La storia di Barry Sheene, fenomeno fuori e dentro la pista

La storia di Barry Sheene, fenomeno fuori e dentro la pista

Fu il primo grande specialista delle due tempi nella 500, ma soprattutto seppe varcare i confini del paddock. Come ricorda L’ex compagno di team Parrish: "Barry aveva talento, conoscenze tecniche e… le donne ai suoi piedi. È stato il Valentino Rossi della sua epoca"

Gordon Ritchie

07.07.2021 ( Aggiornata il 07.07.2021 14:54 )

Quale pilota, prima della superstar Valentino Rossi, era stato in grado di trascendere i confini del motociclismo? Se la vostra risposta sarà Barry Sheene, non sbaglierete. La popolarità dell’inglese va oltre un palmares comunque eccellente, con due titoli mondiali consecutivi nella 500, nel 1976 e nel 1977. Le vette più alte toccate da Sheene furono estreme, a mancare forse è stata la longevità. Ma in termini di glamour “esportabile” oltre il paddock e il settore delle due ruote, Sheene non ha mai temuto confronti, almeno fino a Rossi. Il quale ha ricevuto i geni da pilota dal padre Graziano, ma per molti versi Valentino è stato un erede di Sheene. Un vero Valentino prima che il vero Valentino nascesse. E proprio Rossi omaggiò Sheene dopo la scomparsa, celebrando una vittoria con il numero 7. Il numero che Barry continuò a utilizzare anche da campione in carica. Una moda che successivamente proprio Valentino avrebbe seguito.

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L'esplosione di un fenomeno


Barry “Cool” Sheene emerse in un’epoca vibrante del motociclismo britannico, capace di sfornare parecchi piloti di grande qualità. Ma Barry si distingueva rispetto ai colleghi, e non soltanto perché si trattava di un londinese, ma perché aveva un modo di porsi molto poco britannico. A conferma del quale c’era la capacità di parlare francese e spagnolo e un tutto sommato decente italiano e persino di farsi capire in giapponese. Giusto per evitare problemi di “lost in translation”. Un personaggio aperto, lontano dallo stereotipo dell’inglese diffidente, riservato e abituato a guardare dall’alto in basso. A rendere celebre Sheene fu anche la capacità di superare due terribili incidenti ad altissima velocità. Due recuperi famosi almeno quanto i due titoli che fecero da ponte dall’era di Giacomo Agostini – campione nel 1975, prima dell’inglese – a quella di Kenny Roberts, che dopo Sheene avrebbe firmato il proprio tris. A rendere famoso Sheene fu anche il documentario TV che mostrò il drammatico incidente di Daytona nel 1975, ad altissima velocità, e causato da un’avaria (lo scoppio della gomma posteriore) a 270 orari.

Nel 1976, Barry divenne l’uomo di punta del nuovo Team Suzuki-Heron, condotto dall’importatore britannico del Marchio di Hamamatsu, dopo che la Casa madre decise di abbandonare l’impegno ufficiale nelle corse. Attraverso un significativo investimento finanziario, dopo che la sua precedente attività - Lambretta - improvvisamente svanita, Peter Agg trovò subito un nuovo socio, Gerald Ronson, con una grande azienda come la Heron. Le corse erano la loro principale forma di promozione, al contrario sia per la Suzuki che per i distributori di benzina Texaco-Heron erano soltanto una parte della vasta operazione Heron, con sede nella City di Londra. Sheene fu determinante non soltanto per i risultati in gara, perché in precedenza lo era stato anche nello sviluppo della moto.

Dopo un anno con la Suzuki ufficiale dai colori bianco e blu, prima che Hamamatsu ritirasse l’impegno diretto, Barry diventò la prima guida della moto con la nuova livrea Texaco-Heron, con la Suzuki RG500, con al suo fianco i connazionali John Williams e John Newbold. I quali vinsero una gara a testa in un anno storico per la Suzuki – che monopolizzò le prime sei posizioni del Mondiale piloti della 500 – ma tutta l’attenzione era per Sheene, che si laureò campione del Mondo con cinque vittorie e un secondo posto nelle sei gare a cui prese parte. “Bazza” era il perfetto completamento della leggera RG quattro cilindri (meno di 135 kg), con misure di alesaggio e corsa 54x54 mm. Sheene dominò mostrando di aver imparato da mostri sacri come Giacomo Agostini e Phil Read, visto che non aveva avuto realmente modo di confrontarsi con Mike Hailwood. Barry divenne imprendibile sui circuiti permanenti e non più stradali, quindi più brevi rispetto a tracciati come il Tourist Trophy, e sulle nuove gomme da asciutto. Era l’inizio dell’era delle moto due tempi a farla da assolute padrone, e Sheene fu il primo grande specialista. Ma non fu soltanto per i risultati che l’inglese divenne celebre, trionfando per la prima volta nello stesso anno di un altro britannico famoso ben oltre i confini del Motorsport: James Hunt, campione in Formula 1.

