrificazione era a carter umido, con pompa a ingranaggi immersa nella coppa. Inizialmente il motore erogava circa 48 cavalli, passati a 50 a 9000 giri/min nell&rsquo;anno in cui venne impiegata la nuova testa in due parti. Nel 1953 la potenza era di 60 CV a 10.250 giri/min e nella versione finale di 65 CV a 10.500 giri/min. La Gilera si ritir&ograve; dall&rsquo;attivit&agrave; agonistica al massimo livello nel 1957. Negli anni Sessanta la 500 scese ancora in pista in pi&ugrave; occasioni ma con risultati non paragonabili a quelli del decennio precedente. Ormai la Casa aveva perso entusiasmo, lo sviluppo era fermo da tempo e gli anni d&rsquo;oro erano passati&hellip; MotoGP: la sequenza del volo shock di Marc Marquez       

Progettata da Pietro Remor nel 1947, debutt&ograve; l'anno seguente, dominando il decennio successivo con ben sei titoli

Tecnica: Gilera 500, la Regina degli anni Cinquanta

Tutti nuovamente in pista in Andalusia, con alcuni piloti già proiettati verso il futuro

Selle, carene e molto altro: le prime novità dai test MotoGP di Jerez

        Come accaduto per altri componenti, anche nel caso dei freni per arrivare alla situazione attuale &egrave; stata necessaria una lunga e continua evoluzione. Talvolta &egrave; avvenuta in maniera graduale ma in certe occasioni si &egrave; svolta con autentici salti epocali. Il pi&ugrave; clamoroso ha avuto luogo molti anni fa con il passaggio dai tamburi ai dischi, ma anche in seguito ce ne sono stati altri che, se non di pari portata, sono stati comunque assai importanti. Tecnica: i segreti della Yamaha M1 campione del mondo &nbsp; Diametri   Gli aumenti dei diametri dei dischi si sono verificati un poco alla volta, raggiungendo a un certo punto valori che poi sono rimasti pi&ugrave; o meno invariati a lungo. Si &egrave; trattato di un&rsquo;evoluzione graduale, che ha avuto luogo a piccoli passi. Considerevoli innovazioni hanno comunque interessato tutti i componenti dei sistemi frenanti, ovvero oltre ai dischi anche le pinze e le pompe (alle quali si pensa piuttosto poco ma che hanno invece un&rsquo;importanza assai rilevante). Ma andiamo con ordine, sempre rimanendo nell&rsquo;ambito dei freni delle moto da competizione e con specifico riferimento alla classe regina. I dischi sono la parte rotante dei freni e quindi non soltanto rientrano nelle masse non sospese ma influenzano gli effetti giroscopici; il loro diametro e il loro peso hanno quindi non trascurabili conseguenze per quanto riguarda la maneggevolezza della moto. Inizialmente si &egrave; anche cercato di ridurre la loro massa realizzandoli in lega di alluminio con riporto superficiale applicato per spruzzatura termica, ma le elevate prestazioni delle moto causavano il raggiungimento di temperature eccessive e ci&ograve; ha rapidamente posto fine al loro utilizzo. L&rsquo;alluminio infatti ha un elevato coefficiente di dilatazione termica, al contrario del rivestimento superficiale, e al di sopra dei 350 cm&sup3; diventa decisamente troppo tenero. In seguito gli italiani hanno a lungo realizzato dischi in ghisa mentre i giapponesi hanno subito imboccato la strada dell&rsquo;acciaio, poi rivelatasi vincente. &nbsp; Freni in carbonio   Alla fine degli anni Ottanta ha fatto la sua comparsa il carbonio, che in breve tempo si &egrave; imposto universalmente. I dischi in carbonio sono notevolmente pi&ugrave; leggeri di quelli in acciaio e hanno un ottimo coefficiente di attrito, che rimane pressoch&eacute; inalterato anche a temperature elevate. Devono lavorare tra i 200 e gli 800&deg; C. Fino a poco tempo fa non erano adatti all&rsquo;uso sul bagnato. Di recente, per&ograve;, la temperatura minima di impiego &egrave; scesa, portata a 200&deg; C e questa limitazione &egrave; stata superata. Per diversi anni i dischi sono stati rigidi, e talvolta venivano realizzati addirittura in un sol pezzo con la campana di fissaggio al mozzo della ruota. Poi sono arrivati quelli flottanti, nei quali la fascia frenante non &egrave; vincolata saldamente alla campana ma rispetto a essa presenta una piccola possibilit&agrave; di movimento assiale, e si sono imposti rapidamente. Oggi le MotoGP impiegano dischi in carbonio che, a seconda delle esigenze specifiche, ovvero del tipo di circuito e magari anche delle preferenze del pilota, possono avere un diametro di 320, 340 o 355 mm. Lo spessore in genere &egrave; di 8 mm. La potenza dei freni moderni &egrave; elevatissima e la quantit&agrave; di calore da dissipare imponente. Un aumento del diametro del disco consente non soltanto di migliorare la frenata ma anche di evitare che la temperatura possa raggiungere valori eccessivi. Questo spiega perch&eacute; si sia arrivati a 355 mm. Quando hanno iniziato ad affermarsi i freni a disco le pinze erano a due pistoni opposti e venivano collocate indifferentemente davanti o dietro gli steli della forcella. Nel primo caso godevano di un miglior raffreddamento ma nel secondo la loro massa si veniva a trovare pi&ugrave; vicina all&rsquo;asse di sterzo. Dal 1983 la disposizione posteriore si &egrave; imposta definitivamente, nella classe regina (alla quale facciamo sempre riferimento). &Egrave; interessante ricordare che negli anni Settanta la Yamaha ha impiegato diffusamente pinze in ghisa. Con quelle di alluminio la frenata era peggiore e la leva &ldquo;spugnosa&rdquo;. Questo &egrave; dovuto al fatto che il disegno e il dimensionamento era eguale in entrambi i casi e che tra i due materiali vi &egrave; notevole differenza a livello di modulo elastico. &nbsp; Alluminio  Poi la pinza &egrave; stata riprogettata e la Casa &egrave; passata all&rsquo;alluminio, come le altre. Nella prima met&agrave; degli anni Ottanta lo schema a quattro pistoni opposti si &egrave; affermato universalmente. Le pastiglie devono rimanere perfettamente parallele alla fascia frenante in qualunque condizione di funzionamento. Uno scostamento da questa situazione ottimale causa usura anomala del materiale d&rsquo;attrito delle pastiglie e un notevole peggioramento della frenata. Quando gli attacchi alla forcella sono di tipo tradizionale il corpo della pinza &egrave; dotato di due appendici con fori assiali per le viti di fissaggio. La mezzeria della pinza per&ograve; non giace sullo stesso piano degli attacchi. Di conseguenza si crea una coppia quando, durante la frenata, il disco tende a trascinare le pastiglie (e con esse la pinza). Questa sollecitazione a torsione pu&ograve; portare le pastiglie fuori allineamento rispetto al disco. Molto meglio un sistema di fissaggio alla forcella pi&ugrave; rigido. Per questo sono state sviluppate dalla Brembo le pinze con attacco radiale, subito adottate da tutti i costruttori delle moto della classe regina. Un altro notevole passo avanti in questo settore, sempre dovuto all&rsquo;azienda bergamasca, si &egrave; avuto con le pinze monoblocco (e non pi&ugrave; costituite da due parti unite mediante viti), oggi impiegate da tutte le MotoGP. La rigidezza &egrave; migliore e si ha anche un lieve vantaggio di peso rispetto alla soluzione convenzionale. Di recente per migliorare lo smaltimento del calore le pinze da competizione sono state dotate di piccole alette che aumentano la superficie di scambio termico con l&rsquo;aria. &nbsp; Evoluzione Brembo   L&rsquo;affermazione delle pompe radiali, per le quali la Brembo aveva ottenuto un brevetto gi&agrave; nel 1985, &egrave; stata un significativo passo in avanti in questo settore. Pi&ugrave; compatte e razionali (la forza esercitata dalla mano &egrave; parallela a quella esercitata sul pistoncino) queste pompe si sono poi evolute in quelle che consentono la regolazione dell&rsquo;interasse. L&rsquo;&rdquo;accordatura&rdquo; tra la pompa e la pinza ha un&rsquo;importanza fondamentale ai fini della modulabilit&agrave;, della prontezza di risposta e del feeling. Il rapporto tra il diametro del pistoncino della pompa e quello dei pistoni della pinza influenza sia l&rsquo;incremento della forza (dalla mano alla pinza) che la corsa della leva. Le pi&ugrave; recenti RCS della Brembo (parliamo sempre di questa azienda perch&eacute; da tempo domina la scena delle moto da GP) consentono una regolazione fine delle modalit&agrave; di intervento dei freni grazie alla possibilit&agrave; di variare l&rsquo;interasse e la corsa a vuoto. Tra le novit&agrave; degli ultimi decenni va anche ricordata la pompa pollice che, posta sul semimanubrio sinistro, consente di azionare manualmente il freno posteriore. Nata negli anni Novanta per Mick Doohan, che in seguito a un incidente non poteva pi&ugrave; azionare il freno con il pedale, oggi viene impiegata da numerosi piloti pi&ugrave; che altro per effettuare lievi correzioni della traiettoria e per regolare in qualche misura la trazione. La versione push and pull pu&ograve; essere azionata sia con il pollice che con l&rsquo;indice. MotoGP, Ducati e Yamaha: esame di riparazione a Mandalika       

