L'intervista, Max Biaggi in 50 pensieri: “Tutto è iniziato a Vallelunga”

L'intervista, Max Biaggi in 50 pensieri: “Tutto è iniziato a Vallelunga”© GP Agency, Archivio Motosprint

Il raggiungimento della cifra tonda, per il sei volte campione del mondo, è il momento per stilare un primo bilancio della sua vita e della sua carriera. Eccolo, in 50 argomenti

31.07.2021 18:49

Il numero 3 che con i suoi trionfi ha caratterizzato gli ultimi 30 anni della storia del motociclismo. Italiano e mondiale. Un simbolo della 250 GP, della 500 e della MotoGP, grazie anche alle sfide diventate leggendarie con Loris Capirossi, Doriano Romboni e Valentino Rossi. Il primo pilota dell’era moderna a entrare nei salotti degli italiani attraverso le sue ospitate in tv e nelle riviste di gossip grazie ai suoi flirt (presunti o reali) con top model e showgirl. Un calciatore scopertosi pilota per caso, campione dal talento innato, con una grande voglia di arrivare e dotato di uno stile di guida da far vedere durante i corsi in pista. L’eroe dei due mondi, vincente prima nel Motomondiale poi nella Superbike.

Ma Max Biaggi, sei titoli mondiali nel suo palmares, è tanto altro. A poche settimane dai festeggiamenti del suo 50esimo compleanno, abbiamo voluto intervistarlo toccando altrettanti argomenti. Sportivi e privati. Per celebrarlo nel migliore dei modi. Ecco com’è andata.

SBK, Max Biaggi: "Nel 2007 in Suzuki iniziò la mia nuova vita"

  • Sul Max bambino…

“Un’infanzia molto simile a quella di tanti miei coetanei. La famiglia, la scuola e i sogni di un bambino, che sarebbe voluto diventare un calciatore. Ho un ricordo molto nitido legato ad una foto che spesso vedo, una delle poche che ancora conservo: io a otto anni, nel salotto di casa, accanto a mio padre, con mia sorella alle nostre spalle. Indossavo la maglietta della Roma, quella bianca con il collo a V degli anni Settanta”.

  • Sui primi sogni sportivi.

“Non è legato alla moto ma alla Roma che vince lo scudetto del 1983. Era un momento di gioia, ero in strada a festeggiare con tutti i romanisti. Mi ricordo le macchine, gli altoparlanti, i colori. C’era una Dyane con il tettino aperto, con tutti i miei cugini sopra: io ero sul marciapiede, mi presero di peso e mi fecero salire a festeggiare con loro...”.

  • Sulla reazione alla vista della prima moto.

“La Yamaha TZR 250 del mio amico. Si vedeva raramente quel modello, bianco e rosso con gli scarichi neri. Bellissima”.

  • Sulla prima volta in moto.

“Da quando vidi quella TZR al primo giro a Vallelunga passò pochissimo tempo, perché fu amore a prima vista. E fu indimenticabile, un’emozione incredibile”.

  • Su Vallelunga.

“Dove tutto è iniziato. La prima volta che vidi il tracciato mi sembrò l’Olimpo della velocità. Segnò la mia prima volta ma anche l’ultima, perché ho deciso di tenere lì la conferenza di chiusura della mia carriera. Farlo mi è sembrato bello, doveroso e romantico. Ci sono tornato qualche mese fa, dopo nove anni… l’ho trovata piccola, stretta. Me la ricordavo ampia e maestosa. Forse quando smetti di correre cambiano le proporzioni”.

  • Su quando hai capito che poteva diventare un lavoro.

“Non sono mai stato un presuntuoso, ma mi resi conto che avevo qualcosa da dire già da esordiente. Imparavo velocemente, ero rapido… volevo fare una cosa e ci riuscivo, un cambio di traiettoria, una frenata più azzardata, senza fare errori. Guidare la moto per me era come mettermi le scarpe. Un gesto innato, che non mi sono dovuto costruire”.

