        La tribologia &egrave; la scienza dello strisciamento, e quindi interessa fondamentalmente il contatto tra i solidi. La reologia invece &egrave; quella dello scorrimento e di conseguenza entra in gioco quando due parti in movimento relativo sono completamente separate da un lubrificante. Oli, tribologia e reologia   L&rsquo;olio deve avere eccellenti caratteristiche sia tribologiche che reologiche. All&rsquo;interno del motore alcuni componenti funzionano letteralmente galleggiando su di uno strato lubrificante che separa le loro superfici (regime idrodinamico, che per instaurarsi richiede una notevole velocit&agrave; relativa tra le parti). Ci&ograve; assicura una notevole riduzione dell&rsquo;attrito. A contare &egrave; qui la viscosit&agrave; dell&rsquo;olio. Fondamentalmente gli organi interessati sono le bronzine e i pistoni, per parte della loro corsa. Per altri organi per&ograve; i contatti metallici, pi&ugrave; o meno estesi a seconda dei casi, sono inevitabili e a sopportare il carico sono le microasperit&agrave; delle superfici (regime limite). Il velo d&rsquo;olio presente contribuisce comunque a ridurre l&rsquo;attrito grazie alle sue propriet&agrave; tribologiche. C&rsquo;&egrave; poi una situazione intermedia, ovvero il regime &ldquo;misto&rdquo;. Tra due superfici a contatto hanno luogo delle interazioni che ostacolano il movimento reciproco o che addirittura tendono a tenerle unite. Si possono avere fenomeni di attrazione elettrostatica, formazione di legami chimici locali, veri e propri &ldquo;ancoraggi&rdquo; tra le microasperit&agrave; e adsorbimenti fisici. A livello atomico possono addirittura verificarsi fenomeni di diffusione. La lubrificazione costituisce nell&rsquo;inserire comunque, tra le due superfici metalliche, uno strato di qualcosa di scivoloso (e quindi con basso coefficiente di attrito) e dotato di una adeguata capacit&agrave; di carico. I lubrificanti solidi sono costituiti da pi&ugrave; strati che scorrono uno sull&rsquo;altro con una resistenza estremamente ridotta. Quando, come avviene quasi sempre, per lubrificare le parti si impiega olio, &egrave; lo spessore dello strato che esso forma a determinare il regime di lubrificazione. Le propriet&agrave; tribologiche di un olio sono dunque quelle che consentono il movimento con il minimo attrito possibile di una parte su di un&rsquo;altra, in presenza di contatti pi&ugrave; o meno estesi (regimi limite e misto), ma senza che avvenga un vero galleggiamento. Si tratta fondamentalmente della cosiddetta lubricity (adesione alla superficie metallica pi&ugrave; &ldquo;scivolosit&agrave;&rdquo;), che gi&agrave; l&rsquo;olio base deve possedere in larga misura ma che viene esaltata da appositi additivi detti untuosanti. Oli e additivi  Gli additivi antiusura agiscono diminuendo il coefficiente di attrito e proteggendo i componenti quando le condizioni di lavoro diventano pi&ugrave; gravose (maggiori pressioni di contatto, temperature locali pi&ugrave; alte). Questa azione la svolgono formando, grazie a reazioni tribochimiche, un tenace film protettivo che aderisce alle superfici metalliche. Gli additivi EP agiscono quando localmente le condizioni sono ancora pi&ugrave; severe. In questo caso il tribofilm si forma grazie a reazioni tra l&rsquo;additivo e il substrato metallico. La maggior parte delle perdite per attrito nel motore hanno luogo tra i gruppi pistone-segmenti e le canne dei cilindri. Logico che gli studi e le ricerche, oggi pi&ugrave; intensi che mai, interessino principalmente questi organi. Ridurre tali perdite &egrave; una esigenza primaria per contenere i consumi e quindi le emissioni di CO2. Nei motori di alte prestazioni un rendimento meccanico migliore consente di ottenere una maggiore potenza. Si lavora sui nuovi lubrificanti, come certi glicol, che hanno gi&agrave; interessanti applicazioni a livello industriale. Gran parte delle attenzioni dei tecnici del settore si &egrave; da tempo focalizzata sui nanolubrificanti, ovvero sugli additivi costituiti da particelle aventi dimensioni di alcuni nanometri soltanto. &Egrave; opportuno qui ricordare che il micron (o micrometro) &egrave; un millesimo di millimetro e che il nanometro &egrave; un millesimo di micron (e quindi un milionesimo di millimetro!). E occorre anche dire che le ricerche e gli studi interessano tutti i lubrificanti e non soltanto quelli destinati ai motori a combustione interna. Uno stesso additivo pu&ograve; fornire eccellenti risultati in certi campi ma pu&ograve; non andare bene in altri. In laboratorio un prodotto pu&ograve; fornire eccellenti prestazioni, ma sono poi sempre replicabili in altri contesti? Nel lungo termine e in condizioni gravose l&rsquo;adesione del tribofilm al substrato si riveler&agrave; adeguata? Nei motori i riporti di PTFE non si usano per questo motivo mentre sono eccellenti in altre applicazioni. I procedimenti produttivi sono industrializzabili agevolmente? E per quanto riguarda i costi? Vanno poi fatte anche considerazioni relative alla stabilit&agrave; chimica alle alte temperature e alla eventuale tendenza delle particelle ad agglomerarsi. &nbsp; Nanolubrificanti e nanoadditivi  Schematicamente l&rsquo;azione dei nanolubrificanti avviene con formazione di un sottilissimo tribofilm, scivoloso e spesso costituito da strati sovrapposti, che aderisce tenacemente alle superfici. Non di rado poi si ha un autentico &ldquo;effetto cuscinetto volvente&rdquo; con vero e proprio rotolamento di particelle sferiche (o quasi) o con formazione di minuscoli &ldquo;rotoli&rdquo; (scrolls) di tessuto bidimensionale avvolto. Tra i vari nanoadditivi si possono inoltre avere vantaggiose sinergie. E pare perfino che alcune nanoparticelle dure siano in grado di migliorare le superfici riempiendo in qualche misura gli avvallamenti e &ldquo;spianando&rdquo; le creste. A tutto questo si pu&ograve; stentare a credere ma i fisici e gli addetti ai lavori si esaltano quando ne parlano. Va bene, forse si tratta del solito dualismo tra laboratorio (condizioni ideali) e mondo reale (applicazioni pratiche). E chiss&agrave; se e in quale misura potranno beneficiarne i nostri motori. Le nanoparticelle possono essere schematicamente divise in quelle a base metallica, quelle a base di composti e quelle a base di carbonio. Tra queste ultime spiccano il grafene (che effettivamente ha caratteristiche straordinarie sotto vari aspetti) e lo NFC messo a punto dai laboratori Argonne. L&rsquo;acronimo sta per Near Frictionless Carbon, ovvero carbonio pressoch&eacute; senza attrito. In laboratorio si &egrave; rivelato eccezionale&hellip; Valvole a fungo, mostri di efficienza | Officina       

