Randy Mamola: “Leggenda? No, chiamatemi appassionato”

Randy Mamola: “Leggenda? No, chiamatemi appassionato”

"La Dorna mi ha dato il titolo di 'Legend', ma non mi descrive fedelmente: semplicemente, adoro questo ambiente. Non esiste un mio erede, anche se Valentino ha il mio stesso rapporto con  i fan", dice Randy

26.01.2020 15:39

Esattamente come faceva una trentina d’anni fa, anche oggi Randy Mamola ama esibire stoppies lunghi una decina di metri, con la forcella a pacco e il posteriore che effettua il decollo. Il più californiano degli americani visti in Europa propone determinate manovre ai passeggeri della Ducati biposto, allestita per intrattenere VIP, giornalisti e addetti ai lavori. Le doti del pilota (sì, pilota a tutti gli effetti, senza la preposizione “ex”) che ancora guida come se fosse impegnato in un Gran Premio – tra derapate, pieghe al limite e impennate – rappresentano un valore aggiunto al paddock del Motomondiale: "Paddock che è cambiato parecchio in questi anni - racconta il sessantenne - e, se ci penso, nemmeno mi sono reso conto di come il tempo sia passato così rapidamente: più veloce di una moto lanciata in rettilineo!".

Qual è la prima differenza che noti?

"Rispetto a quando correvo io, il più grande cambiamento è arrivato con l’avvento dei social media; prima non avevamo smartphone e oggetti di questo tipo e noi piloti sembravamo personaggi tratti da racconti dei libri. Ora, invece, sembra di vivere in un film. Foto, filmati... tutto deve essere divulgato e condiviso subito, magari in diretta. Per questo motivo, forse, andare alle gare è meno eccitante, perché non esiste l’effetto sorpresa. Ma le corse restano divertenti e appassionanti in ogni pista in cui andiamo".

Tu hai calcato ogni circuito mondiale.

"Sì, e l’atmosfera che trovo è sempre diversa. L’evoluzione del professionismo ha portato grandi miglioramenti in ogni settore. In termini di sicurezza, ovviamente, tra passato e presente non ci sono paragoni: adesso le piste sono sicure e si lavora continuamente per incrementare questo aspetto. Sono arrivate anche le mega hospitality, i ristoranti e abbiamo servizi di ogni tipo".

Cosa c’è in comune con i tempi in cui davi spettacolo e vincevi (13 GP) in 500, invece?

"Ciò che non è immutato è il carisma. Per esempio, nei paddock italiani il fascino è rimasto lo stesso, l’atmosfera è magica e i fans sono unici. Peccato non si vada più a Imola o Monza, ma abbiamo ancora Misano e Mugello, due posti unici e rimasti fedeli alle proprie origini: ci sono sempre belle donne e il Sole splende ogni giorno".

Anche tu sei solare.

"Io sono sempre me stesso nel paddock, mi piace il mio lavoro, adoro le persone e posso dire di andare d’accordo con tutti e non nego il mio tempo a nessuno. Ho notato che anche Valentino Rossi è così. Mi viene in mente un episodio: quando Valentino correva con la Ducati, io e lui eravamo nell’hospitality Philip Morris per una conferenza stampa. A sessione finita, mi accorsi che avevamo di fronte 100 persone, gli dissi: 'Ehi, guarda quanta gente abbiamo davanti'. E lui rispose: 'Sì, dobbiamo sempre andare verso di loro e concedere foto e autografi'. Quello è stato un atto di grande rispetto da parte sua, ecco perché ha sempre 100 persone che lo seguono. Valentino merita il successo e in questo aspetto credo di somigliargli".

C’è un Randy Mamola tra i piloti del presente?

"Secondo me ogni pilota è unico nel suo genere. Abbiamo tanti giovani in Moto3, che sono dotati di grande carisma e personalità. In Moto2 pure, ma oggi occorre essere sempre molto seri, con un’attitudine mentale impostata. Le Case vogliono piloti molto professionali e chi mette i soldi desidera personaggi sobri e mai fuori dagli schemi. Le conferenze stampa somigliano a quelle della Formula 1, il modo di celebrare le vittorie è cambiato totalmente: io ero uno dei primi a lanciare stivali, guanti, addirittura una volta mi sono seduto tra il pubblico. Dopo di me è arrivato Rossi, Valentino è stato uno degli ultimi piloti a cambiare le abitudini del festeggiamento di una vittoria".

C’è un filo di nostalgia nelle tue parole, che ora rischia di aumentare: perché gli americani non vengono più al Mondiale?

"Negli anni ‘70 c’erano Dirt Track, Short Track e le gare in pista a costituire il Grand National Championship. Kenny Roberts fu il campione tre volte consecutivamente, poi venne in Europa, sbaragliando subito la concorrenza in 500. Questo aprì la strada a parecchi statunitensi, tra cui il sottoscritto. In tanti siamo arrivati nel Mondiale, ottenendo grandi risultati, in una scia prolifera e positiva".

Yesterday: Kenny Roberts Junior

Poi cos’è successo?

"La stessa AMA ha conosciuto grande successo. Marche come Suzuki, Yamaha, Honda, Ducati e Kawasaki hanno dato vita a una fantastica battaglia tecnologica e per i corridori è diventato sempre più difficile accettare di venire in Europa, perché di là guadagnavano molto di più. In effetti, dopo l’ultimo titolo vinto da Nicky Hayden, soltanto Ben Spies ha tentato il passaggio, Ben è andato alla grande in SBK e molto bene in MotoGP. In seguito, tante altre cose sono cambiate. Il settore racing è calato negli USA, le Case hanno smesso di investire nel campionato, perché le moto da corsa non si vendono come prima e l’AMA è quasi scomparsa. Per fortuna Wayne Rainey ha fondato il MotoAmerica, un campionato giovane che sta diventando forte, Wayne sta lavorando per farlo crescere e presto vedremo i risultati. Oltretutto, la Dorna dice 'Se troviamo americani forti, proviamo ad aiutarli'".

E arriveranno?

"Io penso che arriveranno presto, la struttura dell’American Team in Moto2 sta facendo progressi, magari vedremo una seconda squadra Suzuki nel futuro, gestita proprio dai miei connazionali. Un giorno tornerà a sventolare la bandiera a stelle e strisce dopo un titolo mondiale".

Questa impresa, a te è sfuggita.

"Nel 1981 Marco Lucchinelli si aggiudicò il Mondiale per pochi punti, alcuni episodi sfavorevoli condizionarono il mio percorso, infatti ritengo che l’elemento fortuna sia determinante, ma la Dea Bendata mi ha girato le spalle più volte. Nel 1987, con la Yamaha Lucky Strike finii dietro a Wayne Gardner e davanti a Eddie Lawson. Arrivai secondo, dopo una Honda HRC ufficiale, facendo meglio di un avversario che aveva già vinto due Mondiali. Io e Eddie guidavano la stessa moto, l’unica differenza è che io avevo gomme Dunlop e lui Michelin. Battere Lawson fu come conquistare un titolo, per me".

Hai qualche rimpianto? 
"Sì, vorrei dire “Ehi, sono campione del Mondo”. La Dorna mi ha conferito credibilità con il titolo di Legend, ho consultato il dizionario per capirne il significato...".

E… 
"Penso di non avere niente a che vedere con quel significato e nemmeno con i sinonimi".

Troppo modesto.

"Casomai, chiamatemi 'appassionato'. Ecco, sì: appassionato è la parola giusta per me".

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