  • Su come avresti gestito, adesso, il Max nel 1991, ai tempi dell’Europeo e dei problemi con il servizio militare…

“Sfido chiunque a non aver avuto qualche diverbio nel periodo del militare, con tanti ragazzi provenienti da diverse zone d’Italia e di estrazioni differenti. Diciamo che oggi renderei di nuovo obbligatorio il servizio militare: sopra di te c’è qualcuno che ti giudica e ti mette sulla strada giusta. E cerca di evitarti futuri guai…”.

  • Sulla tua prima al Mondiale.

“Fu in occasione di una wild card da campione europeo. Non sapevo come muovermi, non ero organizzato, non avevo un motorhome né un luogo dove trovare un attimo di concentrazione. Mi ricordo i colori delle tute dei miei avversari sul rettilineo, quando mi sfilavano Cardus, Zeelenberg, Cadalora, Chili, le scritte Marlboro. Ero abituato a vederle in televisione o in foto: fu surreale, per me, ragazzino che veniva dal nulla, stare ‘dentro questo film’”.

  • Sull’Aprilia e i tre titoli 250.

 “Il primo, a Barcellona, fu fantastico. Lo vincemmo all’ultima gara, un momento in cui ci giocammo tutto con una moto che andava forte, con un bel team e in una situazione ideale. Non potevamo non vincerla. All’ultimo giro, curva a sinistra, feci un’impennata con la moto piegatissima. Mi riuscì benissimo. Mi ricordo nitidamente il momento in cui passo sotto la bandiera a scacchi, alzo le braccia e arrivano Romboni e Capirossi, uno a destra e uno a sinistra e ci prendiamo per mano tutti insieme, sfilando in parata. Fu una bella cartolina italiana”.

  • Su Capirossi.

 “Con lui e Doriano in quel periodo eravamo i più forti. Ed eravamo tutti e tre italiani, un momento d’oro, fu emozionante viverlo insieme a loro”.

  • Su Romboni.

“Il mio ricordo va a lui che non c’è più, è stato uno degli avversari più duri da battere e ho fatto con lui una splendida parte del mio viaggio”.

  • Sulla “follia” della scelta Honda e Kanemoto.

 “Andai via perché in Aprilia non mi volevano più, fecero altre scelte. La Honda non vinceva da parecchio ma non perché non fosse competitiva… era l’Aprilia che andava tanto forte. A novembre 1996 fui costretto a trovarmi una moto, la Honda ce ne consegnò una a dicembre e una a gennaio, con il mondiale che iniziava a marzo e soltanto febbraio come mese buono per girare. Quella fu la follia vera. Ma insieme a un maestro come Erv Kanemoto, accorciammo i tempi. Non fu semplice, avevo soltanto due tecnici italiani ma fu una grande impresa premiata dalla caparbietà e dalla voglia di vincere anche in un altro contesto”.

  • Sulla prima vittoria in 500.

 Fu inaspettata. Di solito, quando sei in procinto di fare un passaggio di categoria, ti fanno salire sulla moto subito dopo la fine stagione per vari test in giro per il Mondo. Io feci soltanto Barcellona e Jerez, con il freddo di novembre, prima di andare a correre su un circuito complicato come quello di Suzuka, il più difficile e lungo del Mondiale. Feci una scelta di gomme morbide, rischiosa rispetto alle dure degli altri. Tutti si aspettavano il mio calo a metà gara, anche Randy Mamola che commentava per Eurosport. E invece, arrivai fino alla bandiera a scacchi… fu pazzesco”.

  • Sulla bandiera nera.

“Fu un grandissimo errore della Direzione Gara, che tra l’altro l’anno successivo fu “rinnovata”. Doohan disse che neanche lui vide la bandiera (gialla, nel punto dove Biaggi sorpassò, ndr), fu esposta in un punto difficile. Diciamo che il tempo fu galantuomo, perché dopo quell’episodio poi riuscii comunque a vincere altre gare e altri Mondiali”.

  • Su Doohan.

