Beppe Gualini: ”Riaprirei la Dakar alle bicilindriche”

Beppe Gualini: ”Riaprirei la Dakar alle bicilindriche”

Oggi capo istruttore alla DRE Enduro, il "Gualo" è stato tra i privati più veloci alla Parigi-Dakar: “La gente mi prendeva per pazzo, era come andare in guerra”

04.01.2020 20:50

Molti appassionati che hanno avuto occasione di partecipare ai corsi di guida in off-road organizzati da Ducati probabilmente già lo conoscono. E’ il capo degli istruttori che si prendono cura dei tanti che ogni anno fanno il sold-out alla scuola DRE Enduro, per impararare o affinare le tecniche di guida in fuoristrada. Ma un tempo, Beppe Gualini, ex insegnante di Educazione Fisica ("mi licenziai perchè volevo correre"), bergamasco tosto ed una sconfinata passione per le moto, è stato tra i piloti privati più veloci (il più veloce in Italia per la categoria) tra le dune del deserto, teatro di tante sfide in quella che un tempo era la Parigi-Dakar.
Una esperienza che nel “Gualo” (come viene spesso soprannominato) ha lasciato ricordi indelebili.

Eh si, vero - ricorda Gualini con un pizzico di nostalgia - quella della Dakar è stata una vera esperienza di vita, e forse la più importante per la mia di vita. Si partiva a Natale, poi a Capodanno, da Parigi, ed era come partire per una guerra, il rischio di non tornare era concreto. Una gara piena di incognite e bisognava essere pronti a tutto.”

Oggi come la vedi?

“Per me la Dakar è, e resta, una sola: quella che si correva in Africa e gestita da Thierry Sabine, il papà di questa corsa. Uno che manteneva e rispettava una filosofia vera. Era una avventura per tutti e tutti avevano bisogno di tutti. Le prime edizioni a cui ho partecipato erano davvero delle sfide con se stessi.

Sfide che forse per un pilota privato rappresentavano un ostacolo ancora più duro da superare

Ma non si creda che al periodo facesse molta differenza essere privato o ufficiale. E’ vero, i piloti che correvano sotto le insegne delle varie case avevano i camion assistenza. Ma spesso, chi correva in moto, era solo in mezzo al deserto, con distacchi anche di  oltre 40 Km. Basti pensare che si arrivava a volte al campo alle 4 del mattino con i camion di supporto che invece arrivavano alle 10, quando eravamo già ormai in marcia. Quindi tanto valeva darsi da fare da solo per sistemare la situazione.


Hai affrontato la insidie del Sahara con le tue forze. Roba che a pensarci viene la pelle d’oca...

Quando decisi di partecipare alla corsa non si sapeva nulla della Parigi-Dakar in Italia, e quando raccontai agli amici che si trattava di una maratona da farsi nel deserto lunga 20.000 Km mi presero per scemo... (grande risata, nda).

Il momento più duro?

“Il secondo anno in cui corsi, il motore della mia Yamaha si piantò in mezzo al deserto, a 200 km all’arrivo dell’ultima tappa, prima di entrare in Senegal. Ero messo male, ma non mi persi d’animo.
Senza pensarci due minuti mi tolsi lo zaino, tirai fuori gli attrezzi e tirai giù il motore dalla moto. Ma arrivò il buio ed a quel punto pensavo che per me fosse finita, perchè gli elicotteri che segnalavano i concorrenti sul percorso non mi avrebbero mai visto. A quel punto raccolsi dei rami da alcuni cespugli ed accesi un fuoco. In piena notte però, sentii il rombo di un camion, era quello della squadra Yamaha. Mi aiutarono dandomi il motore dei piloti ufficiali, ma non potevano aiutarmi nel montarlo. Erano al seguito dei piloti ed erano attardati. E c’era un problema...”

Quale?

"Il motore ufficiale era un 660, il mio un 600, e nel telaio non entrava. Fissai allora il motore alla meglio con delle cinghie al telaio e ripartii. Quando arrivai al bivacco erano ormai le 5 del mattino.  Dovevo sistemare la situazione: con l’aiuto di un meccanico montai il motore in modo corretto facendomi dei nuovi attacchi e fresando un po’ qui e un po’ lì.”


Tra voi piloti che spirito c’era?

"Questo forse rappresenta il vero cambiamento per la Dakar. All’epoca c’era una legge non scritta: aiutarci in caso di difficoltà. Per qualunque tipo di problema, tecnico o fisico. Non ti potevi permettere di aspettare il camion scopa che spesso era difficile ti raccattasse in tempo. A volte non era facile anche per l'elicottero seguire tutti. L’aiutarsi tra noi spesso poteva valere la vita.

Da quest'anno si corre in Arabia.

Per me è una cosa positiva, perchè è un po' un tornare alle origini, anche se credo sia stata una scelta per esigenze più di tipo  economico. In Africa la Dakar dava beneficio ai luoghi attraversati, anche facendoli conoscere in tutto il mondo. Purtroppo in Sudamerica ci sono piste usate anche dai locali che sono state distrutte dal passaggio della carovana. Era più un costo che un beneficio. Ed infatti mano mano negli anni sono usciti i vari paesi come Argentina, Bolivia. Era rimasto solo il Perù.

L’Arabia ha deciso di aprire al mondo i suoi territori, cercando anche sbocchi turistici. Inoltre si torna a scenari più consoni anche con tappe più impegnative.”

Quali sono i piloti che oggi vedi bene?

Devo dire che mi piacciono molto Matthias Walkner e l'americano Ricky Brabec. Sono determinati e riescono a dosare bene le forze. Un fattore che in gare così conta più della velocità pura.

Cosa vorresti oggi per la Dakar degli anni '20?

"Il mio sogno sarebbe un ritorno della navigazione oltre al ritorno delle moto bicilindriche: moto che rispecchiano il mercato attuale. Pensate che gare con le varie Honda Africa Twin, Ducati  Multistrada, KTM Super Adventure, BMW GS...!

Una sorta di SBK del fuoristrada...

Certamente! Così dai modo ai tanti possessori di queste moto, che oggi vanno per la maggiore, di sognare, vederle in azione.”

 

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