Un processo graduale ma che ha avuto salti epocali: il principale &egrave; stato il passaggio dai tamburi ai dischi

Tecnica: l'evoluzione degli impianti frenanti

        La moto con la quale Fabio Quartararo ha conquistato il titolo mondiale 2021 nella classe regina &egrave; frutto di una lunga evoluzione, che ha comportato numerose rivisitazioni e alcune riprogettazioni del motore; gli schemi tecnici adottati inizialmente non sono per&ograve; mai stati stravolti. Anzi, sono rimasti praticamente inalterati. MotoGP, Ducati e Yamaha: esame di riparazione a Mandalika &nbsp; Un viaggio nella storia della M1   Quando un costruttore parla della sua nuova moto per la stagione successiva, ben di rado si tratta di un modello completamente inedito, ovvero progettato ex novo. In ogni caso, i dati forniti dalle Case da molti anni a questa parte sono pochissimi. Non vengono comunicati neanche l&rsquo;alesaggio e la corsa, e di norma per quanto riguarda le prestazioni si parla genericamente di &ldquo;oltre 240&rdquo; o di &ldquo;oltre 250&rdquo; cavalli. Qualcosa di pi&ugrave; si riesce comunque a sapere e qualcos&rsquo;altro &egrave; abbastanza evidente. &Egrave; inoltre possibile effettuare qualche calcolo grazie al quale si possono avere informazioni interessanti relative ad alcuni parametri e a qualche dimensionamento. Per fare un esempio, oggi il regolamento indica in 81 mm il massimo valore dell&rsquo;alesaggio, che certamente adottano tutti dato che per avere un elevato rendimento volumetrico a regimi molto elevati occor re impiegare valvole molto grandi. Una volta fissato l&rsquo;alesaggio &egrave; facile calcolare la corsa. La Yamaha YZR-M1 ha iniziato la sua carriera nel 2002, primo anno della MotoGP, per la quale la FIM indicava una cilindrata massima di 990 cm3 . La ciclistica era in pratica quella della precedente 500 GP mentre il motore era assolutamente inedito. Si trattava di un quadricilindrico in linea con distribuzione bialbero comandata da un sistema misto, ossia a catena pi&ugrave; ingranaggi, collocati sul lato destro. Le valvole erano cinque per cilindro. Il basamento era ricavato dal pieno, cosa che consentiva di impiegare una lega di alluminio dalle caratteristiche superiori rispetto a quelle utilizzate per le fusioni. Inoltre l&rsquo;effettuazione di eventuali modifiche era rapida e semplice. Pare che per realizzare un basamento fosse necessaria una settantina di ore di lavorazioni. &nbsp; La svolta Yamaha con Furusawa  Nello sviluppare questo motore la Casa ha puntato inizialmente pi&ugrave; sulla coppia, ovvero sull&rsquo;andamento dell&rsquo;erogazione, che sulla potenza massima, che pare fosse dell&rsquo;ordine di 210 CV a 14.500 giri/min. La concorrenza andava pi&ugrave; forte e per sistemare le cose a met&agrave; 2003 &egrave; stato nominato direttore tecnico Masao Furusawa. Alla fine della stagione &egrave; arrivato Valentino Rossi che ha potuto subito provare due moto con testa a cinque valvole e altre due con testa a quattro. Per ciascuna testa si avevano due versioni di motore, rispettivamente con un albero a gomiti con perni di biella a 180&deg; e con uno avente i perni a 90&deg;. Rossi ha optato per il motore con testa a quattro valvole e albero a 90&deg; e per la Yamaha MotoGP &egrave; iniziata una nuova era. Il comando della distribuzione rimaneva laterale e misto: si trattava del motore precedente modificato a livello di testa e di albero a gomiti. Le misure di alesaggio e corsa venivano indicate da alcune fonti attendibili in 84 x 44,6 mm. Il nuovo quadricilindrico &egrave; arrivato nel 2005. Il comando della distribuzione era a ingranaggi ed era piazzato centralmente, non in mezzo ai cilindri, ma dietro di essi (per limitare la larghezza del motore) e prendeva il moto non dall&rsquo;albero a gomiti ma dall&rsquo;albero ausiliario che portava il moto alla trasmissione primaria. Come nel motore precedente l&rsquo;albero a gomiti ruotava all&rsquo;indietro. Queste soluzioni sono state adottate dalla Yamaha in tutte le MotoGP successive. La potenza pare fosse di 240 CV a 16.000 giri/min e la pressione media effettiva (PME) era pertanto di circa 13,2 bar. L'evoluzione del motore Yamaha   Per la stagione 2007 la cilindrata &egrave; stata portata a 800 cm3 ed &egrave; stato quindi necessario realizzare un nuovo motore, di identico schema. Pi&ugrave; o meno nello stesso periodo &egrave; avvenuto il passaggio dalle molle delle valvole meccaniche a quelle pneumatiche. Nel 2008 il motore erogava circa 220 cavalli a un regime dell&rsquo;ordine di 18.000 giri/min e la PME era quindi dell&rsquo;ordine di 13,5 bar. Nel 2012 la cilindrata delle MotoGP &egrave; stata riportata a 1000 cm3 ed &egrave; stato fissato un alesaggio massimo di 81 mm. &Egrave; cos&igrave; iniziata l&rsquo;ultima fase della carriera della M1, che ha subito negli anni successivi rivisitazioni che hanno interessa to fondamentalmente la ciclistica, con la comparsa di svariati telai differenti, l&rsquo;erogazione e il relativo sistema di gestione. Le misure caratteristiche del motore odierno sono dunque 81 x 48,5 mm e la potenza, indicata dalla casa in &ldquo;oltre 240 cavalli&rdquo;, dovrebbe essere dell&rsquo;ordine di 260 CV a circa 16.500 giri/min, con una PME di circa 13,9 bar e una velocit&agrave; media dei pistoni di 26,7 metri al secondo. Le valvole di aspirazione, per le quali si parla non di lega di titanio ma di alluminiuro di titanio (composto intermetallico), dovrebbero avere un diametro di 34,5-35 mm, cio&egrave; il massimo che si pu&ograve; praticamente installare con l&rsquo;alesaggio disponibile. Gli alberi a camme azionano le valvole agendo su bilancieri a dito dotati di riporto DLC. Il blocco cilindri ha le canne integrali, all&rsquo;interno delle quali sono alloggiati pistoni forgiati in lega di alluminio al rame che vengono collegati all&rsquo;albero a gomiti da bielle in lega di titanio. La lunghezza di queste ultime non &egrave; nota ma dovrebbe essere leggermente superiore a due volte la corsa. &nbsp; Lubrificazione e ciclistica  &Egrave; noto che i motoristi vorrebbero bielle lunghe, principalmente per limitare le perdite per attrito, molto elevate agli alti regimi, mentre i telaisti vorrebbero bielle corte per ridurre l&rsquo;ingombro verticale del motore e quindi per limitare il suo peso e migliorare la centralizzazione delle masse. La profonda coppa visibile sotto il motore &egrave; in realt&agrave; il serbatoio dell&rsquo;olio, ben separato dalle camere di manovella, che vengono mantenute in depressione da una pompa di recupero di portata esuberante. Per quanto riguarda la mandata, l&rsquo;olio destinato a lubrificare i cuscinetti di biella entra nell&rsquo;albero da due canalizzazioni assiali, praticate nei perni di biella alle estremit&agrave; opposte dell&rsquo;albero a gomiti. I due alberi del cambio sono sovrapposti, il che consente di contenere la lunghezza del motore. Il telaio &egrave; sempre del tipo a due travi portanti superiori, di cospicua sezione, realizzato in lamiera di alluminio con spessore variabile in funzione della rigidezza che si vuole ottenere nelle varie zone. Le sospensioni &Ouml;hlins sono, come ovvio, allo stato dell&rsquo;arte, come pure il sistema frenante, fornito dalla Brembo. I due dischi anteriori in carbonio hanno un diametro che a seconda dei circuiti pu&ograve; essere di 320, 340 o 355 mm. Moto2: senza una Kalex &egrave; sempre pi&ugrave; difficile arrivare al top&nbsp;       

La moto giapponese &egrave; frutto di una lunga evoluzione, senza rivoluzioni, che ha trovato nel tempo la sua identit&agrave;

