Storie Italiane, Marco Borciani: “Vi racconto le mie mille vite”

Storie Italiane, Marco Borciani: “Vi racconto le mie mille vite”© GpAgency

"Sono stato pilota e team manager, con tante soddisfazioni in Superbike. Poi è arrivata la malattia, ho scoperto che i dottori sono più spietati dei telemetristi. Ora sono tornato in pista, dove mi diverto a insegnare ai più giovani"

23.01.2022 17:15

Quarantasei, un numero importante nel mondo a due ruote. Marco Borciani ha toccato tale quota lo scorso 7 dicembre, festeggiando il compleanno nell’Hotel Ristorante La Grotta, attività familiare che ti accoglie con il sorriso e le foto di una carriera spesa tra le vesti di pilota e il ruolo di team manager. Il nativo di Desenzano è simpatico e divertente oggi esattamente come quando correva: “Prima di parlare di gare - il suo invito - condividiamo un bel brindisi, alla nostra salute. Rilassati si parla meglio”.

Hai mantenuto uno spirito giovanile.

“Il mio atteggiamento è pragmatico da una parte, istintivo dall’altra. Ricordo sessioni di prove, magari poco soddisfacenti: era inutile incaponirsi e tergiversare su errori da evitare, assetti da modificare e traiettorie da rivedere. Sapevo che, dopo una bella cena tutti in compagnia, il reset decisivo sarebbe arrivato. Infatti, il giorno dopo, senza toccare regolazioni o scervellarmi nella scelta delle gomme, riuscivo a far calare i miei tempi sul giro in maniera considerevole”.

Iniziasti a 18 anni ma ti bastò poco tempo per arrivare al Mondiale.

“Mi viene in mente quanto fu complicato il passaggio dalle piccole cilindrate a due tempi alle grosse quattro tempi. Il mio stile di guida si rivelò perfetto per le 125: nel 1997, però, mi sfuggì il titolo europeo, andato a Marco Melandri. Un infortunio pesò sul risultato finale, ma l’ambiente cominciò a parlare del sottoscritto. Nel 1999 affrontai una durissima Supersport, figurando in classica con un punto, ottenuto su una Honda CBR. Bella la 600, ma a me attirava la 1000”.

Ed eccoci alla Superbike, categoria nella quale hai completato sette stagioni.

“Spesso partivamo in 32, a volte in 36, per un livello serrato e selettivo. Credetemi, conquistare anche un singolo punto equivaleva a vincere, considerando i tanti avversari competitivi, dotati di materiale completamente ufficiale. A partire dalle coperture, buone ma introvabili per me fino a quando non cominciai a ricoprire il ruolo di collaudatore Pirelli. Quello si rivelò uno step importante, per me e per la serie, finalmente calibrata su valori attendibili. I migliori piazzamenti arrivarono di conseguenza, peccato soltanto che il tanto agognato podio non sia mai arrivato. Quando ci ripenso, mi mordo le labbra”.

In mezzo a gente come Troy Corser, Troy Bayliss, Ben Bostrom, James Toseland, Noriyuki Haga e Colin Edwards, quanto era difficile farsi largo?

“Moltissimo, però parliamo di signori piloti, corretti, autentici, con i quali adoravo misurarmi. A Kyalami seguivo la scia di Colin, lui sulla Honda VTR bicilindrica, io con la Ducati 996; l’americano mi sembrava lento a centro curva, forse lo era, poi capii una cosa: frenava forte, piegava per un breve istante, infine riapriva tutto e prestissimo. Il mio esatto contrario, rinomatamente ero super rapido in percorrenza, ma un po’ sofferente nella fase di uscita. Provai a fare come lui, e incrementai parecchio le mie prestazioni. Questo inciso spiega come si potesse imparare da rivali di quel calibro, ma illustra anche la mia volontà di mettermi sempre in discussione”.

La vita da team manager, la malattia


Ti sei messo in discussione diventando team manager.

 “Dopo buone soddisfazioni da pilota, con due titoli tricolori Superbike nel 2006 e 2007, capii di volere altro restando comunque su palcoscenici internazionali. La mia squadra ha mantenuto legami con Borgo Panigale per anni, culminati nel fatidico 2008: le punte erano Ruben Xaus e Max Biaggi, rendiamoci conto”.

Riesci a sintetizzare l’esperienza?

“Posso, ma si potrebbero scrivere libri su libri. Dico soltanto che andammo fortissimo, specialmente a Misano. Lo spagnolo con la vittoria, il Corsaro appena dietro. Battere la spietata concorrenza fu, per noi privati, una vera e propria impresa. Mi accorsi anche di una cosa: è più facile fare il pilota che il manager. Una volta tolta la tuta, tutto finisce lì. Se si indossa la camicia, il lavoro va avanti fino a notte”.

Di sonni complicati nei hai vissuti diversi. Ne parliamo?

“Volentieri, dato che ne sono uscito ulteriormente tenace. Tra il 2016 e il 2017 mi venne riscontrato un tumore all’intestino. Averlo combattuto e ritenermi vincente rimane la pagina più dolorosa della mia vita, da un lato. La più bella, dall’altro. Dipende da come la si legge. Di certo, ho imparato che i dottori sono spietati, se paragonati ai telemetristi. Il tecnico ti coccola, gira attorno alle cose, è paziente. Il medico, soprattutto se chirurgo, ti sbatte i problemi in faccia. Ovviamente, lo fa per il tuo bene. Questo è quanto ho imparato”.

Impari e insegni, allo stesso tempo.

“Lo faccio con tutto il mio cuore. Sono un Tecnico Federale e insieme a Gianluca Nannelli mi prendo cura dei giovanissimi piloti impegnati con le piccole Ohvale. Lavoro anche per la Perot 43 Camp, a fianco di Fabrizio Perotti. Mi piace seguire motociclisti di ogni fascia e bravura, specialmente i ragazzi più dotati e veloci. Con loro posso fare ciò che preferisco: dare del gran gas, è il momento in cui mi sento davvero molto giovane. Così desidero continuare a vivere”.

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