Loris Reggiani: “La 250 iniziò come un ripiego, poi divenne casa mia”

Loris Reggiani: “La 250 iniziò come un ripiego, poi divenne casa mia”

"Vi approdai dopo un grave incidente in 500: doveva essere un ripiego, e invece diventò la mia categoria. Il rivale più forte è stato Harada: come Cadalora, il giapponese sembrava nato per quelle moto così leggere e agili"

15.12.2021 ( Aggiornata il 15.12.2021 20:06 )

È possibile amare alla follia una moto senza aver più voglia di risalirci, e si può essere felici anche senza aver conquistato alcun Mondiale. Loris Reggiani non ha conti da regolare con il passato, nonostante una parabola sportiva forse inferiore alle sue capacità. E con le sue 11 stagioni, il forlivese vice campione nel 1992, nonché vincitore di cinque gare nella categoria con 29 podi complessivi, è stato un’autentica bandiera del nostro motociclismo nella quarto di litro.

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Reggiani: "La 250 era un buon compromesso tra velocità e agilità"


Cosa aveva di speciale la 250?

“Sinceramente per me iniziò come un ripiego. Avevo cominciato a correre nel Mondiale in 125 (nel 1980), poi nel 1982 approdai in 500 che era la mia massima ispirazione. Ma dopo il grosso incidente che mi capitò, venni in qualche modo scaricato: non trovando una moto ufficiale né semiufficiale, mi reinventai nella 250”.

Come fu l’approdo in 250?

“Non nego che in quel momento, dopo l’incidente, ero timoroso per le 500 e avevo bisogno di tempo per trovare fiducia in me stesso. Inoltre era una categoria meno costosa e mi sarei potuto permettere di affrontarla da privato. Corsi tutto il 1984 con una vecchia Kawasaki e finii i soldi”.

Sembrava l’epilogo invece fu il preludio a un nuovo inizio.

“Già, Michele Verrini si inventò per me l’Aprilia 250 e riuscì a convincere Ivano Beggio. Dopo un po’ scoprii che la 250 era la mia categoria ideale, mi sentivo forte, padrone della situazione, riuscivo a guidarla e a svilupparla bene. Non mi è nemmeno più tornata la voglia di passare in 500. A quell’epoca non c’era la rincorsa massima alla classe regina e la 250 era comunque un campionato del Mondo”.

Moto3 e Moto2 oggi non lo sono?

“Da fuori non sembrano campionati, sono classi propedeutiche: in una c’è il limite d’età, l’altra è un monomarca. Non le chiamerei nemmeno più Mondiali".

Qual era l’aspetto più piacevole di quelle 250?

“La guidabilità, erano molto leggere e agili, pur avendo una potenza già rilevante, gli 85-90 cavalli ci permettevano di raggiungere i 270 km/h. Un buon compromesso”.

Come si guidava?

“Per quanto possibile, non bisognava mai spigolare, né ‘impiccarsi’ troppo in frenata. Andava lasciata scorrere e puntare sulla velocità di percorrenza della curva. Il motore, per spingere bene, dovevi tenerlo dagli undici ai tredicimila giri/minuto”.

L’altra faccia della medaglia erano le frequenti rotture.

“Il grippaggio era talmente normale che siamo nati con le dita della mano sinistra sulla frizione: ti aspettavi che succedesse. Il problema era quando capitavano guasti anomali, a cui non eri preparato".

Harada, il rivale più forte


Qual è il pilota più forte incontrato in 250?

“In assoluto Tetsuya Harada, perché non sono mai riuscito a trovare una curva in cui ero superiore a lui: in alcune andavamo uguale, in altre era più forte. In nessuna lo ero io, a differenza di quanto accadeva invece con gli altri, da Luca Cadalora ad Angel Nieto, da Toni Mang a Carlos Lavado. Secondo me Harada era proprio fatto per la 250, così come Cadalora, anche se Luca è andato forte pure in 500”.

E Max Biaggi?

“L’ho incontrato soltanto per due stagioni in 250 e gli sono sempre arrivato davanti in classifica. Sicuramente poi lui è migliorato ma nel triennio iridato con l’Aprilia ha vinto con una moto molto superiore. Gli riconosco invece i meriti per il trionfo con la Honda nel 1997 perché l’Aprilia era fortissima”.