Tecnica: i segreti della Yamaha M1 Campione del Mondo

        Qualcosa &egrave; cambiato, per sempre, dopo i primi test di Sepang. Dopo diversi anni dalla grande rivoluzione regolamentare che aveva introdotto numerose limitazioni sui motori e sull&rsquo;elettronica, la MotoGP &egrave; davvero cambiata, tornando a essere una categoria molto sofisticata e costosa ma in modo diverso. MotoGP: tutte le novit&agrave; portate in pista dalla GP22 Cambiamento   La massima espressione tecnologica del racing a due ruote, infatti, &egrave; stata a lungo caratterizzata dal dominio dei motoristi e dei telaisti. Honda (come Ducati) ha sempre dato la precedenza alla potenza; Yamaha (come Suzuki) alla guidabilit&agrave;. Il primo cambiamento ha riguardato l&rsquo;introduzione di gestioni elettroniche molto complesse; i costi sono lievitati e soltanto dopo una lunga guerra politica sono stati ridotti, attraverso varie modifiche regolamentari (elettronica unica, contingentamento dei motori, fornitore unico di pneumatici, eccetera). La MotoGP era cambiata per sempre ma molti erano rimasti ancorati al vecchio sistema e avevano continuato a ragionare con logiche obsolete, andando a lavorare sui dettagli, dato che le leggi non permettevano pi&ugrave; di dare libero sfogo alla fantasia. Tutti motori quattro cilindri, a V o in linea, e, per tutti, problemi pi&ugrave; o meno simili, causati dalla ricerca della gomma con la mescola meno penalizzante (comunque, non certo ideale) o dall&rsquo;impossibilit&agrave; di intervenire sui parametri dell&rsquo;elettronica necessari per fare funzionare in modo pi&ugrave; efficiente il controllo di trazione e/o l&rsquo;anti-impennamento. Non riuscendo a trovare le soluzioni ai problemi attraverso i vecchi sistemi, gli ingegneri hanno iniziato a cercare strade alternative e bisogna dire che Ducati, da questo punto di vista, &egrave; stata la Casa pi&ugrave; coraggiosa, quella che ha innovato di pi&ugrave;. Ducati, infatti, ha avviato i primi studi sull&rsquo;aerodinamica, portandoli avanti (utilizzando budget di altre aree) anche quando i vantaggi delle ali sembravano pi&ugrave; filosofici che reali. In seguito, &egrave; stato introdotto il sistema che permetteva di variare l&rsquo;altezza del retrotreno in partenza, incrementando l&rsquo;accelerazione tramite un abbassamento del baricentro; sistema diventato poi dinamico e oggi usato (non soltanto da Ducati) anche in qualifica e in gara, in uscita da determinate curve. In sostanza, il cambio regolamentare e le gomme Michelin hanno stravolto il modo di progettare una MotoGP e sembra che oggi Ducati abbia un vantaggio, che la concorrenza stafaticosamente cercando di colmare. &Egrave; vero, il Mondiale &egrave; stato vinto da Fabio Quartararo in sella alla Yamaha ma gli altri piloti che guidano la M1 faticano molto a essere competitivi; tutti i piloti in sella alle Desmosedici, invece, sono veloci. Rivoluzione   Oggi &egrave; corretto parlare di rivoluzione perch&eacute;, in passato, ipotizzare di usare un sistema per cambiare meccanicamente (quindi tramite l&rsquo;azione del pilota) l&rsquo;altezza della moto (e, di conseguenza, le quote ciclistiche) era qualcosa che non sfiorava neppure la mente di un ingegnere e veniva mal visto dai piloti, che invece, attualmente, non vogliono pi&ugrave; fare a meno delle ali e degli abbassatori, senza i quali, probabilmente, le attuali MotoGP non funzionerebbero. Basta osservarle per capirlo. Soprattutto su Ducati, su KTM e, in forma leggermente minore su Honda, gran parte del peso &egrave; stato spostato verso il posteriore, dove si trova anche una grossa porzione del serbatoio, centraline e cablaggi, nascosti nei codini, che sono diventate delle &ldquo;scatole&rdquo;; tutto questo &egrave; necessario per fare funzionare al meglio le gomme realizzate da Michelin. Anche Yamaha e Suzuki sono andate in quella direzione ma, a causa di un&rsquo;impostazione tecnica diversa rispetto a quella delle moto V4, non hanno potuto estremizzare questa scelta e parrebbe questo uno dei motivi per cui la M1 e la GSX-RR hanno problemi di usura delle loro gomme posteriori, le quali, probabilmente, in alcune condizioni faticano a lavorare alla corretta temperatura d&rsquo;esercizio. In pratica, &egrave; cambiato tutto rispetto al passato, quando le MotoGP si &ldquo;guidavano con l&rsquo;avantreno&rdquo;. Moto pi&ugrave; "fisiche"   Oggi, grazie all&rsquo;aerodinamica (che genera un carico importante sulla ruota anteriore), la nuova configurazione garantisce anche una buona stabilit&agrave;; la frenata &egrave; diventata determinante, perch&eacute;, sempre grazie alle ali e agli abbassatori, &egrave; possibile staccare pi&ugrave; tardi, sfruttando di pi&ugrave; la potenza dell&rsquo;impianto frenante per ridurre il tempo della decelerazione, arrivando pi&ugrave; in fretta alla fase di accelerazione. Una guida molto &ldquo;fisica&rdquo;, che impone una preparazione atletica notevole. Le accelerazioni sono diventate &ldquo;brutali&rdquo; pertanto, per ridurre al minimo l&rsquo;intervento dell&rsquo;elettronica (sfruttando pi&ugrave; potenza) gli ingegneri hanno introdotto gli abbassatori dinamici al posteriore, che, in sostanza, hanno il compito di abbassare il baricentro. Anche da questo punto di vista, il sistema Ducati appare il pi&ugrave; evoluto, in quanto sembra sia possibile &ldquo;prenotare&rdquo; l&rsquo;abbassamento in rettilineo. A Sepang potremmo non avere visto tutti i segreti delle moto 2022. Infatti, a breve, potrebbero debuttare abbassatori dinamici anche all&rsquo;avantreno e aerodinamiche complesse, caratterizzate da un&rsquo;avanzata gestione dei flussi all&rsquo;interno delle carene... MotoGP: la Ducati studia un nuovo abbassatore, gli avversari non ci stanno       

Anche a causa del regolamento e dell'evoluzione delle gomme, &egrave; cambiato il modo di progettare i prototipi della top class: gli ingegneri lavorano moltissimo sulla variazione dinamica delle altezze, ma non solo

