La Suzuki e le corse, tutto merito del... Jazz

La Suzuki e le corse, tutto merito del... Jazz

La storia nelle corse cominciò grazie alla musica, passione che avvicinò Matsumiya, responsabile tecnico della Suzuki, a Degner, pilota-ingegnere della MZ, che a fine 1961 fuggì dalla Germania Est e portò il proprio know-how in Giappone. Fu l’inizio di un percorso fatto anche di realizzazioni originali capaci di rivoluzionare la 500

07.07.2021 12:03

Nel novembre del 1959 Shunzo Suzuki incontrò Soichiro Honda, le cui 125 bicilindriche a quattro tempi avevano debuttato in giugno al Tourist Trophy tornando in Giappone con il Trofeo assegnato al Team. Il colloquio fra i due top manager fu storico: i vertici della Suzuki, delusi da alcune cocenti sconfitte nelle due più importanti corse giapponesi, le salite ai vulcani Fuji e Asama, erano propensi a cancellare qualsiasi programma che prevedesse investimenti nelle competizioni, ma Soichiro in quell’occasione riuscì a infondere fiducia a Shunzo, convincendolo della competitività della Suzuki 125 “Colleda”, la due tempi sviluppata da alcuni anni dal reparto esperienze di Hamamatsu guidato dagli ingegneri Takeharu Okano e Masanao Shimizu.

La decisione di iscrivere una squadra Suzuki al TT del 1960 nella “Ultralightweight” (la 125) fu presa nei primi giorni del nuovo anno e non ebbe ripensamenti; nei sei mesi successivi il lavoro sui due fronti, tecnico e organizzativo, procedette frenetico. Venne progettata una nuova moto siglata RT60 con un inedito motore bicilindrico a due tempi e un telaio derivato dall’ultima versione della Colleda da corsa; ma al momento dell’iscrizione al TT si verificò un errore divertente: l’incaricato di compilare il modulo, sotto la voce “costruttore” anziché Suzuki scrisse “Colleda”, un nome derivato da una trasformazione del giapponese “Kore da”, che significa “È questo!”.

La storia della Suzuki, tra tradizione e famiglia

L'isola di Man


Mentre il reparto corse lavorava sul prototipo della RT60, il 4 febbraio 1960 una pattuglia esplorativa volò da Tokyo all’Isola di Man con il compito di filmare l’intero percorso del Mountain, per conoscere ogni possibile insidia del tracciato e rilevare i raggi di ogni curva e le variazioni di quote. A questi obiettivi si aggiunsero colloqui con personaggi che, si riteneva, conoscessero qualche segreto delle MZ 125 e 250, le due tempi più potenti in quel momento, e un incontro con l’asso britannico Geoff Duke, che spiegò agli attentissimi giapponesi i segreti della guida al TT e accettò di trascorrere qualche giorno in Giappone alla Suzuki per provare la RT60 e “allenare” i piloti. La missione inglese si concluse con una visita allo stabilimento della Triumph e l’acquisto di alcune tute e caschi da corsa.

Duke arrivò ad Hamamatsu il 26 aprile e dopo il primo test della moto ne approvò il motore, ma suggerì diverse modifiche alla ciclistica. Il suo apporto fu determinante, ma anche se il sei volte iridato aveva definito la RT60 "La due tempi più veloce mai provata", il divario di potenza con la Honda di pari cilindrata a quattro tempi rimaneva enorme: tredici cavalli contro 23 CV! A fine maggio il Team Suzuki, guidato dai manager Okano, Shimizu e Hiroyuki Nakano, con i piloti Mitsuo Itoh, Michio Ichino e Toshio Matsumoto e una squadra di meccanici capeggiati da Yasunori Kamiya approdò all’Isola di Man e fece base all’Hotel Fernleigh, dove alloggiava anche la MZ con il suo capotecnico, l’ingegner Walter Kaaden, e il suo pilota Ernst Degner. Nel corso delle prove, durante le quali i piloti usufruirono della preziosa consulenza di Duke, Itoh cadde malamente e riportò ferite al ginocchio destro, per cui fu ricoverato all’ospedale Nobles di Douglas, dove si ritrovò in compagnia di Degner…