<p>Strisciamento e scorrimento: l&rsquo;olio deve avere eccellenti caratteristiche sia tribologiche che reologiche</p>

Tribologia e reologia | Officina

La settimana scorsa abbiamo parlato degli aspetti reologici della lubrificazione, ovvero principalmente del regime idrodinamico. Ora concentriamo l&rsquo;attenzione su quelli tribologici, di importanza fondamentale nei regimi misto e limite. In tali condizioni lavorano rispettivamente i segmenti e gli accoppiamenti camma/bilanciere (o, se preferite, camma/ punteria). In questi casi, cio&egrave; quando la lubrificazione non &egrave; idrodinamica, diventa fondamentale la funzione degli additivi untuosanti e antiusura (pi&ugrave; i modificatori di attrito, nel caso degli oli automobilistici).   Lubricity   Quando si parla di lubricity, termine ormai in uso anche da noi, si intende sia l&rsquo;untuosit&agrave; (cio&egrave; la slipperiness, ovvero la &ldquo;scivolosit&agrave;&rdquo;) che l&rsquo;adesivit&agrave; dell&rsquo;olio. Idealmente quest&rsquo;ultimo dovrebbe rimanere aderente alle superfici metalliche anche a motore fermo, formando un tenace film in grado di assicurare una eccellente protezione iniziale in fase di avviamento.  Alcune basi hanno gi&agrave; di per s&eacute; una notevolissima lubricity, mentre altre sono meno valide, sotto questo aspetto. In ogni caso, &egrave; assolutamente indispensabile una additivazione accuratamente studiata. L&rsquo;esposizione all&rsquo;aria crea sulla superficie dei metalli uno strato di ossido (che in alcuni casi svolge una efficace azione protettiva) il cui spessore generalmente &egrave; inferiore ai 100 nanometri. Sopra di esso vi &egrave; un sottilissimo strato di gas adsorbito (alto al massimo qualche nanometro) e pi&ugrave; all&rsquo;esterno ve ne &egrave; un altro formato da contaminanti come olio, grasso e acqua, che rimangono aderenti (in genere &egrave; spesso poche decine di nanometri). Per asportarli, onde potere rilevare i coefficienti di attrito, le superfici vengono pulite con energici solventi.  Tribologia e coefficiente di attrito   La tribologia, letteralmente, &egrave; la scienza dello strisciamento. Studia le interazioni che hanno luogo tra le superfici in movimento relativo. Spesso, per&ograve;, occorre anche considerare che queste ultime non sono a contatto diretto. I tribosistemi sono costituiti da due corpi e dalla sostanza interposta (che nella lubrificazione limite &egrave; ovviamente l&rsquo;olio). Il coefficiente di attrito radente statico &egrave; costituito dl rapporto tra la forza che occorre vincere per mettere in movimento un corpo (poggiante su di una superficie orizzontale) e il peso di quest&rsquo;ultimo. Ovvero &egrave; la costante di proporzionalit&agrave; tra la forza di attrito e la forza che agisce perpendicolarmente alla superficie di contatto. Tutti sanno che se si spinge una pesante cassa che poggia su di un pavimento si fa una notevole sforzo per metterla in movimento, ma poi basta una forza minore per continuare lo spostamento. Oltre all&rsquo;attrito statico c&rsquo;&egrave; infatti anche quello dinamico, e il coefficiente in tal caso &egrave; in genere del 20-30% minore. Dunque, pi&ugrave; alto il coefficiente di attrito, maggiore la forza necessaria per spostare un corpo a contatto con un altro. Questo equivale a dire che al crescere del coefficiente in questione aumenta la forza tangenziale, cio&egrave; parallela al movimento, che pu&ograve; essere trasmessa, ferma restando quella che preme i due corpi uno contro l&rsquo;altro (per capirci meglio, si pensi alle mescole delle pastiglie dei freni, tipico caso nel quale l&rsquo;attrito &egrave; vantaggioso). Se tra la cassa e il pavimento dell&rsquo;esempio precedente si mette dell&rsquo;olio lo sforzo che si compie &egrave; notevolmente minore. In questo caso ci si pu&ograve; giovare infatti di una lubrificazione limite.  