Tecnica: com'è cambiato il modo di progettare una MotoGP

        Dopo i primi test invernali sembra evidente come l&rsquo;aerodinamica sia ormai una delle principali linee di sviluppo delle MotoGP. Quali sono i vantaggi prestazionali principali? Innanzitutto sgombriamo il campo da equivoci; qui parliamo di aerodinamica &ldquo;esterna&rdquo; fatta da ali e appendici. Esiste infatti una componente di aerodinamica &ldquo;interna&rdquo; (prese d&rsquo;aria motore, prese di raffreddamento freni, radiatori, eccetera) che sono meno visibili ma che facevano comunque parte del pacchetto di sviluppo di una moto e che sono anch&rsquo;essi fondamentali per le prestazioni. Ci&ograve; detto, &egrave; evidente come negli ultimi anni, da quando Ducati prima e Yamaha poi hanno cominciato a introdurre le prime appendici alari &ldquo;esterne&rdquo;, quest&rsquo;ultime siano diventate ormai una componente fondamentale delle moto attuali e adottate ormai da tutti i costruttori, con filosofie leggermente diverse. Test Moto2, Pedro Acosta: "L'obiettivo del 2022? Dare tanto gas" Carico aerodinamico   In generale, le ali servono a generare un carico &ldquo;pregiato&rdquo;, in quanto non aggiunge massa al veicolo e porta un vantaggio netto in termini di grip. Le ali, quindi, servono in tutte quelle fasi dove conta l&rsquo;aderenza: in accelerazione, in staccata e, naturalmente, in curva. Inoltre, nelle moto le ali anteriori servono a bilanciare la coppia che tende a fare sollevare la ruota da terra, favorendo una maggiore accelerazione. Come ci si &egrave; arrivati e come mai cos&igrave; in ritardo rispetto alla F1? I motivi possono essere molteplici ma se ne possono identificare due principali, uno economico e uno tecnico, legati in qualche modo tra di loro. A livello economico, lo sviluppo e l&rsquo;ottimizzazione dell&rsquo;aerodinamica esterna prevede ingenti investimenti in termini d infrastrutture quali gallerie del vento e sistemi di simulazione e ore-uomo di personale altamente specializzato. I potenziali benefici devono quindi giustificare questo genere di investimento e nelle moto questo non era affatto scontato, per diversi motivi. Prova ne &egrave; che le prime versioni non erano gradite a tutti i piloti, anche se il continuo sviluppo portato avanti dai costruttori ha fatto ormai pendere la bilancia a favore dell&rsquo;aerodinamica&hellip; Anche l&rsquo;HRC (fino a oggi la Casa dove le ali sembravano meno spinte), con le nuove carene mostrate a Sepang, sembra avere deciso di investire davvero nell&rsquo;aerodinamica. Quali sono quindi le principali difficolt&agrave; tecniche? Ce ne sono diverse. &nbsp; Flussi   Innanzitutto le ali, per funzionare bene, hanno bisogno di essere esposte a un &ldquo;flusso indisturbato&rdquo; e avere il maggiore allungamento possibile. Bisogna quindi ricavare dei volumi dedicati nel veicolo. Nelle vetture di F1, pur con tutti i limiti regolamentari, &egrave; possibile, montando le ali in posizione avanzata, all&rsquo;anteriore vicino al terreno e a posteriore in posizione quanto pi&ugrave; possibile elevata per accedere a un flusso &ldquo;pulito&rdquo;. Inoltre si pu&ograve; sfruttare la superficie del fondo vettura per generare ulteriore carico. In una moto &egrave; tutto pi&ugrave; difficile per due motivi. In primo luogo il corpo del pilota, che non pu&ograve; essere &ldquo;scolpito&rdquo; dagli ingegneri e si muove in continuazione, &ldquo;sporcando&rdquo; il flusso nella parte posteriore, rendendo questa parte del veicolo poco o affatto utilizzabile ai fini aerodinamici (ci&ograve; rende per&ograve; i codini posteriori delle ottime &ldquo;scatole&rdquo; per contenere componenti di vario genere!). Oltre a ci&ograve;, a differenza delle auto, la moto cambia radicalmente inclinazione durante la percorrenza della curva. Questo rende difficilmente utilizzabili le ali ai fini di generare grip laterale. Ecco quindi spiegato perch&eacute; la maggior parte delle appendici sono concentrate nella parte anteriore, salvo il cosiddetto &ldquo;cucchiaio&rdquo;, inserito nella parte inferiore del forcellone. Le soluzioni adottate dai costruttori, a un occhio non esperto, appaiono molto diverse; alcune molto pi&ugrave; simili alle ali tradizionali viste in F1, altre invece, sembrano condotti o deviatori di flusso, pi&ugrave; che superfici alari. Come mai queste differenze? In parte incide il regolamento e le varie interpretazioni in merito al requisito di non avere superfici &ldquo;taglienti&rdquo; esposte, regola