Oltre all’Aprilia hai guidato anche Kawasaki e Honda: un aggettivo per quelle 250.

“Per la Kawasaki, vetusta, le moto le avevo comprate da Pierluigi Conforti ma avevano già quattro anni. Tirammo fuori un paio di cavalli, non sufficienti. Dopo le ho vendute a un collezionista di Bergamo, tranne una”.

La Honda invece?

“Una delusione per me, pensavo di avere la moto per vincere il Mondiale (nel 1989) e non mi impegnai abbastanza. Inoltre avevo una squadra di amici senza esperienza su quella moto e si vide”.

La vittoria più bella è stata...

“La prima dell’Aprilia, a Misano nel 1987. Era da qualche gara che potevamo vincere ma i problemi tecnici ce l’avevano impedito. Era una moto ciclisticamente molto ben bilanciata e in molti GP quell’anno mi ero sentito superiore agli avversari”.

Qual è stato l’anno migliore, il 1987 o il 1992 da vice campione?

“Come pilota assolutamente il 1987, anche se l’anno decisivo poteva essere il 1992. Però cominciai con un infortunio grave e inoltre nelle gare extra-europee io non rendevo, sia a livello fisico che psicologico. In Malesia per me faceva troppo caldo. Ho scoperto poi di avere un problema al fegato, valori alti della bilirubina. E poi ero sempre poco allenato”.

Come ci si preparava?

“Da soli, e io non amavo allenarmi in palestra e a casa, arrivavo in condizioni non ottimali, ma probabilmente se mi avessero imposto la preparazione fisica non avrei fatto il pilota, non ce l’avrei fatta”.

"Non ho mai saputo accontentarmi"


Rimpiangi l’assenza del tuo nome dall’albo d’oro?

“Conosco piloti che hanno vinto due o tre Mondiali e sono incazzati perché pensano che potevano vincerne quattro o cinque. Io invece mi guardo indietro e sono felice per quanto ho fatto nel motociclismo. Preferisco essere felice che non vincente ma incazzato”.

Ti riconosci alcune colpe?

“In certi anni sono stato il più forte di tutti, ma per diventare campioni del Mondo bisogna anche avere un altro talento: quello, talvolta, di sapersi accontentare. Io non ce l’avevo e se pensavo di poter vincere la gara, anche se era troppo rischioso, ci provavo sempre. Poi magari cadevo e spesso mi facevo tanto male. E poi...”.

E poi?

“Puntavo troppo sul pilota e poco sul team. Preferivo una squadra di amici a una in cui la conoscenza della moto era superiore. L’importanza della squadra, a differenza di Cadalora, l’ho capita soltanto molto tardi. E anche con i compagni di squadra puntavo su questo: nel 1993 Jean-Philippe Ruggia era più veloce di me in metà delle gare eppure quando veniva a chiedermi suggerimenti glieli davo. Faccio fatica a capire le persone che basano la loro vita sui risultati”.

Nel 1993 accanto a Ruggia, chiudesti terzo, con Loris Capirossi 2°, Biaggi 4° e Doriano Romboni 5°, ma il titolo lo vinse Harada: l’Italia gettò al vento quel titolo?

“No, quell’anno Harada era veramente fenomenale, io non mi sentivo tanto forte e Loris dice di aver avuto un problema di gomme all’ultima gara”.

Perché la 500 era la classe degli americani e la 250 quella degli italiani?

“Non l’ho mai capito. Loro venivano dalle Superbike, moto da 200 chilogrammi, forse consideravano la 250 una categoria da ridere e così la snobbavano, anche se secondo me erano superiori. Ricordo nel 1984 Wayne Rainey con una Yamaha 250 privata che andava come la mia Kawasaki: io però faticavo a qualificarmi e lui saliva sul podio, faceva cose disumane”.

Ti piacerebbe tornare a guidare una 250?

“Pur avendo tutte le Aprilia che ho guidato, e all’epoca erano il top, sono pur sempre moto di 30 anni fa. Dopo aver usato quelle moderne il rischio, salendo in sella, è di perdere quella magia, allora preferisco evitare”.

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