Guy Martin, il saluto dell’ultimo eroe

Guy Martin, il saluto dell’ultimo eroe

Dopo il flop all’isola di Man, e con il primo figlio in arrivo, lo street racer più celebre lascia la scena. Un viaggio nell’animo di un pilota, simbolo di rischio e glamour

Mario Donnini

28.08.2017 10:33

Che Guy Martin fosse lì lì per smettere con le corse su strada, si sapeva da mesi, in giro, ma era bene tacere per non far la figura dei gossippari saputelli, sennò sai che sveltezza. Doveva essere lui, e soltanto lui, a dare l’annuncio sui piani per la sua vita e così è stato, nei giorni scorsi. Già ben prima del TT, a inizio primavera, la fidanzata Sharon gli aveva comunicato d’aspettare un bebè – la cui nascita è attesa in ottobre – e così Guy s’è risparato a 300 all’ora giù da Bray Hill non esattamente nella condizione d’aggredire il mondo.

L'INCIDENTE CON LA FIREBLADE? SOLO UN PRETESTO - Lasciate stare i casini della nuova Fireblade imbizzarrita, che aveva ferito in modo devastante John McGuinness nelle prove della North West e che con il cambio bloccato in folle ha sparato via, a sfiorare un muricciolo a Doran’s Bend, in aperta campagna, persino lo stesso Guy, al primo giro della gara TT Superbike dell’Isola di Man, lasciandolo miracolosamente illeso. Quello è soltanto il pretesto, la motivazione sopravvenuta e elegante, la causale comoda per dire basta. Guy Martin di fatto era ex pilota di corse su strada fin dalla terribile caduta all’Ulster GP del 2015, quando, disarcionato dalla sua Tyco-BMW e picchiando violentemente sull’asfalto, s’era rotto per davvero. Prima perdendo momentaneamente conoscenza, e poi la voglia d’essere road racer fino in fondo.

DOMANDE AMMICCANTI - Lì, ben oltre le radiografie, qualcosa s’era incrinato dentro e forse per sempre. un anno abbondante dopo, a fine autunno 2016, nella tipica sera fredda e infinita che ispira voglia di tepore e adrenalina, smentendo clamorosamente il suo terzo libro d’autobiografia – «Mai più nelle Road Races e mai e poi mai con una grande Casa» – aveva detto sì alle offerte del boss Honda, Neil Tuxworth. Intendiamoci, è stato soltanto perché la vita è strana, e certe volte ti ammicca fornendoti occasioni inattese, nemmeno cercate ma guarnite della domanda bastarda «E se dici no, quanto rosicherai rimuginando, per il resto dei tuoi giorni?».

QUESTIONE DI FEELING - Così Guy. imbevuto dal gusto di darsi torto. aveva detto sì, perché, accidenti, sono peggio i rimorsi dei rimpianti. Tuttavia, nato l’anno nuovo, proprio niente s’era messo ad andare per il verso giusto. Le Honda ufficiali, specialmente la new Fireblade 1000, sembravano bestie strane e matte, mentre con la 600, ben più approcciabile, il feeling non è mai tornato. Tanto che aveva provato a fare il fornitore supplente perfino il vecchio Wilson Craig, magnate delle patate che era stato suo boss nel 2010, l’anno in cui Guy stupì il mondo facendo da rider performer e protagonista nell’acclamato docu-film “Closer to The Edge”, sublimazione del TT come instant-movie, entusiasmante, tragico e struggente. Con Mister Basetta a gigioneggiare dall’inizio alla fine, sventolando un curriculum sull’Isola di Man fatto di mille gare, cento podi e zero vittorie.

