Esclusiva, Giacomo Agostini: “La Yamaha è stata una famiglia per me”

Esclusiva, Giacomo Agostini: “La Yamaha è stata una famiglia per me”© Archivio Motosprint/GpAgency

Il pilota più titolato nella storia del Motomondiale ci racconta la sua esperienza con la Casa di Iwata: "Compresi che il due tempi era il futuro e accettai la loro offerta. Non me ne sono mai pentito, mi hanno sempre trattato magnificamente"

29.01.2022 ( Aggiornata il 29.01.2022 12:57 )

Ci sono sportivi che danno il meglio con una sola squadra, arrivando a rifiutare le offerte di terzi, anche per non rinunciare all’habitat che si sono costruiti nel tempo. Giacomo Agostini non appartiene a questa specie, come dimostrò quando, a fine 1973, salutò la MV Agusta per accettare la sfida Yamaha.

Un passaggio simile a quello effettuato, 30 anni dopo, da Valentino Rossi. La destinazione è stata la stessa, ma quella è un’altra storia.

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L'approccio con Yamaha, la firma


Come avvenne il passaggio?

“Già nel 1971, Hasegawa mi avvicinò per offrirmi la possibilità di correre con loro. Ma all’epoca i motori due tempi erano ancora molto delicati e grippavano spesso, per cui rinunciai”.

Quando tornarono alla carica?

“Nel 1973, vennero in Europa e ci vedemmo a Bergamo. Avevano fatto passi da gigante, così decisi di cambiare. Avevo capito che con i quattro tempi c’era poco da fare”.

Dove firmaste l’accordo?

“Andai in Giappone a conoscere il Presidente e lì firmai. Non fu una trattativa lunga, loro furono molto onesti, mi presentarono una proposta, io dissi la mia e accettarono. Firmammo un biennale. Non ci fu né discussione né tira e molla, mi trattarono da reuccio, da campione del Mondo”.

Cosa significava ai tempi correre per una Casa giapponese?

“Fu una decisione difficile per me, andavo via dall’Italia, lasciavo la mia seconda famiglia, la MV, ma era indispensabile per continuare a vincere”.

Come si trovò in Giappone?

“Molto bene, restai là 15 giorni a collaudare la nuova OW20 a Fukuroi, la pista di prova della Yamaha. Giravo dalle nove e mezza alle dodici e mezza, poi dalle due alle cinque del pomeriggio, era come andare in fabbrica”.

E fuori com’era?

“Molto bene, mi portavano a cena, in ristoranti carissimi, si vedeva che erano orgogliosi. Ma dopo un po’ capirono che non andavo pazzo per il cibo non cotto, facevo fatica. E mi mancava il pane, così incaricavano un autista che tutte le mattine andava a prendermelo, anche se poi era una specie di baguette”.

Le prime difficoltà, le successive vittorie


L’esordio avvenne a Daytona.

“Prima volta negli Stati Uniti, prima volta con una due tempi, prima volta su una pista con curvoni sopraelevati, ma vinsi. Fu meraviglioso, anche perché quando arrivai, nonostante avessi vinto tredici volte il Mondiale, Kenny Roberts affermò che era lui il campione del Mondo, sostenendo come l’America fosse il centro del Mondo, non l’Europa. A fine gara però capì...”.

Lei però scese dalla moto esausto.

“Nei GP le gare erano di 120-130 km mentre a Daytona i chilometri quell’anno furono 290 (di solito sono 321, ma per la crisi energetica la gara fu accorciata di cinque giri, ndr), così mi ritrovai disidratato a metà gara. Cercai tutte le forze che mi rimanevano e riuscii a vincere, ma poi mi fecero una flebo”.

Anche il viaggio di rientro non andò liscio.

“Un reattore dell’aereo iniziò a fare fiamme, così invertimmo la rotta per tutti i controlli e soltanto dopo qualche ora ripartimmo alla volta dell’Italia”.

L’inizio del Mondiale 1974 fu contraddittorio.

“Nel primo GP in Francia vinsi la 350 con due secondi su Teuvo Lansivuori ma in 500, dopo una brutta partenza, risalii poco alla volta dalla sesta alla prima posizione. Però poi si ruppe l’albero motore”.

In quell’istante dubitò della sua scelta?

“No perché era una moto forte, soltanto che era agli esordi, peccava di gioventù, difatti soffrì di diversi guasti, non era ancora al cento percento, anche se in Austria vinsi entrambe le gare”.