Il debutto della Suzuki al TT confermò la scarsa competitività delle RT60. La corsa fu dominata dalle MV ufficiali di Carlo Ubbiali, Gary Hocking e Luigi Taveri, che tagliarono il traguardo nell’ordine, e le tre 125 giapponesi si piazzarono al 15° posto con Matsumoto, al 16° con Ichino e al 18° con il britannico Ray Fay, proposto dalla Shell in sostituzione dell’infortunato Itoh. Il team tornò in Giappone, compreso Itoh, che i medici avrebbero voluto trattenere in ospedale, ma che scappò dalla finestra per ricongiungersi ai colleghi. Ad Hamamatsu il clima che li accolse non fu di delusione, ma di festa. La spedizione era tornata con due risultati: l’affidabilità delle moto, tutte giunte al traguardo, e un trofeo in bronzo assegnato a Matsumoto. A capo del reparto corse venne nominato Masazumi Ishikawa, un giovane ingegnere laureatosi negli USA all’università del Michigan, e sotto la sua direzione i tecnici si misero al lavoro per organizzare la rivincita e non soltanto nella 125, con la RT61, evoluzione della RT60, ma anche nella 250 con una nuova bicilindrica, la RV61. Con l’ingaggio di alcuni noti piloti del Continental Circus, il sudafricano Paddy Driver, lo scozzese Alistair King, il neozelandese Hugh Anderson, futuro campione del Mondo, il Team Suzuki divenne internazionale nel 1961. Eppure, il secondo attacco al Tourist Trophy si risolse in una sonora sconfitta: nella 125 nessuna RT61 concluse la corsa e nella 250, di cinque RV61 partite, soltanto due tagliarono il traguardo: Anderson 10° e Ichino al 12°.

Ernst Degner


Il divario di potenza delle moto di Hamamatsu rispetto alle avversarie si era confermato esiziale. Per azzerarlo sarebbero occorsi tempi lunghi e notevoli investimenti. Oppure… “Ho detto al presidente – spiegò Jimmy Matsumiya, uno dei responsabili del team – che la ricerca e lo sviluppo sono una via economicamente molto rischiosa per risolvere i nostri problemi. La via più semplice è ottenere ciò che funziona già bene”. Matsumiya parlava in questo modo perché aveva già avvicinato, condividendo con lui la passione per il jazz, il pilota ufficiale e ingegnere della MZ Ernst Degner, strettissimo collaboratore del progettista Walter Kaaden. “Vorrei rimanere qui in Inghilterra – gli aveva confidato Degner – cosa potresti fare per aiutarmi?”.

Degner aveva capito che gli si presentava un’opportunità, ma aveva paura di essere “incastrato” da tre personaggi del regime comunista che seguivano sempre gli spostamenti del Team MZ. Così l’incontro decisivo avvenne ad Assen, e il contratto fu concluso: Degner si impegnò per iscritto, in cambio di un sostanzioso ingaggio, a mettere la sua esperienza di tecnico e di pilota al servizio della Suzuki. Fuggire con la famiglia dalla Germania Est, che aveva consolidato il suo isolamento dal Mondo con la costruzione (nel 1961, appunto) del Muro di Berlino, non era affatto facile. Dopo aver vinto a Monza, diventando leader del Mondiale 125, Degner pensò alla fuga. Un’opportunità si sarebbe presentata il 17 settembre, in occasione del GP Svezia, ma prima si diede da fare per far fuggire la famiglia. Fra i suoi aiutanti c’era un tedesco occidentale, soprannominato “Petri”, che accettò di attraversare più volte la frontiera alla guida della sua Lincoln Mercury, con la scusa di visitare la fiera di Lipsia. Così fece e le guardie di confine si abituarono presto a riconoscere lui e la sua macchina. La Lincoln Mercury aveva un grandissimo baule...

Lì il 13 settembre 1961 la moglie di Degner e i suoi figli, addormentati con una forte dose di calmante, si accomodarono il meglio possibile nel vano nascosto, e la fuga riuscì. Adesso doveva fuggire Degner. In Svezia, Matsumiya fece in modo di alloggiare nello stesso albergo in cui era ospitata la squadra MZ al completo, e Degner riuscì a ottenere una camera con finestra sul parcheggio, da cui poteva osservare tutti i veicoli del suo team. Il sabato mattina, giorno della corsa, il pilota vide gli uomini e i mezzi della MZ allontanarsi in direzione del circuito, quindi caricò tutte le sue cose nel bagagliaio della sua auto e raggiunse il paddock. Al terzo giro della corsa delle 125 la MZ di Degner fu costretta al ritiro per la rottura dell’albero motore. Fu guasto fortuito o voluto? Non si è mai saputo.

