Luca Cadalora: “Vi racconto cosa aveva di speciale la 250”

Luca Cadalora: “Vi racconto cosa aveva di speciale la 250”© Milagro

Luca ricorda gli anni dei due tempi: "Con la Yamaha mi divertivo a rimontare, ma è con la Honda che ho vinto due titoli, aprendo un’epoca fondamentale per il motociclismo italiano: Kanemoto e l’HRC dissero che mi avrebbero voluto sulla loro moto"

31.12.2021 ( Aggiornata il 31.12.2021 10:59 )

Non ha avuto il palmares più ricco tra i grandi piloti italiani della 250 degli anni ’90, e con il suo atteggiamento da antidivo non è stato certamente il più noto al grande pubblico. Eppure riesce difficile trovare un pilota della nostra scuola - forse c’è soltanto Max Biaggi - nato per guidare la quarto di litro più di Luca Cadalora. E proprio il modenese, con la doppietta di titoli del 1991 e 1992, diede il via all’età dell’oro del motociclismo italiano nell’iconica classe intermedia a due tempi a cui è dedicato questo numero speciale.

Una classe che Cadalora frequentò per sei stagioni, lasciando il segno sia con la Yamaha del Team Agostini - quattro anni con sette successi complessivi - che soprattutto con la Honda di Erv Kanemoto, con cui in due campionati risultò imbattibile, aggiudicandosi due titoli grazie anche a 15 vittorie in 28 gare. Risultati figli di un talento cristallino, una guida tecnica e pulita, viatico ideale per approdare in 500, dove sarebbe salito per tre volte sul podio di fine stagione.

Cadalora: "250, una moto incredibile"


Luca, cosa aveva di speciale la 250?

“La moto era veramente molto equilibrata. Perciò il peso, le dimensioni e la potenza creavano un mezzo che davvero consentiva di essere sfruttato al 100%. Era una combinazione veramente incredibile”.

Cosa insegnava nello specifico?

A essere puliti nella guida, e questo veniva abbastanza naturale. Non si poteva guidare ‘sporco’, anche perché soltanto con un certo stile di guida potevi sfruttare la 250”.

Quanto era istruttiva per chi voleva salire di categoria?

“Erano tutte istruttive, le classi, anche la 125. Tutte insegnavano qualcosa. Imparavi a sfruttare tutto il possibile dal mezzo. Questo, poi, sarebbe servito anche dopo”.

La tua carriera nella 250 è stata suddivisa in due capitoli: Yamaha e Honda. Con la prima hai passato ben quattro anni, ma è mancato qualcosa per centrare il bersaglio grosso.

“Vincemmo delle gare, però non riuscimmo a conquistare il campionato del Mondo. La moto era fantastica, a livello di guida era superiore a tutte, però mancava un po’ di prestazione. La potenza massima era inferiore alla Honda e questo in alcune piste era un difetto che diventava importante”.

Nonostante questo sei rimasto fedele alla Casa di Iwata per tanto tempo.

“Sì, con il Team Agostini. Con la Yamaha ho sempre lavorato bene, avevo un ottimo rapporto con gli ingegneri. Il nostro era uno squadrone. Eravamo in tanti ad avere la stessa moto in team ufficiali, al mio arrivo c’erano Carlos Lavado, Juan Garriga, Jean-Philippe Ruggia, poi nel 1990 entrò il Team Roberts con John Kocinski, e fu un avversario decisamente tosto. Tra noi ci furono delle bellissime lotte e loro, anche per un po’ di superiorità a livello di team, riuscirono a vincere il Mondiale quell’anno”.

Con la Yamaha le partenze non erano il tuo punto forte, qual era il problema?

“Il via non mi penalizzava troppo, anzi, quell’aspetto mi ha consentito di fare delle belle rimonte. Più che altro mancava un po’ di velocità massima. Nonostante tutto, comunque, ricordo una vittoria bellissima a Salisburgo, nel 1990: era una pista velocissima, fu una delle vittorie più belle”.

È quello il ricordo più bello dei quattro anni con la Yamaha?

“Ne ho tanti. Un’altra gara molto bella fu quella che vinsi a Suzuka, sempre nel 1990, primeggiare lì era davvero speciale. Ho ottimi ricordi anche ad Anderstorp, in Svezia: nell’87 riuscivo a superare tutti all’esterno e poi mi riprendevano in rettilineo. Ero con Toni Mang, Reinhold Roth, che guidavano le Honda, e con Loris Reggiani che aveva l’Aprilia. Ero al mio debutto nella 250 e facevo anche cose un po’ al limite. Imparai molto da Mang, con lui in pista cominciai a capire che bisognava anche usare la testa per vincere”.

Tra Yamaha e Honda


Come avvenne il passaggio alla Honda per il 1991?

“Ci fu un avvicinamento di Kanemoto e della Casa. Parlai con loro per la prima volta in Brasile a fine ‘89. Poi durante l’anno successivo imparai a conoscere Erv. Ricordo che mi dissero che prendevano gli intermedi nei tratti guidati e dicevano che nessuno era veloce come me. Mi volevano sulla loro moto. Fu gratificante da sentire, lo ammetto”.

