Mauro Noccioli: “Io, l'Aprilia, la 250: ho visto cose che voi umani...”

Mauro Noccioli: “Io, l'Aprilia, la 250: ho visto cose che voi umani...”© Milagro

"Lavorare con Rossi, Capirossi e Biaggi fu esaltante almeno quanto la 250, moto in continua evoluzione che hanno scritto la storia. Merito della nostra Federazione e dell'Aprilia"

26.12.2021 ( Aggiornata il 26.12.2021 19:01 )

Volete fare un regalo a Mauro Noccioli? Chiedetegli di raccontare i tempi d’oro della 250. Il capotecnico fiorentino vi aprirà un libro e vi racconterà aneddoti che nemmeno immaginate, con una dovizia di particolari che vi sembrerà di ascoltare una storia avvenuta ieri. Dopo aver debuttato nel Fuoristrada, vincendo 11 titoli italiani nel Motocross e una Parigi-Dakar con Edi Orioli, Noccioli approdò alla Velocità, dove negli anni ha lavorato con piloti che hanno scritto pagine indelebili: Max Biaggi, Valentino Rossi e Loris Capirossi.

Mauro, classe 1956, è ancora affezionato alla categoria intermedia, come testimonia il ruolo di capotecnico in Moto2 nella MV, ed è ancora motivato da una passione sconfinata per la tecnica, che lo ha sempre spinto a lavorare fino a notte fonda nel box.

Gli anni Novanta della classe 250 sono stati per lui i più belli anche sotto il profilo tecnico per la continua evoluzione delle moto. “La 250 ogni anno introduceva qualcosa di nuovo. Per 22 anni ho sempre pensato che avesse raggiunto il massimo dello sviluppo e che si fosse al capolinea, invece ogni volta rimanevo sorpreso dallo sviluppo incessante della tecnica. I meccanici erano veri meccanici, oggi sono quasi ‘lavapezzi’: i motori sono utti chiusi, li puoi smontare e rimontare, ma come fai a creare una storia?”.

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Un viaggio tra i ricordi


Secondo te, perché quel decennio vide tanti italiani competitivi proprio in 250?

“Perché c’era una scuola forte in Italia: la Federazione aveva un altro sistema di approccio con i piloti. Ai tempi di Francesco Zerbi presidente, c’era il Team Italia, dove ho lavorato fino al 1997: fu inventato da Renato Chiarelli (presidente del Moto Club Firenze, ndr) ed era un ottimo punto di partenza. C’era la Sport Production, che era un’enorme fucina di talenti. C’era un campionato europeo lunghissimo, articolato su 11 prove, nel quale i piloti dovevano sopravvivere a varie difficoltà: gare sotto la pioggia battente in Irlanda o con la pioggerellina di Donington, che non era né da asciutto né da rain… E poi c’era anche l’Aprilia: non ci fosse stata l’idea di Leandro Scomazzon e Fabrizio Guidotti di fare le Aprilia Replica, probabilmente la storia sarebbe cambiata. Io arrivai in Aprilia ai tempi di Guidotti, e vissi in prima persona i passaggi di Aprilia Replica. Fu un’idea geniale di quegli anni. E poi c’era anche l’Open Ducados 250, il precursore del CEV, dove partecipavano molti piloti del Mondiale. Arrivavi con il ragazzino che aveva fatto l’Italiano, o l’Europeo, e gli facevi fare le gare con quelli forti: qualcosa doveva imparare per forza! Noi in Italia forse siamo stati i primi artefici di queste esperienze all’estero”.

Cosa aveva di speciale la 250?

“Tecnicamente era “la” moto da corsa. Per la 500 ci volevano “otto balle”, ti faceva venire la paura addosso, la 250 era il compromesso più bello, con un rapporto peso-potenza comunque impressionante». E per un tecnico? «Lavorare su una 250 ti dava gusto, dopo le prove si smontava la moto e si cominciavano a rifare alberi motore, bielle… quando si rimetteva in moto erano sempre le tre o le quattro di notte. L’avevamo chiamata ‘ora Rotax’. Non era una sofferenza, anzi, era un piacere: tra una sigaretta e un caffè, il tempo volava. E non eravamo soltanto noi a fare notte fonda nei box, ma tutti. E non c’era la rivalità di oggi”.

Hai qualche aneddoto?

“Ricordo il campionato europeo 1992, con il nostro Massimo Pennacchioli candidato a vincere il titolo. Lavorai fino alle cinque di mattina sul motore dell’Aprilia dello spagnolo Luis Carlos Maurel, perché facevamo anche assistenza ai clienti. Il giorno dopo in gara Pennacchioli ruppe il motore e Maurel vinse l’Europeo… mi ringrazia ancora ogni volta che lo incontro!”.

Quanto era formativo lavorare su una 250?