LA FIAMMA SI E' SPENTA - in questo 2017, tra un forfait e l’altro, pendente il crash devastante di McGuinness a Primrose Hill, le rinunce Honda e qualche galoppatina anonima in 600, è arrivato tempo di TT ma Guy sembrava proprio non averne voglia. Perché a parte le disgraziatissime big bikes, in Supersport, senza apparenti problemi di moto, il guerriero tenero e spaventato navigava a fatica a ridosso della top 20. Catastrofe annunciata, quindi. Con il botto nella prima gara, tante rinunce successive, vedi Supersport e Superstock, nonché la presenza nel TT con la Mugen elettrica. Dove ha recitato da paggetto al vincitore Anstey, prendendo una vita di distacco al chilometro. Quindi la fuga dall’ultima gara di venerdì 9 giugno – quella che più aveva sognato di vincere e che sette anni prima l’aveva quasi ammazzato a Ballagarey – la Senior. Nell’ultima sessione di warm up del mercoledì, giusto due giorni prima della Senior Race, Martin era stato involontario testimone del crash mortale di Alan Bonner – scivolato senza colpa su una chiazza d’olio – uscendone letteralmente sconvolto.

IL PUNTO DI NON RITORNO - Ero al box Honda, quella sera, al tramonto, un imbrunire strano, tutto luce calda, storta e vento tagliente, quando Guy è tornato dalla Montagna, scendendo dalla moto con gli occhi fuori dalle orbite, narrando poi per un’ora di fila, come un disco rotto, il casino irreparabile che aveva visto accadere, lassù. Alzava la voce e raccontava, gesticolava, indugiava sui particolari e scuoteva la testa. Tutte cose che di solito un top rider non fa. Perché, al contrario, di regola tace, deglutisce, minimizza e rimuove. Sì, lateralizza, guarda e pensa altrove, autocensura qualsiasi elemento perturbatore. Invece lui no, zoomava, quasi enfatizzava neomasochisticamente quella nuova favola nera che lo tormentava, riproiettandosela davanti in loop. Il segnale psico-esistenziale del punto di non ritorno.

RIMARRA' UN SIMBOLO - Il successivo forfait anche dalla Southern 100, seguito da quello in vista dell’Ulster GP, sono poi soltanto prodromi dell’addio definitivo alle corse su strada, annunciato con tanto di tonitruante intervista. Perché ormai su Guy Martin, in Gran Bretagna e non soltanto lì, tutto fa spettacolo. e allora ciao, Guy. Mancherai infinitamente ai tanti, compreso il sottoscritto, che hanno passato un milione di sere di vigilia delle gare al TT sognando nelle tenebre fredde, col vento a fischio, una tua vittoria il giorno successivo. Perché sei stato, eri, e forse sarai per sempre il simbolo della sfida impossibile, del trionfo al TT vissuto come target meritato che è lì a due milimetri ma che ogni volta diventa inafferrabile nell’atto di ghermirlo. Una metafora esistenziale della vita che promette e mica sempre mantiene, lasciandoci più vecchi, tonti e romantici che mai. Un ideale eroe esistenzialmente tragico, ossessivo, compulsivo, bello ma a suo dire una frana con le donne. D’una bellezza apprezzata anche da maschi orgogliosamente etero, perché quasi clamorosa e plebiscitaria ma nello stesso tempo accattivante, lampeggiante d’intelligenza e ironia a tratti acida, obliqua, sghemba, sdrammatizzante e strana, ma mai stupida.

UN PERSONAGGIO FEDELE A SE STESSO - Guy aveva detto che non si sarebbe mai piegato alle esigenze e allo stile ferreo richiesti da una corporation. È stato di parola fino in fondo: nei pochi km che ha percorso in gara con la Honda al TT, il suo casco recava la dicitura NRC, piuttosto che la sacra Honda Racing Corporation. Una sigla in cui la N stava per Nigel, il cane di Guy. Tutto questo ha creato il personaggio narrativamente perfetto, fatalmente nato adatto ma mutilato al solo desiderio liberatorio di vincere il TT. Uno che sarebbe piaciuto ai classici greci così come a Dante Alighieri e che nondimeno diventa star televisiva britannica perché in fondo, se spacchi davvero, finisci sul palcoscenico: che ti chiami Guy Martin, Bruce Willis o Ugo Pagliai, poco sposta. Il tuo posto è sotto il cono di luce.

