Mick Doohan: "Ero esigente con tutti. Odiavo perdere" | Storie Sprint

Mick Doohan: "Ero esigente con tutti. Odiavo perdere" | Storie Sprint© Archivio Motosprint

L'australiano: "Motivare il proprio gruppo di lavoro è un’arte: quando dominavo, chiedevo alla Honda sempre qualcosa in più. Come Schumi in Ferrari"

Jeffrey Zani

28.01.2024 ( Aggiornata il 28.01.2024 09:21 )

Storie Sprint: Mick Doohan


Da sempre, la due tempi nipponica a centro curva non girava, e per Doohan era un problema: così il marchio del Sol Levante aveva elaborato un telaio molto simile a quello della Yamaha, il riferimento in quel dettaglio. Che la moto “laboratorio” fosse stata realizzata soltanto per assecondare le richieste dell’australiano divenne chiaro dal terzo GP della stagione, quando il campione in carica incappò a Jerez nella caduta che lo spinse al ritiro: da quel momento, la terza moto non si vide più. Neppure l’australiano sa che fine abbia fatto. Doohan definisce questo episodio come lo specchio dell’attenzione che dedicava all’arte di motivare gli uomini HRC, con cui il rapporto era iniziato una decina d’anni prima, nel 1989, quando aveva 23 anni. Per lui, l’esordio era stato con un pacchetto tecnico lontano dai migliori: nella prima stagione aveva chiuso a meno di 30 secondi dalla vetta soltanto tre volte.

Nell’anno successivo firmò la prima pole alla terza gara e vinse alla penultima, in Ungheria. Poi la conferma, con il titolo del 1991 perso per nove punti e l’annata successiva iniziata alla grande: cinque successi e due podi nei primi sette appuntamenti, prima dell’infortunio che rischiò di diventare la tomba della sua carriera. Una gamba quasi amputata, quattro GP saltati e il titolo sfumato per quattro punti. I rivali erano Wayne Rainey e Kevin Schwantz, nemmeno loro capaci di sfuggire a barelle e infermerie in un periodo in cui il ritiro non era una scelta propria, ma la conseguenza dei problemi fisici.

Dal suo infortunio peggiore Doohan riemerse come un tornado e dal 1994 spazzò via una concorrenza rimasta orfana prima di Rainey e poi di Schwantz. Tre anni più tardi firmò il dominio più schiacciante: vinse 12 gare su 15, con l’unico zero nell’ultimo round, a ennesima prova della sua determinazione e testardaggine. A una decina di giri dalla bandiera a scacchi del GP Australia, l’ufficiale Honda guidava la corsa con un margine immenso, eppure continuò a spingere come un dannato siglando il giro veloce. Ma poi perse l’anteriore della sua NSR, provando comunque a tenerla su.

Per lui quello di Phillip Island era un circuito stregato: ci ha vinto una sola volta, l’anno dopo, a poche gare da un ritiro non programmato, a causa del volo a 180 all’ora a Jerez. Numerose fratture, tanto bastò per alzare bandiera bianca dopo aver dominato un’era. Un koala come mascotte, lo stile di guida avvitato in sella, sui fianchi delle Honda le livree Rothmans prima e Repsol poi. Fumo e lubrificante, tabacco e carburante, per un pilota con il fuoco dentro. Ma quando le cose andavano lisce come l’olio, non lo ammetteva mai. Soprattutto agli ingegneri.

Il GP della tua pole numero uno, Jerez 1990: caduto in prova, ti si incastrò una gamba nella parte posteriore della moto, tanto che i commissari impiegarono parecchio per liberarti. In gara scattasti male, recuperasti firmando il giro veloce, finendo però fuori dal podio, quarto.

“Stavo ancora cercando di capire le 500: prototipi molto leggeri, attorno ai 115 chili di peso, con telai rigidi, completamente diversi da quelli che avevo utilizzato fino a quel punto. Avevo esordito nel Motomondiale l’anno precedente, mentre nel 1988 avevo corso con una Superbike e nella stagione prima con una Yamaha 250 derivata di serie che avrà avuto meno del 30% della potenza delle mezzo litro. Il salto fu decisamente grande: mi dovevo adattare, e se fare un giro veloce era una cosa, avere la fiducia necessaria per andare al massimo in tutta la gara era differente”.

Nel 1989 avevi esordito come pilota Honda: il tuo materiale era come quello dei piloti di punta, Eddie Lawson e Wayne Gardner?

“Non direi. Se non sbaglio il mio telaio era sette versioni più indietro del loro- Poi c’era la questione pneumatici: certi ufficiali ricevevano le gomme migliori, noi prendevamo il resto. La differenza sul giro, in qualifica, poteva essere di un secondo. C’era praticamente una gara nella gara, decisa da questi aspetti”.

Era una situazione difficile da accettare?

“Diciamo che ci ho dovuto fare i conti. Poi arrivò la Suzuki, che mi fece un’offerta per il 1991: mi voleva accanto a Schwantz. Restai in Honda perché ebbi la garanzia di ottenere lo stesso materiale degli altri ufficiali. Nel team non ci sarebbe stato più un numero uno, le novità tecniche sarebbero state distribuite in modo equo”.

A proposito di Schwantz: delle cinque volate per il primo posto che vi hanno coinvolti, ne hai vinta una e perse quattro.

“Kevin era un pilota sensazionale, faceva cose straordinarie. Uno dei più talentuosi contro cui abbia corso. La sua filosofia era rischiare tutto, vincere o cadere, mentre io ero anche disposto ad accettare un secondo posto, o il miglior risultato possibile, perché pensavo che una stagione andasse affrontata così. Kevin era veloce, probabilmente il più coraggioso di tutti noi. Quando gli andava bene trionfava e festeggiava. Quando andava male, finiva con un ruzzolone. Ed è accaduto spesso”.

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