Johnny Cecotto, bello e dannato | Storie Sprint

Johnny Cecotto, bello e dannato | Storie Sprint© Archivio Motosprint

L'esclusiva: "Sconfissi Giacomo Agostini al Paul Ricard, nel giorno in cui debuttai nel Mondiale con due successi. E quanti scherzi nel paddock"

Jeffrey Zani

05.01.2024 ( Aggiornata il 05.01.2024 16:59 )

Johnny Cecotto, campione e playboy


Dal tuo racconto sembra che tu avessi doti innate: ai tuoi tempi essere un pilota di successo era un affare di puro talento, oppure c’era la possibilità di imparare e lavorare su tecnica e velocità?

“Che si trattasse di correre in moto o in auto, a mio avviso se non ce l’avevi naturale non avevi la possibilità di andare oltre un certo livello. Qualcuno ti aiutava svelandoti qualche trucchetto, magari, ma poca roba. A me accadde con Andrea Ippolito, che per esempio mi spiegò l’importanza delle scie e come sfruttarle, sganciandosi al momento giusto e poi creando della distanza per non essere ostacolati dalle turbolenze. Sono cose che aiutano, ma non fanno la differenza”.

Hai parlato dell’importatore della Yamaha in Venezuela, che ti portò da Caracas al Motomondiale. Gli sei sempre stato fedele: non hai mai ricevuto altre offerte?

“Certo, mi chiamò la Suzuki alla fine del 1975, dopo il titolo in 350. Mi volevano per la classe regina. La moto di Hamamatsu era vincente, si era già visto. Quella era la strada del professionismo, di chi voleva a tutti i costi il titolo della 500. Per me, però, era più importante la riconoscenza nei confronti di Ippolito. Non potevo lasciarlo così, dopo tutto quello che aveva fatto per me. Mi aveva portato al Mondiale e avevamo vinto. Senza di lui non avrei raggiunto certi risultati”.

Il tuo casco ha una storia interessante, la puoi raccontare?

“Nella mia prima gara ne avevo usato uno aperto, addirittura. Poi mi comprai un Bell integrale bianco che pensavo di verniciare come quello di Jarno Saarinen, il mio idolo, con le bande rosse sopra e sui lati. Allora sistemai il nastro da carrozziere e presi in mano la vernice, ma ebbi un ripensamento. ‘Devo fare qualcosa di mio, non di un altro’ mi dissi. Quindi rielaborai la base del finlandese. Ne uscì un bel lavoro, con due corna rosse che partivano da dietro e spuntavano davanti”.

Proprio nel 1972, l’anno della tua prima gara, Saarinen aveva vinto il titolo della 250 da privato: perché tifavi per lui?

“Era il grande antagonista di Giacomo Agostini, vincitore già tante volte, che a me stava antipatico. E poi lo stile di guida: l’italiano era ‘old school’, composto, mentre Jarno teneva il ginocchio fuori e correva con manubri particolari, molto spioventi. Era il confronto tra il vecchio e il nuovo”.

Con Agostini, poi, arrivasti a sfidarti in pista: l’hai mai temuto?

“Neanche un po’. A me interessava soltanto vincere. Specialmente se c’era lui”.

Nel paddock eri spesso insieme con Barry Sheene, due playboy con l’aria di chi la sa lunga e la voglia di fare una gran baldoria: è vero che avevate messo Ago nel mirino?

“Gli facemmo parecchi scherzi. I gavettoni, per esempio. Poi le donne: una sera a Imola nel nostro albergo arrivarono due ragazze di Genova, molto belle, che chiesero di Ago dicendo di avere un appuntamento. Io, anche se non era vero, dissi loro che Giacomo era uscito e che se volevano potevano venire con me a Bologna, dove stavo andando a cena. Dovevi vedere la faccia di Agostini quando mi vide rientrare in hotel con le mie nuove due amiche! Ci rimase malissimo. Ancora rido, a ripensarci”.

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