Il coefficiente di attrito in realt&agrave; non &egrave; una caratteristica dei materiali ma degli accoppiamenti tribologici. Quello dell&rsquo;acciaio su PTFE (Teflon) &egrave; molto diverso da quello dell&rsquo;acciaio su alluminio, per intenderci. Quando il secondo dei due materiali accoppiati non viene menzionato in genere si fa riferimento all&rsquo;acciaio. Cos&igrave;, quando si parla ad esempio del coefficiente di attrito di un rivestimento superficiale, di norma ci si riferisce a quello che si misura in laboratorio quando esso &egrave; a contatto con l&rsquo;acciaio. Le due superfici devono essere perfettamente asciutte, ma in qualche caso si indica anche il valore rilevato con le due superfici leggermente unte (o bagnate con acqua, come nel caso dell&rsquo;accoppiamento tra i pneumatici e l&rsquo;asfalto).  Particolarmente basso &egrave; il coefficiente di attrito del PTFE, sia su acciaio che su un&rsquo;altra superficie di PTFE: 0,05 &ndash; 0,04. Anche l&rsquo;accoppiamento tribologico tra l&rsquo;acciaio e alcuni riporti duri delle ultime generazioni d&agrave; ottimi risultati. Spiccano in particolare alcuni tipi di DLC, che pare possano arrivare a 0,05. Pu&ograve; sembrare incredibile ma di recente un grande centro di ricerca americano ha sviluppato un riporto superficiale che consente di arrivare a coefficienti di attrito ancora minori.  Contraddistinti dalla sigla NFC (Near Frictionless Coatings), hanno spessori dell&rsquo;ordine del micron, vengono deposti a bassa temperatura e hanno coefficienti che possono essere anche dell&rsquo;ordine di 0,02 soltanto (in aria, perch&eacute; sotto vuoto pare siano scesi ben al di sotto di 0,01). Quando due corpi non sono a contatto diretto esiste egualmente il coefficiente di attrito, che chiama per&ograve; in causa non i loro materiali ma il fluido che li separa (regime idrodinamico) o che comunque &egrave; interposto tra le loro superfici. Nei motori di alte prestazioni la vita &egrave; particolarmente dura, per quanto riguarda la lubrificazione, per gli eccentrici dell&rsquo;albero a camme e per gli organi (bilancieri o punterie) sui quali essi agiscono.  Ci&ograve; &egrave; dovuto alle altissime pressioni di contatto (non di rado superiori a 12.000 bar) e alla impossibilit&agrave; di instaurare un regime di lubrificazione idrodinamico. Diventa qui essenziale il ruolo degli additivi antiusura. Quando alcuni anni fa, negli oli automobilistici, &egrave; stato ridotto il contenuto di ditiofosfato di zinco (antiusura per eccellenza) non sono stati pochi i casi di rapida ed elevata usura proprio nel reparto distribuzione. E la diminuzione di questo additivo &egrave; anche una delle cause, assieme alla minore viscosit&agrave;, che rendono gli oli delle ultime generazioni inadatti all&rsquo;impiego nei motori di diversi anni fa. 

<p>&Egrave; quella scienza che studia le interazioni che hanno luogo tra superfici in movimento relativo</p> 

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Tribologia e reologia | Officina

Officina: di cosa si occupa la tribologia