Yamaha Mondiale: Kenny Roberts, il marziano

Yamaha Mondiale: Kenny Roberts, il marziano© Archivio Motosprint/GpAgency

I tre titoli di King Kenny non raccontano tutto del suo impatto: aprì un'era vincente per Iwata rivoluzionando lo stile di guida e aumentando il valore sindacale dei piloti. I suoi successi continuarono anche nelle vesti di manager

18.04.2022 ( Aggiornata il 18.04.2022 17:25 )

In ogni dimora da lui abitata, Kenny Roberts ha allestito un’ampia stanza, totalmente dedicata alle diverse vesti professionali interpretate. Trofei, coppe, targhe celebrative e divise, quasi tutte marcate Yamaha, azienda rappresentata con successo nella sua lunga carriera agonistica.

Tutt’oggi è difficile per il californiano decidere quale indumento da lavoro (sì, lavoro, poiché il nativo di Modesto introdusse i primi veri concetti di professionismo a due ruote) sia stato indossato con maggior piacere. Tuta da corridore o camicia da team manager? Sull’elemento protettivo di pelle, però, vi è un particolare a ricordargli come e quanto egli stesso cambiò la storia del Motomondiale e lo stile di guida in sella: le saponette, in passato chiamate “ginocchiere” poiché, di fatto, servivano a proteggere proprio l’articolazione, messa a terra subito nel suo arrivo dagli Stati Uniti all’Europa.

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Da cowboy a pilota


Tali doti, unite all’indole da impennatore vero, costituirono il frutto di un mix delle diverse attività gradite dal biondissimo e talentuoso pilota, nato come cowboy, cresciuto nel Dirt Track, e finito tra asfalto e motorhome. Era più difficile domare un cavallo, derapare su terra o dominare una 500 da Gran Premio? Durante una rievocazione storica della 200 Miglia di Imola, Kenny rispose laconico: “Dipende da quanti soldi ti danno. È semplice scegliere, se si è ben pagati”.

Ecco la sintesi del concetto formulato a fine 1977, momento cruciale di un progetto stilato dai vertici Yamaha, determinati a riconquistare l’alloro nella regina delle classi del Motomondiale. Ovvero, la serie articolata per lo più nel Vecchio Continente, dove l’incremento dei pezzi venduti sul mercato esigevano un’immagine sportiva adeguata, che rispecchiasse gli obiettivi stessi della Casa. Magari, raffigurati nell’ambito numero 1, sfoggiato da Roberts in tre stagioni consecutive, a suggellare altrettante affermazioni Mondiali ottenute nella mezzo litro (1978, 1979 e 1980), preferita a 250 e settemmezzo.

Compresa l’esigenza di ben figurare specialmente nella 500, il “marziano” – nickname meritato grazie proprio all’uso degli arti inferiori nel far voltare più velocemente di chiunque la moto – lasciò perdere le altre classi nonostante i successi di tappa conseguiti, impegnandosi al massimo soltanto in quella che restò sino all’avvento della MotoGP a quattro tempi la regina del motociclismo.

Per merito del tris di re centrati con la testa dentro al casco e grazie a ulteriori soddisfazioni conseguite guardando le azioni dal box, con il tris di Wayne Rainey, KR ha lasciato nell’ambiente segni indelebili. Innanzitutto, in Yamaha, Casa con la quale ha vinto titoli da pilota, certo, ma pure da dirigente ha brillato di gran luce (trionfando anche con John Kocinski nella 250). Nell’orbita di Iwata, l’americano ha fatto meglio anche di Agostini: in sella alla Yamaha 500, Ago salì sul tetto del Mondo per l’ultima volta, però King Kenny scalò ancora di più le liste preferenziali degli addetti ai lavori dell’azienda.

Forse perché il coinvolgimento dei giapponesi era sempre in crescendo, forse per il numero di forti rivali battuti su altrettanto competitive cavalcature nipponiche, con la Suzuki che veniva dai due titoli di Barry Sheene. Rispetto a Mino, suo rivale anche da manager, Roberts parlava, dicendo tutto ciò che pensava, senza filtri né peli sulla lingua.

Le vittorie, l'autorevolezza dentro e fuori la pista


I successi della pista erano accompagnati dal carisma nel paddock. Un carisma alimentato dal pilota giallo-nero, previo camion posteggiati a formare un quadrato, dove entrava soltanto chi poteva. Il fido meccanico e amico Kel Carruthers era uno dei pochi. Gli altri, rimanevano fuori. Il simbolo del Circus auspicava, anzi, pretendeva circuiti più sicuri, ingaggi più corposi, copertura televisiva degli eventi e unione tra i protagonisti del campionato.

O meglio, avrebbe voluto unirli nelle World Series, forte delle spiccate capacità oratorie, sindacali e gestionali: Mi parve presto chiaro un aspetto: per crescere, si doveva collaborare. Ognuno invece faceva i propri interessi, per una coperta sempre corta, da una parte o dall’altra. Per ottenere qualcosa, dovevano rimanere uniti. Altrimenti, saremmo andati a correre ancora in posti schifosi come Imatra”.

Infatti, il detestato GP Finlandia uscì dal calendario iridato e fu soltanto l’anticipo di un fenomeno in costante crescita. Il dado era tratto, come l’idea del ranch, varata ben presto: “Se lì attorno ci galoppano i cavalli, possono farlo pure le moto”. Ecco qui una delle tante iniziative poi ‘copiate’ e perfezionate anni dopo: una grande fattoria, adibita all’allenamento totale su sterrato, con mezzi nella piena filosofia USA, dove le manovre si effettuano praticamente sempre di traverso: “Esaltiamo controllo e sensibilità, per risultare veloci anche sull’asfalto. Un giorno di tanti anni fa, David De Gea mi chiese se volessi diventare suo manager. Voleva vincere le gare, mi disse. Gli proposi di venire da me al ranch. Dopo avrei deciso”. Lo spagnolo si presentò di buon mattino in loco, una struttura appositamente realizzata nei pressi di Barcellona, replica di quella californiana.

Kenny era già lì e, guardandolo bene, era evidente la faccia di uno in piedi da qualche ora. Roberts fece scegliere a David la miglior moto del lotto, prendendo per sé, invece, la più lenta. Non ci fu storia: l’esperto superava il giovane all’interno e all’esterno, in staccata e accelerazione. A sessione conclusa, il commento: “Ragazzo, non sei pronto per il titolo della 500. Ripassa quando lo sarai. Io torno a dormire”.

Il racconto aiuta a capire come al marziano non fosse bastato aver battuto avversari del calibro di Barry Sheene, Johnny Cecotto, Pat Hennen, Marco Lucchinelli e Virginio Ferrari. Lui voleva creare e gestire talenti, dato che da loro e con loro poteva attingere proventi. Però voleva gente forte, preparata, tenace e capace di guidare sopra i problemi. Nomi come Eddie Lawson, Randy Mamola, Wayne Rainey, John Kocinski e, perché no, Luca Cadalora, tutti motorizzati Yamaha, tutti appoggiati dai marchi Philip Morris, il tabaccaio con cui l’astuto californiano fece affari d’oro e incetta di trofei.

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