La storia di Christian Sarron: "In equilibrio tra la vita e la morte"

La storia di Christian Sarron: "In equilibrio tra la vita e la morte"© Archivio Motosprint

L'intervista esclusiva al francese per 'Storie Sprint': "Ero certo che sarei morto in pista, prima o poi, come i miei colleghi. Sfidavo gli americani con moto inferiori"

Jeffrey Zani

30.01.2023 ( Aggiornata il 30.01.2023 15:32 )

Occasioni sprecate, ma senza rimpianti


Ancora sotto l’acqua, a Spa-Francorchamps, hai sprecato un’occasione d’oro.

“Anno 1988, eravamo andati via io e Wayne Gardner, sulla Honda. Lawson, terzo, a un certo punto aveva qualcosa come trenta secondi di distacco o giù di lì. Commisi un errore: iniziai a pensare nel modo sbagliato. Visto che il mio diretto rivale aveva pneumatici più morbidi dei miei e la pista andava asciugandosi dopo la grande pioggia, stavo giocando d’attesa per attaccarlo all’ultimo giro. Paradossalmente, per me era troppo facile stargli dietro. Finii per distrarmi e commettere una stupidaggine. La striscia bianca a bordo pista: ci andai sopra e… bum, a terra”.

In quel GP avevi ottenuto la terza di cinque pole consecutive. Eri il re del sabato, ma poi in gara partivi sempre male.

“Alla prima curva, la volta in cui andò meglio, fui sesto oppure ottavo. A un certo punto era diventata un’ossessione e partivo sapendo già che sarebbe andata male. E poi, riguardando le immagini in TV parecchi anni dopo, mi sono accorto che ero troppo onesto. A quanto pare ero uno dei pochi a non voler rischiare una partenza anticipata. I furbetti erano tanti, non c’era un sistema per verificare questi episodi come succede oggi. Insomma, ero sempre in ritardo”.

Dal 1987 il Mondiale è passato al via con il motore acceso, com’era invece con la partenza a spinta?

“Per me era anche peggio. Non ne capivo il senso: perché lottare per un decimo in qualifica e poi avere un sistema che ti fa perdere due o tre secondi al via? In tutto quel marasma, con il frastuono dei motori degli altri piloti che si avviavano attorno a me, non riuscivo a distinguere il rombo della mia moto e dosare il gas di conseguenza. In ogni modo, la prima delle cinque pole consecutive dell’88 l’avevo ottenuta in Austria, a Salisburgo. Scattai malissimo, nel primo giro sorpassai qualcosa come dieci piloti e mi ritrovai quarto: ora posso rilassarmi un po’, il mio pensiero, ma in una variante la pedana interna si infilò in una buca di 4-5 centimetri fra due cordoli e volai via”.

Ti costringevi a essere sempre esplosivo nel corso del primo giro.

“Ne ricordo la sensazione di estrema libertà. Non c’erano traiettorie da assecondare. Era pura improvvisazione. Passavo all’interno, all’esterno, in staccata. Dove capitava. Spingevo come un matto. Ma così mettevo anche a dura prova i pneumatici”.

L’ultima delle cinque pole consecutive arrivò nel tuo GP di casa, dove la vittoria sfuggì per un pelo.

“Nella gara del Paul Ricard volevo scappare, ma il rettilineo era lunghissimo e spesso gli ufficiali mi sorpassavano di motore. Era frustrante, ma ci ero abituato. Riuscivo a malapena a tenere la scia di Lawson, che era su una Yamaha come me, ma Factory. Nessuna possibilità di affiancarlo, figuriamoci di superarlo. E non parlo soltanto di quella gara. In quel GP ero nel gruppo di testa, mi ero scambiato qualche sorpasso aggressivo proprio con Eddie. Lui era in corsa per il titolo contro Gardner, che aveva preso un leggero margine su di noi. A un certo punto Lawson mi fece un gesto con la mano: lo interpretai come un invito a non infastidirlo troppo, vista la posta in palio. Anche se la Yamaha non aveva dato indicazioni. All’ultimo giro, con il secondo posto in ballo, decisi di non attaccarlo. Poi cambiò tutto, poiché Gardner ruppe. La vittoria divenne improvvisamente alla portata”.

Attaccasti Lawson?

“Mancavano poche curve e non ero preparato. Infilarmi avrebbe significato rischiare un pasticcio con Eddie. Il mio fu un gesto di rispetto verso la Yamaha”.

Te ne sei pentito?

“No, io sono fatto così”.

La Yamaha non ti ha mai trattato da ufficiale?

“La mia posizione era di ‘importer rider’, non di ‘factory rider’. Correvo per il loro partner francese, Sonauto. Quindi le nostre YZR a inizio anno erano uguali alle ufficiali. Poi, però, gli altri ricevevano gli aggiornamenti e io niente. Parliamo di parecchio materiale a ogni GP. Marmitte, sospensioni, evoluzioni del motore e così via. E poi, loro facevano i test e io no”.

Nemmeno in inverno?

“Niente”.

Cosa facevi nei mesi di stacco dalle gare?

“Mi tenevo in forma fisicamente. Ma soprattutto lavoravo sulla mente. Una delle routine che avevo elaborato riguardava la memorizzazione e la ripetizione di un giro di pista ideale, perfetto. Ripercorrevo tutti i movimenti da eseguire, metro dopo metro: la pressione del piede destro sulla pedana, la posizione del sedere, la direzione dello sguardo, gli oggetti che prendevo come riferimento lungo il percorso, per esempio un segnale. E poi le traiettorie, il modo di ruotare la manopola del gas. Immaginavo tutto al rallentatore: per ripercorrere un giro che in sella avrei compiuto in un minuto e mezzo, impiegavo mezz’ora. Durante i Gran Premi lo facevo la mattina appena sveglio e la sera prima di addormentarmi. A letto, in silenzio, con il corpo rilassato. Ora leggo di tecniche del genere sulle riviste di contenuti scientifici: io lo facevo più di trent’anni fa!”.

Lavoravi sulla motivazione?

“Per me era la chiave per non farsi influenzare dalla paura. Che c’era, era innegabile, ma non volevo esserne schiavo. Avevo perso molti amici piloti in pista, miei connazionali: penso a Patrick Pons, Olivier Chevallier, Michel Rougerie, Christian Leon. Ero certo che mi sarei ammazzato anch’io, prima o poi. Ma al timore rispondevo con una determinazione: volevo sentirmi libero dai condizionamenti. Sono caduto parecchio: mi sono rotto vertebre, mani, polsi, dita e via dicendo. Se non fossi stato pronto a tornare ogni volta per dare il 100%, mi sarei ritirato”.

Nel 1989, nessuna caduta in gara, ottenesti punti in tutti i GP corsi.

“Venivo dal 1988, con le cinque pole di fila ma anche quattro ritiri. Avevo dimostrato a me stesso di poter essere veloce, ma mi ero steso spesso. Serviva costanza. Terminai il 1989 al terzo posto, come già successo nell’85. Ero felice. Era il mio obiettivo”.

Passa alla prossima pagina

  • Link copiato

Commenti

Leggi motosprint su tutti i tuoi dispositivi