che ha contribuito alla comparsa di &ldquo;scatole chiuse&rdquo;. &nbsp; Filosofie diverse   Non tutti i mali vengono per nuocere: &egrave; noto che le paratie laterali aumentano l&rsquo;efficienza delle ali, soprattutto se poco allungate, come quelle delle moto. C&rsquo;&egrave; quindi chi punta su superfici molto &ldquo;scatolate&rdquo; e chi invece punta sulla massimizzazione delle superfici orizzontali e degli allungamenti, con l&rsquo;uso di flap simili alle ali anteriori della F1. Questo approccio sembra essere quello seguito da Yamaha e, in modo ancora pi&ugrave; pronunciato, da Aprilia. Le differenze sono in parte indice di uno sviluppo ancora &ldquo;incompleto&rdquo; in cui non &egrave; stato raggiunto &ldquo;l&rsquo;ottimo&rdquo;. Quando ci&ograve; avviene, tutti i veicoli si somigliano, come avviene oggi in Formula 1. Nelle moto c&rsquo;&egrave; la variabile aggiuntiva che &ldquo;l&rsquo;ottimo&rdquo; pu&ograve; essere definito in maniera diversa a seconda delle caratteristiche del sistema motore/telaio/pilota. Per alcuni pu&ograve; significare ottimizzare l&rsquo;aerodinamica per ottimizzare grip in accelerazione e staccata, puntando su un&rsquo;ala anteriore orizzontale e quanto pi&ugrave; possibile isolata da altre componenti. Per altri pu&ograve; significare trovare un compromesso tra prestazioni a moto dritta e prestazioni in curva, sfruttando l&rsquo;interazione tra elementi. Ci riferiamo alle molte appendici della Ducati, che resta la pi&ugrave; sofisticata. Non si era detto che le ali delle moto non funzionano bene in curva? In realt&agrave; in aerodinamica 1+1 non fa sempre 2&hellip; Se due superfici aerodinamiche isolate producono un certo carico, non &egrave; detto che, mettendole insieme, producano la somma dei due carichi isolati, anzi, non &egrave; quasi mai cos&igrave;! Ci&ograve; rende lo studio molto complesso ma offre anche delle opportunit&agrave;. Per esempio, a livello accademico &egrave; noto che &egrave; possibile sfruttare l&rsquo;interazione tra le gambe del pilota, la superficie della carena e le ali per &ldquo;disattivare&rdquo; alcune superfici e migliorare la prestazione in curva. Estremizzando questo concetto, si possono distribuire superfici con diverse inclinazioni che interagiscono tra loro e con il resto della moto (pilota incluso) in maniera differenziata, a seconda degli angoli di assetto. Questo approccio richiede uno studio pi&ugrave; complesso e una maggiore integrazione dell&rsquo;aerodinamica nel progetto dell&rsquo;intero veicolo. Oggi, tutto ci&ograve; &egrave; reso ancora pi&ugrave; complesso dalla notevole variazione di incidenza cui la moto, e quindi le superfici, sono sottoposte, a causa dei sistemi di regolazione di altezza introdotti recentemente. &nbsp; Quale futuro?   Proviamo a fare un breve riepilogo: nelle moto le ali possono essere piazzate principalmente nella parte anteriore perch&eacute; &egrave; l&rsquo;unica parte esposta a un flusso &ldquo;pulito&rdquo;. Le ali, per funzionare bene, dovrebbero essere il pi&ugrave; possibile &ldquo;affusolate&rdquo; (a parit&agrave; di superficie). Laddove non &egrave; possibile renderle affusolate, conviene &ldquo;inscatolarle&rdquo; per migliorarne l&rsquo;efficienza, oltre che per soddisfare i regolamenti. Inoltre, i pi&ugrave; furbi, possono inserire appendici orientate diversamente per ottimizzare il comportamento della moto a vari angoli di incidenza, approccio per&ograve; che richiede tempo e notevoli investimenti. C&rsquo;&egrave; quindi chi sceglie un approccio pi&ugrave; &ldquo;pulito&rdquo;, massimizzando i vantaggi in determinate fasi (Aprilia) e c&rsquo;&egrave; invece chi prova a percorrere la via pi&ugrave; dispendiosa (Ducati), via che magari concorrenti provano a seguire &ldquo;ispirandosi&rdquo; a quanto fatto dagli altri. Quindi l&rsquo;aerodinamica &egrave; entrata nella MotoGP per restare? Molto dipende dalle scelte politiche e regolamentari. Da un punto di vista prettamente tecnico, i costruttori, a partire dalle Case italiane, hanno dimostrato che i vantaggi prestazionali sono importanti. Questo significa che i team dovranno considerare l&rsquo;aerodinamica, laddove non avvenga gi&agrave;, come parte integrante dello sviluppo del veicolo e non soltanto come un&rsquo;appendice esterna da aggiungere all&rsquo;occorrenza. Ottime notizie per i tanti ragazzi che stanno iniziano un percorso di studi nel mondo dell&rsquo;aerodinamica! Prove Amarcord: la Ducati 1098R F08 di Troy Bayliss       

