Motocross: Michele Rinaldi, orgoglio tricolore

Motocross: Michele Rinaldi, orgoglio tricolore

L'emiliano vinse da pilota e poi da manager, lanciando in orbita Puzar. "Quando iniziai a correre, la Marca era sinonimo di leggende come De Coster, Geboers, Barnett. Quando firmai con loro, la loro moto era il top dell'epoca"

03.08.2021 10:51

Gli anni d’oro di Joel Robert e Roger De Coster condussero la Suzuki a 21 titoli mondiali fino al 1984. L’ultimo di quella serie fu speciale, perché la Suzuki aveva abbandonato le competizioni nel Motocross proprio l’anno prima, nel 1983, ma lasciò a Michele Rinaldi la possibilità di correre con la 125 dell’83 anche nella stagione 1984. E quell’anno, l’emiliano divenne il primo italiano iridato nel Cross. A coronamento di una storia iniziata nel 1983, da compagno di squadra di Eric Geboers. “Ricordo benissimo quel mio primo viaggio in Giappone – dice Rinaldi – fu una forte emozione, anche per il mio tecnico Iller Aldini che mi seguiva in quella nuova avventura. Avevo corso soltanto con Marche italiane (TGM e Gilera) ed entravo in un nuovo mondo. Ci aspettavano con le moto pronte e capimmo subito che c’era un’organizzazione perfetta che pensava a tutto, non soltanto dal punto di vista tecnico. Avevamo a disposizione diverse cose da provare e stava al pilota scegliere cosa preferisse. Le moto erano probabilmente il meglio possibile in quegli anni, con una serie di successi impressionante. Quel primo anno sia con Eric che con il fratello Sylvain Geboers, che gestiva il team al Mondiale, si instaurò subito un’ottima relazione. Qualcuno avrebbe potuto pensare che, essendo il team manager il fratello del pilota, ci sarebbe stato un trattamento preferenziale, ma non si è mai verificato, e ho avuto sempre un ottimo rapporto con il team”.

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Com’era lavorare con i giapponesi?

“Sia con la TGM, ma lì ero un ragazzino, che con la Gilera, ero più coinvolto sullo sviluppo della moto, era il pilota che dava continuamente indicazioni su dove intervenire, mentre in Suzuki dovevi soltanto scegliere cosa preferivi tra il materiale che avevi già a disposizione. La 125 era una vera e propria moto ufficiale, perfetta e super affidabile”.

Tu e Geboers vinceste venti manche sulle 24 disputate nel 1983. Eric vinse il titolo, tu ti togliesti la soddisfazione di tre vittorie di GP: Lombardore, Mongay (Spagna) e Leningrado. Ma durante la stagione arrivò l’imprevedibile.

“Ad agosto, Sylvain Geboers e Hiroide Tamaki, l’ingegnere che di fatto aveva creato quelle Suzuki vincenti, si presentarono a casa mia per dirmi con grande dolore che la Suzuki si fermava nel mondo delle competizioni. C’era evidentemente un cambio di rotta dal Giappone: ‘La Suzuki è la prima a inventarsi cose innovative e vincenti nelle corse ma è l’ultima a trasferirle sul prodotto di serie... quindi dobbiamo lavorare e concentrarci sul prodotto di serie’ spiegarono. Confesso di aver pianto di fronte a quella notizia. Ovviamente nel Circus iridato fu un fulmine a ciel sereno, qualcosa di inaspettato, e la bomba scatenò una caccia al posto in un team competitivo per chi era nelle squadre ufficiali Suzuki. Sylvain ed Eric si accasarono alla Honda per il 1984, Harry Everts si fermò, Georges Jobé passò alla Kawasaki. Io, però, ero l’unico ad avere il contratto per due anni quindi mi dissero che, se volevo, potevo continuare, ma con il materiale ’83. Sapevo che quella moto era comunque competitiva. Avevo il materiale per andare avanti, ricambi, moto e tutto, ma rimaneva a me la gestione della stagione, quindi cercai gli sponsor per raggiungere il budget necessario”.

E arrivò il titolo.

“L’ultimo titolo di quelle mitiche Suzuki ufficiali, il decimo consecutivo di una Suzuki in 125... e il mio primo da team manager. Già, team manager di me stesso. Sapete che non avrei voluto vincere in quel modo, con l’infortunio di Corrado Maddii nell’ultimo GP a Ettelbruck, ma io stesso avevo subito un infortunio in quella stagione prima dell’inizio del Mondiale, nel Supercross di Bercy, e nel primo GP la spalla uscì ancora e fui costretto a operarmi saltando ben tre GP. Quell’anno vinsi comunque più di tutti, cinque Gran Premi...”.

