Officina: di cosa si occupa la tribologia

Officina: di cosa si occupa la tribologia

È quella scienza che studia le interazioni che hanno luogo tra superfici in movimento relativo

17.05.2021 ( Aggiornata il 17.05.2021 19:02 )

La settimana scorsa abbiamo parlato degli aspetti reologici della lubrificazione, ovvero principalmente del regime idrodinamico. Ora concentriamo l’attenzione su quelli tribologici, di importanza fondamentale nei regimi misto e limite. In tali condizioni lavorano rispettivamente i segmenti e gli accoppiamenti camma/bilanciere (o, se preferite, camma/ punteria). In questi casi, cioè quando la lubrificazione non è idrodinamica, diventa fondamentale la funzione degli additivi untuosanti e antiusura (più i modificatori di attrito, nel caso degli oli automobilistici).

Lubricity


Quando si parla di lubricity, termine ormai in uso anche da noi, si intende sia l’untuosità (cioè la slipperiness, ovvero la “scivolosità”) che l’adesività dell’olio. Idealmente quest’ultimo dovrebbe rimanere aderente alle superfici metalliche anche a motore fermo, formando un tenace film in grado di assicurare una eccellente protezione iniziale in fase di avviamento.

Alcune basi hanno già di per sé una notevolissima lubricity, mentre altre sono meno valide, sotto questo aspetto. In ogni caso, è assolutamente indispensabile una additivazione accuratamente studiata. L’esposizione all’aria crea sulla superficie dei metalli uno strato di ossido (che in alcuni casi svolge una efficace azione protettiva) il cui spessore generalmente è inferiore ai 100 nanometri. Sopra di esso vi è un sottilissimo strato di gas adsorbito (alto al massimo qualche nanometro) e più all’esterno ve ne è un altro formato da contaminanti come olio, grasso e acqua, che rimangono aderenti (in genere è spesso poche decine di nanometri). Per asportarli, onde potere rilevare i coefficienti di attrito, le superfici vengono pulite con energici solventi.

Tribologia e coefficiente di attrito


La tribologia, letteralmente, è la scienza dello strisciamento. Studia le interazioni che hanno luogo tra le superfici in movimento relativo. Spesso, però, occorre anche considerare che queste ultime non sono a contatto diretto. I tribosistemi sono costituiti da due corpi e dalla sostanza interposta (che nella lubrificazione limite è ovviamente l’olio). Il coefficiente di attrito radente statico è costituito dl rapporto tra la forza che occorre vincere per mettere in movimento un corpo (poggiante su di una superficie orizzontale) e il peso di quest’ultimo. Ovvero è la costante di proporzionalità tra la forza di attrito e la forza che agisce perpendicolarmente alla superficie di contatto. Tutti sanno che se si spinge una pesante cassa che poggia su di un pavimento si fa una notevole sforzo per metterla in movimento, ma poi basta una forza minore per continuare lo spostamento. Oltre all’attrito statico c’è infatti anche quello dinamico, e il coefficiente in tal caso è in genere del 20-30% minore. Dunque, più alto il coefficiente di attrito, maggiore la forza necessaria per spostare un corpo a contatto con un altro. Questo equivale a dire che al crescere del coefficiente in questione aumenta la forza tangenziale, cioè parallela al movimento, che può essere trasmessa, ferma restando quella che preme i due corpi uno contro l’altro (per capirci meglio, si pensi alle mescole delle pastiglie dei freni, tipico caso nel quale l’attrito è vantaggioso). Se tra la cassa e il pavimento dell’esempio precedente si mette dell’olio lo sforzo che si compie è notevolmente minore. In questo caso ci si può giovare infatti di una lubrificazione limite.

Il coefficiente di attrito in realtà non è una caratteristica dei materiali ma degli accoppiamenti tribologici. Quello dell’acciaio su PTFE (Teflon) è molto diverso da quello dell’acciaio su alluminio, per intenderci. Quando il secondo dei due materiali accoppiati non viene menzionato in genere si fa riferimento all’acciaio. Così, quando si parla ad esempio del coefficiente di attrito di un rivestimento superficiale, di norma ci si riferisce a quello che si misura in laboratorio quando esso è a contatto con l’acciaio. Le due superfici devono essere perfettamente asciutte, ma in qualche caso si indica anche il valore rilevato con le due superfici leggermente unte (o bagnate con acqua, come nel caso dell’accoppiamento tra i pneumatici e l’asfalto).

Particolarmente basso è il coefficiente di attrito del PTFE, sia su acciaio che su un’altra superficie di PTFE: 0,05 – 0,04. Anche l’accoppiamento tribologico tra l’acciaio e alcuni riporti duri delle ultime generazioni dà ottimi risultati. Spiccano in particolare alcuni tipi di DLC, che pare possano arrivare a 0,05. Può sembrare incredibile ma di recente un grande centro di ricerca americano ha sviluppato un riporto superficiale che consente di arrivare a coefficienti di attrito ancora minori.

Contraddistinti dalla sigla NFC (Near Frictionless Coatings), hanno spessori dell’ordine del micron, vengono deposti a bassa temperatura e hanno coefficienti che possono essere anche dell’ordine di 0,02 soltanto (in aria, perché sotto vuoto pare siano scesi ben al di sotto di 0,01). Quando due corpi non sono a contatto diretto esiste egualmente il coefficiente di attrito, che chiama però in causa non i loro materiali ma il fluido che li separa (regime idrodinamico) o che comunque è interposto tra le loro superfici. Nei motori di alte prestazioni la vita è particolarmente dura, per quanto riguarda la lubrificazione, per gli eccentrici dell’albero a camme e per gli organi (bilancieri o punterie) sui quali essi agiscono.

Ciò è dovuto alle altissime pressioni di contatto (non di rado superiori a 12.000 bar) e alla impossibilità di instaurare un regime di lubrificazione idrodinamico. Diventa qui essenziale il ruolo degli additivi antiusura. Quando alcuni anni fa, negli oli automobilistici, è stato ridotto il contenuto di ditiofosfato di zinco (antiusura per eccellenza) non sono stati pochi i casi di rapida ed elevata usura proprio nel reparto distribuzione. E la diminuzione di questo additivo è anche una delle cause, assieme alla minore viscosità, che rendono gli oli delle ultime generazioni inadatti all’impiego nei motori di diversi anni fa.

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