&Egrave; diventata fondamentale e sta cambiando il modo di progettare una MotoGP. In passato le ali erano degli &ldquo;accessori&rdquo;. Oggi, insieme a sistemi pi&ugrave; o meno visibili, sembrano nascere insieme al progetto

Tecnica: MotoGP, aerodinamica al potere

        Per oltre trent&rsquo;anni dire Ducati &egrave; equivalso a dire Taglioni, e viceversa. Nessun altro tecnico ha identificato cos&igrave; profondamente e cos&igrave; a lungo il suo nome con quello di una Casa motociclistica e nessun progettista ha mai realizzato moto dotate di una personalit&agrave; cos&igrave; spiccata e diversa da tutte le altre. Tecnica: MV Agusta 500, la fine dell'impero&nbsp; &nbsp; Una strada tracciata dalla... Mercedes   Giustamente famoso a livello mondiale (gli americani lo chiamavano &ldquo;Doctor T&rdquo;), al punto da diventare un&rsquo;autentica leggenda vivente, &egrave; considerato da molti il padre del desmo. Questo non &egrave; del tutto corretto perch&eacute; prima che Taglioni adottasse un sistema desmodromico di comando valvole sui suoi motori da competizione, nel 1956, la Mercedes aveva vinto due mondiali di Formula 1 con una distribuzione di questo tipo. Per&ograve; mentre la Casa tedesca non ha proseguito lungo questa strada, l&rsquo;ingegnere romagnolo ha fatto il contrario, sviluppando nuovi schemi e portando il desmo a un tale livello di perfezionamento da poterlo impiegare, unica Casa al Mondo, sui modelli di serie alla fine degli anni Sessanta. Se la Ducati &egrave; diventata famosa a livello internazionale &egrave; stato grazie a lui e ai suoi motori monoalbero ad alberello e coppie coniche, prima monocilindrici e poi bicilindrici, dall&rsquo;inconfondibile architettura a L. Poi il comando di distribuzione &egrave; diventato a cinghia dentata ed &egrave; cominciata l&rsquo;era Pantah. Ma andiamo con ordine per tracciare una concisa panoramica dei modelli pi&ugrave; importanti da lui realizzati. Un&rsquo;accurata selezione e una decisa sintesi sono state indispensabili, visto che di motori ne ha progettati ben oltre un centinaio&hellip; &nbsp; Una panoramica del lavoro svolto da Taglioni   Dopo essersi laureato all&rsquo;Universit&agrave; di Bologna poco dopo il termine della Seconda Guerra mondiale, Taglioni ha insegnato all&rsquo;istituto tecnico industriale di Imola per alcuni anni. Durante tale periodo ha avuto anche modo di progettare un motore da competizione di 75 cm3 (cilindrata assai importante nell&rsquo;Italia post-bellica) che successivamente ha venduto alla Ceccato che lo ha sviluppato, con la sua collaborazione, per poi utilizzarlo su una brillante motoleggera che ha ottenuto importanti successi. Nel 1952 Fabio Taglioni &egrave; entrato al reparto corse della Mondial, a Bologna, dove ha lavorato dapprima alla messa a punto delle 125 e delle 175 destinate alla Milano-Taranto e al Giro d&rsquo;Italia e quindi alla progettazione del famoso &ldquo;Bilancierino&rdquo; monoalbero e di una nuova testa bialbero. All&rsquo;inizio del maggio 1954 &egrave; entrato alla Ducati, intenzionata ad ammodernare la sua gamma di modelli (tutt&rsquo;altro che sportivi) e che aveva bisogno di migliorare la propria immagine. Il miglior modo era quello di realizzare moto vincenti in campo agonistico. Taglioni ha cos&igrave; realizzato la famosa Marianna con distribuzione monoalbero comandata da alberello e coppie coniche e con molle delle valvole scoperte, prima nella versione di 100 cm3 e poi di 125 (&egrave; stata realizzata anche una 175, ma soltanto in un numero ridotto di esemplari), che tra 1955 e 1957 hanno ottenuto ben nove vittorie di classe al Motogiro e alla Milano-Taranto. Per i GP, il progettista nato a Lugo ha realizzato nel 1956 un motore di 125 cm3 bialbero dal quale subito dopo ha sviluppato un nuovo modello con un&rsquo;inedita testa con distribuzione desmodromica. Per quest&rsquo;ultima ha ideato uno schema con tre alberi a camme, dei quali il centrale provvedeva al richiamo delle valvole agendo su bilancieri a due bracci disposti in posizione rovesciata rispetto a quella usuale. A parte la testa e la distribuzione, lo schema costruttivo era analogo alla Marianna. Nel 1958 nel GP Nazioni a Monza, nell&rsquo;ordine di arrivo della 125 le Ducati hanno occupato i primi cinque posti, il che dice qualcosa sulle loro prestazioni&hellip; &nbsp; Dalla Marianna alla Pantah   Dalla Marianna sono anche derivati, come disegno d&rsquo;assieme e soluzioni tecniche impiegate, i successivi monocilindrici monoalbero di serie, con molle delle valvole coperte, e che nel tempo sono stati costruiti in cilindrate comprese tra 125 e 250 cm3 . Una loro profonda rivisitazione ha portato alla comparsa nel 1968 dei motori a carter larghi, impiegati in versioni di 250, 350 e 450 cm3 (dal 1969) sui famosi Scrambler, sui Mark 3 e sui Desmo. La prima distribuzione desmodromica di serie &egrave; apparsa sulla Mark 3D nell&rsquo;autunno del 1968. Lo schema adottato prevedeva un unico albero a camme con quattro eccentrici (due di apertura e due di chiusura) che azionavano le valvole agendo su bilancieri a due bracci (due dritti e due &ldquo;rovesciati&rdquo;). Questa soluzione costruttiva si &egrave; rivelata talmente valida che viene impiegata tutt&rsquo;ora sui motori a due valvole della Casa bolognese. Con la realizzazione dei bicilindrici a L di 750 cm3 nel 1971 alla Ducati si &egrave; aperta una nuova era. Inizialmente la distribuzione, sempre comandata da alberelli e coppie coniche, era di schema convenzionale, con molle elicoidali; in seguito per&ograve; i motori di questa serie (che hanno visto ben presto crescere la loro cilindrata a 860 cm3 ) sono stati dotati di teste desmo. L&rsquo;architettura a L, ovvero a V di 90&deg; con un cilindro orizzontale e l&rsquo;altro verticale, &egrave; stata scelta da Taglioni per ragioni di equilibratura e di raffreddamento. Per quanto riguarda l&rsquo;attivit&agrave; agonistica, sono rimaste celebri le vittorie nella prima 200 Miglia di Imola con Paul Smart (1972) e quella di Mike Hailwood al TT nel 1978. Meno note ma non meno importanti dal punto di vista tecnico sono state le affermazioni nella massacrante 24 Ore del Montjiuch ottenute con media-record nel 1973 e nel 1975 (con le monocilindriche la Ducati si era gi&agrave; imposta sul celebre circuito catalano cinque volte tra la fine degli anni Cinquanta e il 1964). L&rsquo;ultimo progetto di Taglioni a essere sfociato in una produzione di serie &egrave; stato quello della Pantah, con motore sempre a L ma con angolo tra le valvole diminuito da 80&deg; a 60&deg; e con distribuzione monoalbero desmo comandata da cinghie dentate. Importante &egrave; stato anche il passaggio da un albero a gomiti composito con bielle in un sol pezzo lavoranti alla testa su rullini a un albero monolitico, con bielle dotate di cappello amovibile e lavoranti su bronzine. La Pantah originale, entrata in produzione nel 1979, veniva proposta in versioni di 500 e di 350 cm3. A esse se ne sono in seguito aggiunte altre con cilindrate via via maggiori. Il motore del famoso Monster, che per anni &egrave; stato un autentico best seller, &egrave; stato un diretto discendente, che ha ulteriormente confermato la bont&agrave; delle scelte fatte a suo tempo dall&rsquo;ingegner Taglioni. GT: Valentino Rossi in pista a Magny Coura con l'Audi       