“Nella mia officina sono arrivato ad avere più di 70 meccanici, e sono tutti ancora nel paddock, alcuni anche come capotecnico. La formazione dei due tempi la percepisci e la sfrutti ancora. Ma se si dovesse compiere un passo indietro e tornare ai due tempi come allora, non saremmo in grado di riscrivere la stessa storia, perché quella che abbiamo vissuto è una storia partita da molto lontano, fatta di piccole cose e con un livello umano diverso. Prima la carburazione si faceva con gli spilli, il meccanico era continuamente attivo, doveva sempre inventarsi qualcosa di nuovo. È per quello che siamo cresciuti. Ora a parte gli adesivi e le verniciature non ci sono grandi cose da fare”.

Gli italiani vinsero tanto in 250, ma avrebbero potuto vincere persino di più: si diedero troppo fastidio tra loro magari danneggiandosi?

“No, c’era la rivalità che doveva esserci. Ricordo una gara in Austria con Biaggi, Capirossi e Romboni in lotta: a un certo punto Loris entrò fra i due rivali e passò per un millimetro. O quando Max Biaggi superò Van den Goorbergh all’esterno al curvone di Salisburgo e vinse la gara. Sorpassi che rimangono nella storia. Era bello vedere il rischio del pilota, ora queste cose non le vedi quasi più. E poi aggiungo una cosa”.

Quale?

“Secondo me la rivalità fra Biaggi e Rossi ha fatto bene al motociclismo: io avevo già vissuto quella fra Rinaldi e Maddii nel Motocross. Il dualismo, a partire da Coppi e Bartali, ha sempre fatto bene allo sport. C’era rivalità anche fra Biaggi, Chili e Reggiani: ricordo quando presero in giro Max per il colore fucsia delle sue manopole, e se li segnò sul taccuino. Eravamo alla sua prima wild card mondiale e mi disse: ‘Io questi due li faccio smettere di correre’".

I tre tenori


Hai lavorato con Biaggi, Capirossi e Rossi: quali erano i loro punti di forza?

“Max è stato il pioniere, ha inventato nuove forme di guida, percorrendo linee diverse, ed è sempre stato un grande staccatore. ‘Quando chiudi gli occhi e senti il cuore in gola, allora vai… poi senti moto che ti asseconda e riesce a fare la curva, ed è il top”, ci raccontava in romanesco. Nel ’91 era nel Team Italia, gli facemmo fare delle wild card nel Mondiale con una moto standard e all’epoca quella ufficiale era veramente due spanne avanti, ma al Paul Ricard si piazzò dietro a Martin Wimmer e alla sua terza gara era sesto a Donington prima di rompere…”.

Loris?

“Capirossi ha sempre gettato il cuore oltre l’ostacolo. Arrivò da noi in un momento difficile: cadeva spesso, pensava di abbandonare le corse. Ma con l’Aprilia nel ’98 si è rigenerato: fece cose stratosferiche, da talento vero. A Donington aveva il motore che detonava nel pezzo in discesa che si faceva in quinta marcia, fra il rettilineo di partenza e il curvone. Rischiava di rompere le candele e il nostro telemetrista, Mario, gli suggerì di arrivare in sesta. Lui ripartì, andò giù a canna si rifermò il giro dopo ai box con il viso bianco. Ci disse: ‘L’ho fatta in sesta, ma ho visto la Madonna’. E Mario: ‘Allora fai tutti i giri in sesta’. E così Loris vinse la gara”.

E Rossi?

“Con Valentino vincemmo il Mondiale in 125, e anche lui spostava sempre il limite: era l’ulteriore perfezionamento di quello che aveva introdotto Biaggi. Era sempre ‘oltre sull’oltre’. All’inizio cadeva molto e pochi credevano in lui, ma io vidi subito in lui la chiave di volta di quegli anni: era colui che poteva inventarsi qualcosa di nuovo. E infatti fu così. Tutti si chiedevano cosa avrebbe fatto alla fine di ogni gara”.

Altri piloti a cui sei affezionato?

“Penso a chi magari non ha vinto titoli, come quando Luca Boscoscuro arrivò decimo nel Mondiale con una moto vecchia di due anni, contro 14 moto ufficiali. Allora era così: se ci credevi, ci riuscivi”.

Com’erano i piloti di quei tempi?

“Rimanevano nel box fino a tardi, ci spaccavano i cogl.... per rifare il cambio, avevano la passione per migliorare sempre la moto… adesso rimangono più o meno mezz’ora davanti al computer della telemetria e poi si distraggono subito con il cellulare. I telefonini andrebbero eliminati dal paddock!”.

Insomma, gli anni d’oro della 250 sono un’epoca irripetibile…

“Sì, però non sono uno che vive di ricordi. La cosa più importante nelle corse, e te lo insegna proprio la 250, è guardare avanti e inventarti sempre qualcosa di nuovo”.

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