 “Un pilota caparbio, puntava sempre alla vittoria e con pochissimi punti deboli”.

  • Sull’impennata leggendaria di Brno ‘98…

 “È diventato un marchio di fabbrica. Rimasero tutti a bocca aperta, fu “buona la prima” ma devo ammettere che prima di rifarla, adesso, ci penserei due volte. È stato un episodio fantastico, fuori di testa, lontano dal mio modo di guidare, sempre molto ragionato, preciso e composto”.

  • Sui tuoi anni in 500 e MotoGP.

 “In 500 andai vicinissimo al titolo, finendo due volte secondo e una terzo mentre in MotoGP chiusi una volta secondo e due volte terzo. Furono anni incredibili, anni al top”. 

  • Sui titoli sfiorati.

 “Contava molto essere seguito da un buon team e da un’azienda che puntava alla vittoria. In Honda mi sono ritrovato a essere uno dei tanti, e non ero uno di quelli su cui la Casa puntava per vincere. In Yamaha ero il top rider ma il progetto in quel momento non era vincente come lo è stato qualche anno dopo. Lo si capiva dagli investimenti e dall’approccio. Diciamo che era fondamentale trovarsi nel posto giusto al momento giusto”.

  • Su Rossi.

 “Per quanto riguarda il nostro rapporto è tutto fermo a com’era prima, non è cambiato nulla. In quegli anni lì o vinceva lui o vincevo io, eravamo duellanti, antagonisti veri, della stessa nazionalità. Normale che si accendessero gli animi e le rispettive tifoserie. Era scontato… ma bello. Lontano dalle piste, con il passare degli anni, quando ripercorro quei momenti provo nostalgia. E ho letto che anche per Rossi è lo stesso, quando parla dei nostri duelli. È stato tutto talmente intenso, nel bene e nel male, che te lo ricordi per tutta la vita”.

  • Sul passaggio in Superbike.

“Non era una cosa che volevo fare. Quando alla fine del 2005 chiusi con la MotoGP fu complicato, perché fermarsi un anno è difficile, per noi atleti. Perdi il ritmo di gara, l’occhio non è allenato, la forma fisica ne risente… guarda cosa è successo a Marquez, per capirci. La Superbike non era un’alternativa valida per me. Quando me la proposero, subito dopo l’addio alla MotoGP, risposi di no. Poi quando si ripresentarono, cambiai idea. Non l’ho mai raccontato ma l’ho vista come una missione: in quegli anni, con i vari Bayliss, Edwards, Haga, c’erano tanti corpo a corpo, la guida non era pulita forse anche per la natura stessa delle moto, delle gomme diverse e di circuiti old style rischiosi, molti pensavano che la Superbike non fosse adatta a me e al mio stile preciso. La missione era sfatare questo mito ed è stata una sfida vinta in modo incredibile”.

  • Sull’esordio con la Suzuki a Vallelunga.

“Novembre 2006, quasi 10.000 persone sul circuito di casa, tutte per me. Neanche nelle gare di campionato italiano veniva tutta quella gente a Vallelunga. Fu una dimostrazione pazzesca di affetto, vicinanza e calore da parte dei miei tifosi. Una giornata da ricordare”.

  • Sui titoli con l’Aprilia in SBK.

“Fu la prima moto a quattro tempi vera realizzata dall’Aprilia, e fatta interamente a Noale. Era una bella sfida, difficile, ma avevo buone sensazioni. La mia idea iniziale era di tornare a ‘casa’, ritrovare il concetto di famiglia che avevo vissuto in Aprilia con i titoli degli anni Novanta. Con Dall’Igna, Mercanti e Sacchi, prima di parlare di durata del contratto e soldi, chiesi di riavere la mia squadra degli anni Novanta. Gigi mi rispose che era impossibile perché erano impegnati in altri progetti, replicai che per quanto mi riguardava il discorso finiva lì perché il mio sogno era aprire un ciclo vincente in Superbike con un pro getto ambizioso, andando a contrastare il dominio Ducati. E per farlo ci serviva un’armata, persone valide professionalmente ma che conoscevano Max sia dentro che fuori la pista, nella felicità e nella sofferenza: Giovanni Sandi, Gianni Berti, Loris Conte... Dopo dieci secondi, Dall’Igna mi disse che avrei avuto tutta la mia squadra”.