La sua vittoria in quella corsa valeva il titolo mondiale, e questo non avrebbe creato nessun problema alla Suzuki, ma avrebbe creato difficoltà al piano di fuga, visto che il paddock era al centro del circuito ed era possibile uscirne soltanto nell’intervallo fra una corsa e l’altra. Se avesse terminato la gara, avrebbe dovuto attendere la fine di quella successiva per allontanarsi. Degner, lasciato il paddock, si diresse su una Opel a noleggio, con Matsumiya e un altro giapponese suo assistente, verso il porto d’imbarco del ferry-boat per la Danimarca. Il piano era perfettamente riuscito.

Il caso-Degner, divenuto politico oltre che sportivo, destò interesse in tutto il Mondo. Ai primi di novembre di quel fatidico 1961 Ernst Degner volò per la prima volta in Giappone, con l’identità “Eugen Muller di Zurigo”. Pochi mesi dopo, la Suzuki si presentò al via del Mondiale 1962 con moto improvvisamente competitive. Quell’anno Degner colse per la Casa giapponese la prima vittoria iridata imponendosi al TT nella classe 50 e facendola seguire da altri tre successi consecutivi che alla fine del campionato, in occasione del GP Argentina, gli fruttarono il titolo della minima cilindrata. In Sud America si registrò inoltre la doppietta di Anderson, che con la Suzuki vinse sia la classe 50, sia la 125, trionfo premonitore della doppietta che lo stesso binomio avrebbe realizzato nel 1963 cogliendo entrambi i titoli di classe.

Una sfilza di vittorie


Da quel momento in avanti, la storia della Suzuki nel Motomondiale diventò una continua dimostrazione di capacità tecniche straordinarie che, pur avviate in origine da un espediente ben oltre il disinvolto, si manifestarono poi in realizzazioni originali e vincenti, stupefacenti per l’azzardo, convincenti per i risultati. Dalla 50 bicilindrica, alla 125 quattro cilindri, all’abortita (per via dei nuovi regolamenti della FIM) 50 a tre cilindri. Una sequenza di vittorie e di titoli iridati che si interruppe quando la Suzuki (come le altre Case giapponesi) in disaccordo con la FIM sulle pesanti limitazioni tecniche imposte dal 1968, decise di non partecipare più ufficialmente al Motomondiale.

Non va comunque dimenticata l’ultima Suzuki 125 iridata, la bicilindrica che nel 1970, guidata da Dieter Braun, vinse il confronto con qualificatissime avversarie di pari caratteristiche. Limitata sì, ma ancora vincente! L’impegno tecnico/sportivo di tutte le Case motociclistiche giapponesi si rivolse in quel periodo alle corse della formula Daytona, in grado di garantire un notevole ritorno di immagine nel promettente nuovo mercato delle stradali di grossa cilindrata. Bolidi derivati di serie imposero così nei primi anni Settanta il monopolio giapponese nelle corse americane e poi in quelle europee organizzate sull’onda del crescente successo di questa formula. Fra le protagoniste regolari di questi eventi, due Suzuki sviluppate ufficialmente da modelli derivati di serie: la 750 tre cilindri due tempi raffreddata ad acqua e la 500 bicilindrica, anch’essa a due tempi ma raffreddata ad aria.

Quest’ultima, dimostratasi molto competitiva con i migliori piloti privati della 500 del Motomondiale, si classificò seconda, terza e quinta nel 1971, dietro l’imbattibile MV ufficiale prototipo di Giacomo Agostini. Tale imbattibilità venne incrinata due anni dopo dalla comparsa della Yamaha, avanguardia del ritorno delle Case giapponesi nella classe regina con prototipi a due tempi che in breve imposero la resa a qualsiasi motore a quattro tempi. La rivoluzione nella 500 non venne però dalla Yamaha, bensì dalla Suzuki, che nel 1974 fece debuttare una moto due tempi a quattro cilindri disposti in quadrato, raffreddata ad acqua e con alimentazione controllata da dischi rotanti. Venne battezzata RG 500 e affidata all’emergente Barry Sheene e al veterano Jack Findlay. Fu una doppia rivoluzione: per la struttura a quattro cilindri in quadrato, mai prima adottata su una 500 GP e ripresa poi da diversi concorrenti, e per la decisione di mettere in vendita a un prezzo abbordabile le repliche della Suzuki 500 ufficiale. Una mossa che cambiò radicalmente il futuro della 500.

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