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I successi


La sua celebrità, infatti, è stata superiore a piloti che avevano vinto di più o avrebbero vinto di più. Merito del talento e della personalità che Barry riusciva a esprimere anche fuori dalla pista. Ma è ovviamente nei GP che Sheene fece la differenza. Nel 1976 il dominio iniziò con i successi consecutivi a Le Mans, Salisburgo e al Mugello, poi saltò l’odiato TT (dove l’ultima esperienza risaliva al 1971) per poi rivincere ad Assen. A Spa chiuse secondo a causa di un problema di pompaggio della benzina, ma poi chiuse i conti in Svezia, dove portò la livrea Texaco-Heron (con il rosso, nero e bianco) sul tetto del Mondo. Sheene, da sempre il re degli anticonformisti, da campione del Mondo non partecipò alle gare in Finlandia (Imatra) e Cecoslovacchia (Brno) perché l’ingaggio per i piloti era basso, e saltò il Nürburgring, dove Agostini ottenne l’ultimo successo con la MV, per problemi legati alla sicurezza del circuito tedesco. Sheene vinse nonostante la presenza di una lunga vite nel femore sinistro, retaggio degli incidenti del passato.

Martyn Ogborne, coordinatore tecnico del Team Suzuki-Heron, ricordava che una delle ragioni per cui Barry guidava in maniera così fluida e bella da vedere, era legata proprio alla virtuale “impossibilità” di cadere, altrimenti sarebbero stati dolori. “Non poteva cadere con quella vite nel femore, l’avrebbe distrutta. Quindi doveva guidare in quel modo, e comunque così facendo non sarebbe andato piano, si è visto con i risultati… Era soltanto un altro modo di guidare e lui si adattò”.

Il secondo titolo, l’anno successivo, arrivò in maniera altrettanto dominante, con un nuovo modello di RG 500 a sua disposizione. Aperta la stagione con un successo in Venezuela, a San Carlos, non partecipò alla gara boicottata da gran parte dei piloti a Salisburgo per la tragedia avvenuta nella gara della 350 con la scomparsa di Hans Stadelmann, quindi vinse tre GP consecutivi a Hockenheim, Imola e al Paul Ricard. In Olanda arrivò un raro secondo posto nella gara vinta in condizioni meteo precarie dall’eroe locale Wil Hartog, ma Sheene si riscattò vincendo a Spa-Francorchamps e Anderstorp. A quel punto, in Finlandia fu sufficiente un sesto posto per conquistare il secondo Mondiale consecutivo. Saltato il GP di Brno, nella gara di casa a Silverstone fu costretto al ritiro. Non arrivò il tris, in un finale di carriera che portò comunque altri sei successi nella top class: Sheene restò nell’ambiente dei motori come apprezzato commentatore in Australia, fino alla scomparsa a soltanto 52 anni per un cancro.

Di quelle sei gare vinte, cinque furono con la Suzuki: nel 1978 fu vice campione, sempre con i colori Texaco-Heron, alle spalle di Roberts, simbolo di una nuova era che stava iniziando e della quale avrebbero fatto parte anche i giovani Marco Lucchinelli e Franco Uncini, a loro volta campioni del Mondo della 500 con la Suzuki. Non c’era più lo stile di guida naturale di Sheene, capace di domare una moto potentissima. Sheene passò alle Yamaha private, con cui corse tra 1980 e 1982, e in quest’ultimo anno ebbe una terribile caduta in prova a Silverstone. Fu il secondo recupero durissimo da affrontare, e anche in questo caso Barry ci riuscì. E riuscì a tornare in pista con la Suzuki-Heron nel 1983 e nel 1984. Mentre il rapporto tra Suzuki e Heron-GB sarebbe durato fino al 1987.

Per spiegare la leggendaria storia di Sheene, ci aiutano le parole di Steve “Stavros” Parrish, che sulla moto marchiata Texaco-Heron fu compagno di squadra di Barry, oltre che suo amico. Perché era così celebre? “Perché racchiudeva in sé tutto: accanto al pilota c’era anche un uomo con competenze tecniche, aveva lavorato sulle moto due tempi con il padre Frank, detto ‘Franco’, sin da quando aveva 12 anni” ha detto Parrish. “Lui è cresciuto da predestinato, aveva anche grande talento e fiducia nei propri mezzi. E poi era anche un bel ragazzo, aveva le donne ai suoi piedi. Aveva un po’ di tutto, era eccellente in ogni aspetto, in pista e fuori. È stato il Valentino Rossi dei suoi tempi”.

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