  • Sull’entrata di Marco Simoncelli a Imola.

“Fu una gara da tutto o niente. Cadde in prova e in Gara 1, era veloce ma andava molto all’arrembaggio. Non ho chiuso la porta perché volevo finire la stagione al quarto posto in campionato, che reputavo un ottimo risultato come anno d’esordio dell’Aprilia in SBK. Lui invece non inseguiva i punti, in quanto invitato. Una cosa devo dirla: se servisse a riaverlo con noi, mi farei passare di nuovo in quella curva. E lo farei ogni domenica”.

  • Sull’idea che forse in Superbike potevi arrivarci prima.

 “Sì, probabilmente è così. Avrei trovato prima serenità e altre occasioni di divertimento. E tanta soddisfazione a livello umano. Ma non avevo la testa, alla fine del 2005, per pensare alla Superbike”.

  • Sull’addio alle corse.

 “A 41 anni, dopo aver vinto per mezzo punto un altro titolo, ti trovi davanti a un bivio: o provi a vincerne uno a 42 anni ma sai già che sarà molto complicato, o fai la cosa più difficile, sapendo comunque che sei il più forte: chiudi in bellezza, lasciando da campione del Mondo la cosa che più ti piace fare. Se devo dirmi bravo, lo faccio non per le vittorie ma per aver scelto il momento giusto per l’addio”.

  • Sui record di velocità e sulle moto elettriche.

“Ho accettato una sfida in un mondo che non avevo mai preso in considerazione. Per ora ci siamo concentrati sui record sull’asfalto perché stiamo seguendo la filosofia dei piccoli passi, ma di ciò che proveremo a fare nei prossimi mesi mi incanta lo scenario, come se fosse un film: un gruppo di venti persone che parte e va in Bolivia per due settimane, a 3000 metri di altezza, in condizioni difficili, su una superficie fatta di sale che corrode tutto. Un’avventura affascinante”.

  • Sul nostro sport di oggi.

 “Mi piace molto, anche se è troppo livellato. Allo stesso tempo, devo dire che quando i fenomeni come Marquez sono in forma, riescono comunque a stravolgere tutti gli equilibri”.

  • Sul tuo team in Moto3 e sul futuro.

 “Il sogno nel cassetto è vincere il titolo della Moto3 da team owner, da persona che cura tutti gli aspetti al di là del muretto. È una sfida complessa, non scontata, in una categoria difficilissima. Forse la più difficile di tutte. Gestire piloti di 16 anni, lontani da te dal punto di vista generazionale, non è facile. Trovare la chiave affinché tutto funzioni è la vera sfida. Loro hanno una ‘vela’ ma tu devi insegnare ai tuoi piloti come prendere il vento giusto per andare il più lontano possibile”.

  • Sul lavoro romantico dei tecnici, che sta pian piano scomparendo.

“Le moto diventano sempre più complesse a livello di elettronica e il fattore umano non è più determinante come prima. In alcune aziende si punta più al lavoro degli ingegneri, agli algoritmi, che non a quello del tecnico al box ma credo che oggi l’esperienza e il vissuto, possano fare la differenza”.

  • Sul tuo essere esigente nel ruolo di pilota.

“Sono sempre stato così, in tutto quello che faccio. Anche adesso che non corro più, mi piace comunque programmare la mia giornata. Mi piace che sia tutto preciso, mi piace l’ordine e avere una tabella di marcia. Credo che una vita organizzata sia meglio di una non organizzata. Mi torna utile sempre, anche nella gestione della famiglia, per esempio. In questo modo riesco a controllare in un certo senso l’imprevedibilità degli eventi, anche se non è sempre possibile riuscirci. La vita comunque mi ha insegnato che l’avventura in molti casi, nella sua imprevedibilità, è affascinante”.