Cos’hai trovato in Kanemoto e nel suo team, sia a livello umano che nell’ambiente?

“Con Erv e il suo team ho veramente imparato tutti gli aspetti tecnici che riguardano la messa a punto di una moto da corsa. E poi ho compreso l’importanza delle persone che sono con te nel team: un’esperienza straordinaria. Avere una persona come Erv al box era veramente il massimo che un pilota di allora potesse chiedere, era davvero speciale. Un feeling così particolare l’ho avuto soltanto con Warren Willing, il mio capotecnico nel Team Roberts in 500”.

Ti aspettavi di vincere “facilmente” in quei due anni con la Honda 250?

“Sì, devo dire di sì. Fu anche Eddie Lawson a parlare molto bene di me a Kanemoto nel 1989, quando corse in HRC. Eddie mi aveva conosciuto in precedenza, negli anni in cui correva con Agostini ma in 500. Questo ci consentì di parlare tra noi, Eddie mi invitò anche a casa sua, a Upland, vicino Los Angeles, e passai con lui due settimane bellissime. Lawson mi disse che, andando alla Honda, avrei vinto tante gare e probabilmente il Mondiale 250, e questo mi diede una spinta in più”.

Nel 1991 vincevi spesso all’ultima curva o all’ultimo giro: avevi studiato quel tipo di strategia, ti sentivi così superiore da poter gestire come volevi?

“Non sempre c’era questa superiorità, in particolare contro l’Aprilia, ma qui parliamo soprattutto del ’92, quando la moto italiana era velocissima. Preferivo non svelare tutto il mio potenziale, per non permettere agli avversari di sapere quali fossero le mie reali possibilità. Qualche volta riuscivo a gestire, provando a vincere di misura, ma in altre occasioni scappavo, come in Ungheria nel 1992, dove il secondo (Loris Reggiani) rimediò 11 secondi”.

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Quale vittoria con la Honda ti ha dato più gusto?

“Quella di Suzuka nel 1992. Aveva piovuto tutto il weekend e continuava a piovere, e avevamo dei problemi con la gomma anteriore. La Michelin quell’anno non aveva portato gomme specifiche per la 250, ma all’anteriore usavamo una gomma fatta per la 500. Questo mi aveva creato qualche problema perché il pneumatico non si scaldava, e a un’ora della gara andai dal responsabile della Michelin a chiedere se c’era una gomma dell’anno prima. Sapevo che non potevano non portarla”.

E avevi ragione?

“Sì, e riuscii a partire con questa gomma, che non avevo usato durante le prove. Scattai dal diciannovesimo posto e nonostante questo trionfai grazie a una bella rimonta. Fu una cosa straordinaria. Ricordo che al box erano tutti in lacrime, fu una vittoria inaspettata”.

Invece quale fu il weekend più difficile con la Honda?

“Direi Hockenheim dell’anno precedente. Caddi durante le prove, mi ruppi l’apofisi di una vertebra. Mi stavo giocando il Mondiale e mi presi qualche rischio. Arrivai quarto, però fu un momento difficile. Non sentivo tanto dolore, ma quando si è in quelle condizioni, cadere di nuovo può essere pericoloso”.

Ti sei mai sentito il pilota più bello da vedere sulla 250?

“Come stile effettivamente non ero male, ma ero in buona compagnia con Max Biaggi e John Kocinski. Erano tutti piloti belli ‘stilosi’”.

Quella moto era ideale per il tuo stile di guida?

“Mi piaceva molto. Poi naturalmente sentii il bisogno di avere più potenza, di avere qualcosa di più, ed era esattamente ciò che dava la 500”.

Hai citato prima Mang, Lavado, Kocinski: qual è stato l’avversario più forte nella quarto di litro?

“Quando arrivai in 250, Lavado era il campione in carica ed era colui che aveva più talento in assoluto. Quando lo trovavo in prova pensavo: ‘Adesso vado a prenderlo’ e magari passavano due giri e non riuscivo a guadagnare un metro. Invece con tutti gli altri, quando li volevo andare a prendere ce la facevo. Per me Lavado era davvero qualcosa di straordinario per la sua velocità. Poi anche Sito Pons, campione nel 1988 e 1989, era fortissimo. Mang è stato il pilota più completo. Kocinski è stato probabilmente il più forte nel 1990. Nell’era-Honda anche Helmut Bradl era fortissimo, è stato l’avversario più tenace. Basta ricordare il finale di Misano, spalla a spalla, gomito a gomito fino alla linea del traguardo”.

Cosa dava una 250 in più rispetto all’odierna Moto2?

“Sicuramente la nostra era una moto più ‘da corsa’, più estrema, leggera, sensibile. Anche se adesso la stessa Moto2 non è facile. La limitazione in Moto2 è dovuta alle gomme, forse sono esageratamente dure e questo non fa esprimere tutti al massimo. In generale, però, i tempi cambiano, bisogna andare avanti: anche la Moto2 è formativa, chi passa in MotoGP diventa competitivo in breve tempo, quindi significa che funziona, però se la paragoniamo alla 250, sono due cose diverse”.

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