Però nel GP successivo, il Nazioni a Imola, la fortuna le voltò le spalle.

“Con la 500 restai senza benzina all’ultimo giro ma non era stata colpa degli ingegneri. Era una benzina ‘molto fumo e poco arrosto’, ai tempi in ogni pista c’era un’azienda diversa che forniva il carburante. Io la feci analizzare all’Api, di cui ero testimonial, e mi dissero che era più volatile delle altre: invece di compiere cinque km con un litro con quella ne feci quattro. Infatti, la gara successiva, per non incorrere nello stesso rischio, ne mettemmo di più e finii con ancora 10 litri nel serbatoio”.

Oltre a problemi con la moto, risultò decisiva la caduta in Svezia in cui si ruppe una spalla.

“Mi cadde davanti Barry Sheene. E pensare che avevo previsto di superarlo nel giro precedente, ma poi pensai di farlo davanti a una tribuna con 5mila persone. Quando si è giovani si vuole fare i gradassi, lo studiai e mi incollai a lui, ma quando cadde non potei evitarlo”.

Si consolò vincendo il titolo della 350.

“Senza quei problemi potevo fare la doppietta. La ciclistica della 500 e la sua guidabilità erano fantastiche”.

Nel 1975 invece Daytona andò male.

“In prova dopo un po’ di giri la moto borbottava, ma invece di accantonarla per un’altra, continuammo a usarla. In gara fui fermato da un componente elettrico che si surriscaldava. La moto perdeva colpi, peccato perché ero in forma splendida, avrei vinto più facilmente rispetto al 1974”.

Nemmeno nella 350 riuscì a riconfermarsi: perché?

“Alla Yamaha la 350 non interessava, e anziché in patria fecero fare il motore in Olanda. Ebbi un po’ di problemi, il telaio non andava tanto bene e non mi concentrai più di tanto”.

La stagione iniziò bene in 500.

“Vinsi in Francia e, dopo il ritiro in Austria, conquistai anche i GP Germania e Nazioni, quindi fui secondo in Olanda”.

Ma poi ci furono il ritiro in Belgio e una nuova caduta in Svezia.

“Prima della partenza decisi di sostituire l’anteriore per cambiare mescola. Ai tempi le gomme si montavano con acqua e sapone, ma al primo giro si girò il copertone sul cerchio e si strappò. All’MV Agusta mettevano una vite tra cerchio e gomma perché avevano grande esperienza, in Yamaha non ci avevano pensato”.

A due gare dal termine Phil Read con l’MV si ritrovò con 81 punti ridotti a 71 per gli scarti, lei a 57 con la possibilità di intascare tutti i punti delle due gare restanti. Iniziò ad avere paura?

“Più che paura c’era tensione: lo volevo a tutti i costi, quel titolo. Era l’obiettivo mio e anche della Yamaha. Mi avevano preso per vincere sia Daytona che il Mondiale della classe regina”.

E ci riuscì grazie al primo posto in Finlandia e al secondo in Cecoslovacchia: cosa significò per lei quel titolo?

“Dimostrai che anche con un’altra moto ero vincente. Ero diventato il primo a dare il titolo alla Yamaha sia in 350 che in 500”.

L'addio del 1976, il ritorno nel 1982 come team manager


Però nel 1976 tornò a guidare le MV, alternandole alle Suzuki. Perché?

“La Yamaha si era ufficialmente ritirata, è stata una strategia che non ho mai capito. Anche nel 1977 usai le Yamaha dell’importatore italiano”.

E con una Yamaha vinse la sua ultima gara, a Hockenheim in 750.

“In quella stagione molte cose andarono storte, anche con la 750 ebbi problemi, ma chiusi in bellezza. Però poi nel GP italiano con la 350 grippai all’ultimo giro mentre stavo vincendo. Mi dissi che me ne stavano succedendo un po’ troppe, pensai fosse un segno, dovevo lasciare il posto a qualcun altro”.

Vi siete ritrovati anni dopo.

“Nel 1982 creai il Team Marlboro Yamaha, io mi facevo carico di tutte le spese e della gestione. Insieme abbiamo vinto altri tre Mondiali con Eddie Lawson”.

Cosa rappresenta per lei la Yamaha?

“Ho ricordi bellissimi, ascoltavano tutte le mie richieste, hanno avuto una fiducia incondizionata. Per me è stata come un’altra famiglia”.

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