  • Su quanto è stato difficile starti vicino.

“Tutte le persone che mi sono state vicine e che hanno lavorato con me si sono sentite arricchite, professionalmente. A livello umano, non sono amico di tutti. Le amicizie si scelgono e a me è sempre piaciuto scegliere le persone da avere accanto. Mi piace meno ‘essere scelto’. E poi diffido delle persone sempre gentili e con il sorriso, perché non mi danno fiducia”.

  • Su cosa rifaresti nella tua carriera.

“Rifarei tutto, perché alla fine mi è riuscito bene".

  • E su cosa non rifaresti.

 “Non aspetterei un anno, nel 2006, per passare in Superbike”.

  • Sulla tua vittoria più bella della tua vita.

 “I miei figli Ines e Leon. Quando nacque la primogenita, aspettai in ospedale per vederla e poi partii in macchina da solo per i test del Mugello, programmati per la mattina successiva alle 9. Arrivai la sera tardi, distrutto, salutai Francesco Guidotti e mi misi subito a letto. Dopo un’ora mi svegliai per il mal di denti, un ascesso di cui non avevo mai sofferto prima, e chiamammo la guardia medica. L’emozione e la tensione per l’arrivo di Ines mi avevano giocato un brutto scherzo. Dormii due ore e poi il giorno dopo riuscii a scendere in pista e andai anche forte. Per la nascita di Leon, invece, ero già abituato… e sono andato via a un filo di gas”.

  • Su Gigi Dall’Igna.

“Una persona molto esigente, tanto capace, con una grande ambizione”.

  • Su Marino Laghi.

 “Lo considero un secondo padre. Una persona che mi ha amato moltissimo, perché dedicare 20 anni della vita a me e alla mia carriera, girando il Mondo in lungo e in largo, non significa soltanto che mi voleva bene, vuol dire che ha sposato una causa. Significa amare”.

  • Su Pietro.

“Un papà particolare, con un carattere particolare, ma sapeva sempre essere presente nei momenti che contavano. E non mi ha mai fatto mancare niente”.

  • Sulle donne della tua vita.

“Nella mia vita e nel mio mondo, la presenza femminile è sempre stata molto importante. Dalle compagne alla mamma, passando per mia figlia. Hanno sempre accompagnato la mia vita. Avere la donna più bella a fianco, per alcuni può essere un traguardo ma non è mai stato un mio obiettivo. Non mi sono mai messo in competizione, nonostante le donne che ho avuto accanto. Non mi sono mai detto: questa ragazza è bella e devo conquistarla per la sua bellezza. È sempre il frutto di un’alchimia che va oltre l’apparenza. E poi c’è la vita vera, dove nulla è scontato e nulla è regalato. Se hai l’occasione di vivere in un bel mondo, nell’élite, anche se sei pilota poi alla fine diventi uno dei tanti. E lì, il tuo essere campione non fa la differenza. Fa la differenza ciò che sei al di là delle tue vittorie in pista e della tua fama”.

  • Su Fabrizio Frizzi.

“La mia anima gemella, un amico vero a cui chiedere consigli e il fratellone che non ho mai avuto. Una persona d’altri tempi, venuta da un altro mondo, sempre pieno di entusiasmo, educato, gentile. Stavamo le mezz’ore al telefono. Quando c’era un discorso importante da affrontare, lui ci arrivava girandoci intorno, con grande delicatezza, cercando di non ferirti. Mi ricordo quando mi invitò a ‘Scommettiamo che?’, il programma in prima serata del sabato sera da dieci milioni di spettatori: lui voleva festeggiare il mio titolo mondiale facendomi entrare in studio al Delle Vittorie con l’Aprilia 250 accesa. C’erano problemi con l’antincendio, con la sicurezza… risolse tutto con il suo solito modo di fare. Venne a prendermi con la bandiera italiana. E fu fantastico. Mi manca molto e ultimamente, quando l’ho ricordato in TV con Mara Venier, io che di solito fatico a lasciarmi andare, mi sono messo a piangere”.