I DATI SECCHI DICONO POCO E NIENTE - Otto secondi posti e 17 podi al TT, dove debuttò nel 2004 insieme a Stefano Bonetti, andando quasi uguale, ma pure tre volte consecutive campione “Solo” nella raggelante Southern 100 dell’Isola di Man, dal 2013 al 2015, eguagliando Joey Dunlop. Più 11 vittorie all’Ulster GP dal 2006 a oggi. Un secondo posto alla 24 Ore di Le Mans 2013 sulla Suzuki e la vittoria di classe alla Pike’s Peak 2014 con l’autocostruita Martek Custom Turbo da 550 cavalli, didascalizzata dal numero 8 di gara, imprescindibile feticcio. E da lì la trasformazione progressiva in un ambasciatore del rischio televisizzato in prime time, specie di ircocervo telegenicamente arrapante, metà figlio di Piero Angela, ma più maledetto e paraculo, metà Steve McQueen redivivo, stavolta salutista e pure biciclettaro.

O LO AMI... O LO ODI - Bravo ad affascinare in TV famiglie britanniche desiderose di storie strane ma carine, costruendosi una barca a motore con le proprie mani, viaggiando tra i gioielli della rivoluzione industriale, in India, sul muro della morte in moto, con un carrettino aerodinamico, sfidando una Formula 1 guidata da David Coulthard in sella alla sua Tyco-BMW, diventando inoltre il ciclista più veloce del mondo, perigliosamente in scia a un bestione. E così via. Il confine tra lo stupendo e affascinante ambasciatore del motorport e il wrestler che guadagna tanto fingendosi supereroe mica è sempre nettissimo. Ma Guy mantiene il magnetismo strano di chi non ha vinto tutto, non è in assoluto il più simpatico, il più buono, il più disponibile e il meno umorale, eppure piace. Anzi, o ti sta sulle scatole dal principio o finisci per amarlo per sempre, ecco. Perché di motorsport è terribilmente colto e assetatamente curioso e innamorato, anche se avrebbe tutti i motivi per pensare a altro.

ATTRIBUTI D'ACCIAIO - Forse, tra tutte le etichette, quella di Steve McQueen formato famiglia, potrebbe anche andare. Magari il McQueen del docu-move “On Any Sunday”, quello interdisciplinare e perdutamente innamorato delle due ruote. Tanto da invogliare a conoscerlo pure Valentino Rossi, che previo invito trascorre con lui ore liete al Ranch, tanto per gradire. poi,chi non lo strozza racconta sempre il TT 2015, quello in cui Guy si presenta soltanto con moto vincenti, le invidiatissime Tyco-BMW tra le Mille e le Triumph in Supersport. È la grande chance: o sfonda o smette. Ma lui, un po’ per sfortuna, un po’ perché è devastato dalla pressione, non fa meglio che terzo, spiegando al mondo che a questo punto il TT non lo vincerà mai. Ma all’ultimo giro della Senior pianta una tornata strepitosa, che lo rende tuttora il sesto veloce di tutti i tempi sull’Isola di Man. Roba da attributi d’acciaio. A conferma dell’immagine di uomo stellare e fragile, di classe e deconcentrato, perdente ma adorato, scostante e magnetico, dotato della doppia e contraddittoria struggente meraviglia delle opere d’arte sfaccettate, preziose e incompiute. Insomma, a forza di volerti vincente al TT, ci siamo accontentati, e l’abbiamo capito, alla fine: la parte davvero importante di tutta la faccenda in fondo eri tu, mica la coppa. E adesso ti vogliamo esclusivamente bene. In bocca al lupo, Guy. Auguri e figli Martin.

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