Poi hai continuato con la tua struttura sempre con i colori Suzuki.

“Per il 1985, avendo vinto il Mondiale, in Suzuki si sentivano in dovere di farmi continuare con la mia squadra e il top management lasciò che io potessi ottenere qualcosa, ovvero delle parti speciali, quindi eravamo semiufficiali e nell’85 passai in 250. Mi lasciarono anche un paio delle 500 raffreddate ad acqua che avevano preparato per Harry Everts, moto speciali, uniche, che andavano molto bene (Rinaldi ci vinse il titolo italiano 500, nell’85, ndr) e andai avanti fino al 1987. Quando la Suzuki France, attraverso una concessionaria, mi offrì di correre la Dakar, che era da sempre un mio sogno. Accettai e corsi la Dakar, un’esperienza importante anche se finì alla nona tappa dopo una caduta e l’ennesima lussazione alla spalla”.

Quarto nel Mondiale 250 del 1985, secondo nel 1986 e ancora quarto nel 1987, ma proprio quei continui problemi fisici ti convinsero a smettere.

“Era una decisione già nell’aria e difficile da rimandare, inoltre avevo messo insieme un team strutturato tecnicamente molto bene, con gli uomini giusti e la fiducia degli sponsor e mi dissi di diventare team manager. Prendemmo un pilota per il 1988: il primo fu Rodney Smith, dalla California, e terminò la stagione 250 al terzo posto”.

Nell’89 arrivò Alex Puzar in 125 e lottò alla grande per il titolo con Trampas Parker, arrivando secondo, e nella 250 Smith finì settimo. Nel ’90 John Van den Berk e Puzar corsero con la 250; l’olandese si classificò terzo e a vincere il Mondiale fu Alex. Per il secondo titolo mondiale di un pilota italiano c’era ancora il marchio di Michele Rinaldi.

“Il contratto per il ’91 era già rinnovato per entrambi, ma a dicembre del 1990 John andò a correre a Bercy, cosa che per contratto non poteva fare (per conflitto tra lo sponsor del team e quello presente sul pettorale della gara) e dovetti rompere il contratto con lui. Quell’anno Puzar si infortunò altrimenti avrebbe rivinto, dato che a tre quarti di stagione era nettamente in testa. Quel ’91 fu l’ultimo anno con la Suzuki. Ad agosto ’90, dopo aver vinto il titolo con Puzar, la Yamaha mi chiese di correre con loro per il 1991: io lasciai aperto il discorso e a fine anno parlai con Lin Jarvis. In Giappone a novembre 1990 c’era anche Sylvain Geboers con me, e la Suzuki aveva deciso di chiudere con la 125, così si liberava anche lo spazio per Sylvain per passare in 250 con la Suzuki. Le trattative si completarono nel ’91 e avvenne il passaggio in Yamaha per il 1992”.

E arrivò il primo titolo per il team Rinaldi-Yamaha in 250 con il compianto Donny Schmit... ma tornando alla Suzuki, qual è il tuo ricordo di tutti quegli anni?

“Io ho vissuto l’epoca Suzuki da pilota e manager ma in modo piuttosto indipendente perché loro avevano chiuso con le corse. La Suzuki preparava il pacchetto e lo consegnava, non c’era uno sviluppo con i test, c’era soltanto da scegliere le diverse opzioni tecniche. Invece nel caso di Yamaha non c’era una loro organizzazione che seguiva lo sviluppo nelle gare, con molta più libertà di lavorare qui noi in Europa sulle parti speciali”.

Poi a fine 2017 la Suzuki è uscita (di nuovo) dal mondiale Motocross...

“Un pezzo importante che si è perso, importante sia per chi lo sosteneva che per i concorrenti. Sarò un po’ nostalgico ma quando io iniziai a correre, Suzuki significava Roger De Coster, Sylvain Geboers, Mark Barnett negli USA, e altri piloti che hanno fatto la storia del Motocross, miti che non si possono dimenticare. Ha lasciato un vuoto, e lo ha fatto già due volte. L’assenza della Suzuki si sente nel Mondiale. Sono scelte che purtroppo si pagano nelle vendite del prodotto per i clienti. La moto di un Marchio nel Motocross non deve per forza vincere ma deve essere di qualità e si deve vedere alle gare altrimenti sei penalizzato nelle vendite, perché il mercato è una nicchia di clienti molto competenti e esigenti. Ovviamente spero rientrino presto”.

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