  • Sul mondo dello spettacolo.

“La parola spettacolo, il più delle volte la associo a un evento sportivo, proprio perché ancora sono atleta dentro”.

  • Sulla televisione.

“Sono stato il primo pilota di moto dopo tanti anni ad andare in TV, ho fatto spettacolo in quel mondo dove il più delle volte mi sono ritrovato, catapultato. Quelle volte che l’ho vissuto da dentro, anche al Maurizio Costanzo Show, per esempio, mi ha sempre affascinato sentir parlare di altri argomenti persone competenti e lontane dal mondo del motociclismo”.

  • Sull’invecchiare.

 “L’importante è farlo bene. Più vai avanti e più c’è il rischio di perdere delle persone che hanno fatto un lungo tratto di strada con te. Quello, sì, ti condiziona. Non la vecchiaia in sé. È bello invecchiare perché vuol dire che ci sei, è bello vedere amici con le rughe. Quello è il lato positivo”.

  • Sulla paura della morte.

 “Ho superato un momento difficilissimo, dopo la caduta con il supermotard. In realtà vivo una situazione particolare: ho ben impressi tutti quei momenti, nitidi, anche dell’ospedale. Ma li vedo molto lontani”.

  • Sul tuo essere attento alla solidarietà.

 “Fondai l’Associazione Andrea Tudisco in ricordo di mio cugino, adesso è una realtà che va avanti da sola e che non ha più bisogno di me in modo sistematico ma ogni anno ci sono due eventi a cui non manco mai. Mi piace pensare che ce ne siano sempre più, di queste onlus, pronte ad aiutare chi ne ha bisogno”. 

  • Sul tuo culto per la forma fisica.

 “È uno stile di vita, l’ho fatto per tanti anni, non mi ha mai pesato e penso che sia importante farlo ancora oggi, anche se con altri ritmi. Non puoi consumarti, perché di pezzi di ricambio non ne fanno, ma gestire al meglio quello che hai credo sia importante. Mi piace la disciplina sportiva, mi piace sentirmi bene e lo sport mi fa sentire bene. Non sono uno che mangia molto, non fumo e non bevo, essendo astemio. Anche se il mondo del vino, con le sue mille sfaccettature, mi ha sempre incuriosito e mi dispiace non saperne di più”.

  • Su quanto è stato difficile essere Max.

 “Non è stato complicato ‘essere Max’. Ero io, in tutto quello che ho fatto e quello che è successo. Difficile è stata la gestione di tutto ciò che avveniva fuori dalla pista. Proprio perché era quasi impossibile per me controllarla e gestirla in prima persona. Il mio essere ‘scientifico’, fuori dalla pista, non era applicabile. E anche per questo mi sono sempre fidato poco in generale, delle persone e delle donne che avevo intorno. Perché, quando sei a casa da solo e ti spogli di tutto, ti chiedi sempre perché le persone ti stanno accanto, se stanno lì per te e per farti del bene in modo disinteressato”.

  • E divertente…

“È stato bellissimo essere Max Biaggi atleta. Ho fatto qualcosa di importante per me e per gli appassionati e questo è ciò che conta”.

  • Su cosa sogni a 50 anni.

“Anche se può sembrare scontato, un mondo migliore per quelli che resteranno quando non ci sarò più”.

  • Su chi è Max Biaggi.

 “Spero che questa frase possa far sorridere i lettori di Motosprint: un artista del motomanubrio, dal cuore gentile. Non se po’ sentì, eh?”.

  • Su Motosprint.

“È sempre stato la “Bibbia” per noi credenti del mondo delle moto. Ma, ed è successo spesso nel corso della mia carriera, anche un settimanale che mi ha tutelato e che mi è stato vicino nei momenti importanti”.

Max Biaggi: “MotoGP o SBK? È la 250 la vera regina!”

  • Link copiato

Commenti

Leggi motosprint su tutti i tuoi dispositivi