Un tecnico al cui nome sono associati un Costruttore di moto (Ducati) e la tecnologia desmodromica, gi&agrave; utilizzata dalla Mercedes nel 1956, in F1, ma sviluppata soprattutto dall'ingegnere italiano, famoso in tutto il mondo: in America veniva chiamato "Doctor T"

Tecnica: Fabio Taglioni, il papà del Desmo Ducati

        La MV Agusta &egrave; stata l&rsquo;ultima paladina dei motori a quattro tempi e ha continuato a contrastare l&rsquo;offensiva dai 2T, che era iniziata nelle classi pi&ugrave; piccole e che all&rsquo;inizio degli anni Settanta si &egrave; estesa alla 350 e infine alla 500. In queste cilindrate le straordinarie tricilindriche di Cascina Costa avevano dominato a lungo ma a un certo punto &egrave; stato chiaro che per contrapporsi alle bicilindriche Yamaha occorreva di pi&ugrave;. Prove amarcord: la Ducati 1098R F08 di Troy Bayliss &nbsp; Dalla 350 alla 500   La MV Agusta ha allora realizzato una 350 a quattro cilindri che ha esordito a Monza sul finire della stagione 1971. Il maggiore frazionamento della cilindrata, unito a una riduzione del rapporto corsa/alesaggio, consentiva di raggiungere regimi di rotazione notevolmente superiori, rispetto alla tricilindrica, e questo, unitamente all&rsquo;aumentata superficie dei pistoni, permetteva di avere una potenza pi&ugrave; elevata. La nuova 350 erogava attorno a 65 CV a 14.000 giri/min (contro i 60 a 12.200 della tre cilindri) che sono in seguito saliti fino a 70 CV a 16.000 giri/min, corrispondenti a 200 CV/litro, dell&rsquo;ultima versione. Le ottime prestazioni fornite dalla 350 quadricilindrica hanno ben presto portato alla decisione di realizzare anche una 500 di identico schema. Nella classe regina i 2T sono diventati davvero pericolosi con un certo ritardo. La bicilindrica Suzuki e la Kawasaki H1 R, entrambe con ammissione controllata dal pistone, andavano forte ma non erano al livello della MV Agusta tricilindrica, che continuava a vincere senza problemi. La situazione &egrave; cambiata quando ha fatto la sua comparsa la nuova Yamaha 500 a quattro cilindri. La MV Agusta ha quindi pensato subito di sostituire la vecchia tre cilindri con la nuova quadricilindrica. All&rsquo;inizio del 1973 la Yamaha condotta da Jarno Saarinen ha dimostrato chiaramente di potere battere anche questa MV Agusta. Nella tragedia di Monza il pilota finlandese ha perso la vita e la Casa dei tre diapason ha sospeso la sua attivit&agrave; ufficiale per il resto della stagione della 500. La MV Agusta ha continuato quindi a correre con la 500 tre cilindri. Nel 1974 la Yamaha &egrave; tornata a gareggiare nella top class e la Casa italiana ha impiegato la nuova quadricilindrica, con la quale ha conquistato il Mondiale. Si &egrave; trattato dell&rsquo;autentico canto del cigno dei motori a quattro tempi. Da l&igrave; in poi il titolo della 500 &egrave; sempre stato vinto dalle due tempi. &nbsp; Tecnologia avanzata per battere i giapponesi   Per opporsi ai semplici e leggeri 2T, la cui potenza cresceva di anno in anno, i motori a quattro tempi sono diventati sempre pi&ugrave; complessi e raffinati (e anche pi&ugrave; costosi&hellip;). Per le sue moto da corsa la MV Agusta poteva avvalersi di tecnologie aeronautiche e utilizzare materiali, trattamenti e processi di fabbricazione estremamente avanzati. Questo, unitamente al ricorso a un disegno sempre pi&ugrave; evoluto, ha consentito di arrivare dove nessun altro quattro tempi era mai giunto ma &egrave; stato sufficiente soltanto per poco. Nel 1975, con il titolo Yamaha firmato da Giacomo Agostini, &egrave; iniziata l&rsquo;era dei due tempi anche nella classe regina. L&rsquo;ultima MV Agusta 500 aveva un motore a quattro cilindri in linea con un alesaggio di 58 mm e una corsa di 47,2 mm e veniva alimentato da quattro carburatori da 32 mm &Oslash;. In alcuni esemplari sono state adottate misure leggermente differenti (57 x 49 mm). Il rapporto di compressione era 11,2:1 e la potenza, nella versione pi&ugrave; evoluta, &egrave; arrivata a 104 CV a un regime di circa 14.700 giri/min. La velocit&agrave; media dei pistoni era dunque 23,1 m/s e la pressione media effettiva 12,5 bar, entrambi valori considerevoli per l&rsquo;epoca. La testa &egrave; stata oggetto di pi&ugrave; rivisitazioni. Le modifiche hanno riguardato in particolare l&rsquo;angolo tra le valvole, ridotto dagli iniziali 45&deg; ai 35&deg; dell&rsquo;ultima versione. Ci&ograve; ha consentito di ottenere camere di combustione pi&ugrave; compatte, a vantaggio del rendimento termico. Ciascuna delle due valvole di aspirazione di ogni cilindro aveva un diametro di 21,5 mm; l&rsquo;alzata era di 7,5 mm. Le due valvole di scarico erano da 19,5 mm &Oslash;. Gli steli erano da 4,2 mm. Gli eccentrici dei due alberi a camme agivano su punterie a bicchiere del diametro di 20 o di 22 mm, a seconda delle versioni. Non venivano impiegate sedi valvola riportate; si utilizzavano invece calotte in bronzo speciale (una lega rame-alluminio con cospicue percentuali di ferro e nickel) nelle quali erano ricavate le pareti delle camere di combustione, le parti terminali dei condotti, i fori per le candele e le superfici troncoconiche di appoggio delle valvole. Tali calotte non erano incorporate di fusione (come quelle dei motori Honda) ma venivano inserite nella testa con interferenza. Ci&ograve; consentiva di sostituirle in caso di necessit&agrave;. Non tutte le teste erano eguali e se in una di quelle &ldquo;buone&rdquo; avveniva un cedimento che portava al danneggiamento della calotta di un cilindro, bastava sostituirla e la testa stessa poteva essere riutilizzata. A comandare i due alberi a camme, alloggiati in apposite &ldquo;scatole&rdquo; (camboxes) imbullonate superiormente alla testa, provvedeva una cascata di ingranaggi collocata centralmente. &nbsp; Le caratteristiche del motore   Il blocco cilindri era incorporato nella parte superiore del basamento, in cui erano ricavati i sei supporti di banco. Le canne dei cilindri erano in ghisa e venivano montate con interferenza. Il notevole spessore delle pareti del blocco cilindri e della testa contribuiva notevolmente alla rigidezza strutturale del motore. I pistoni, ciascuno dei quali pesava 102 grammi, erano forgiati in lega di alluminio. Ognuno di essi era dotato di due segmenti (uno di compressione e un raschiaolio) e veniva vincolato alla relativa biella da uno spinotto del diametro di 15 mm. L&rsquo;albero a gomiti, dotato di sei perni di banco, era formato da ben nove parti unite per forzamento alla pressa. Sicuramente assemblarlo e poi centrarlo (in modo da assicurare il perfetto allineamento di tutti i perni di banco) richiedeva una straordinaria perizia. I perni di manovella, del diametro di 27 mm, venivano piantati nei volantini; dopo l&rsquo;assemblaggio si impiegavano alcune spine trasversali per aggiungere un&rsquo;ulteriore sicurezza al serraggio dovuto all&rsquo;interferenza. I supporti di banco interni erano dotati di cappelli amovibili che venivano posizionati con estrema precisione mediante superfici di frattura coniugate. I cuscinetti di banco erano tutti a rotolamento; i quattro interni erano divisi in due parti, al contrario dei due esterni e di quelli di biella; la gabbia a rullini di questi ultimi veniva infilata sopra i perni di manovella prima di procedere all&rsquo;assemblaggio (ovvero prima di unire i vari pezzi che formavano l&rsquo;albero). Le bielle in acciaio da cementazione erano in un sol pezzo, avevano una lunghezza di 100 mm, corrispondente a 2,12 volte la corsa, e pesavano 132 grammi ciascuna. Il basamento era costituito da una fusione in lega di alluminio che veniva completata dalla parte amovibile, integrale con il blocco cilindri e con i supporti di banco, che chiudeva superiormente la camera di manovella. Il sistema di lubrificazione a carter umido era dotato di una pompa a ingranaggi, una lunga coppa dell&rsquo;olio e un radiatore collocato nella parte anteriore della carenatura (ovvero nel cosiddetto &ldquo;cupolino&rdquo;), dotata all&rsquo;uopo di una nutrita serie di fori per il passaggio dell&rsquo;aria. L&rsquo;olio che fuoriusciva lateralmente dai cuscinetti di banco veniva raccolto dai convogliatori centrifughi ricavati direttamente nei volantini dell&rsquo;albero a gomiti che provvedevano a farlo arrivare ai cuscinetti di biella. La trasmissione primaria a ingranaggi inviava il moto alla frizione posta sul lato sinistro; il cambio a sei marce era del consueto tipo in cascata. &nbsp; La ciclistica  La parte ciclistica era allo stato dell&rsquo;arte. Il telaio in tubi &egrave; stato realizzato in versioni aventi disegni differenti ma sempre con culla aperta inferiormente. Le sospensioni erano di tipo convenzionale, anche se per brevissimo tempo &egrave; stata provata una posteriore monocross, con un elemento elastico centrale e due ammortizzatori laterali. Le ruote da 18 pollici inizialmente erano a raggi ma quasi subito sono diventate a razze, in lega di magnesio. Per quanto riguarda i freni, i due dischi anteriori avevano un diametro di 254 mm, mentre quello posteriore era leggermente pi&ugrave; piccolo. Marcellino Lucchi, il super collaudatore della 250       

Parliamo dell'ultima 500 4T che ha battuto le 2T giapponesi, con Read nel 1974. Al tempo era all'avanguardia con i suoi 200 CV/litro, ottenuti con il suo raffreddamento ad aria

32 risultati per 'tecnica'